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Auschwitzland: la Cassazione annulla l'assoluzione per Selene Ticchi

 


La Cassazione ha deciso: il processo a Selene Ticchi, che il 28 ottobre 2018 durante la visita a Predappio in occasione dell’anniversario della marcia su Roma sfoggiò la ormai famigerata maglietta con la scritta ’Auschwitzland’, è azzerato. Sentenza annullata senza rinvio. Poi, se la Procura di Forlì lo vorrà, potrà "eventualmente" rifare tutto da capo.

Questo perché secondo la Suprema Corte, il fatto è diverso da come contestato dalla Procura e dai giudici di primo grado: quella di Ticchi non fu una incitazione alla discriminazione tramite ostentazione di simboli particolari, in violazione dunque dell’articolo 2 della legge Mancino, bensì un incitamento fondato sulla negazione, sulla minimizzazione in modo grave o sull’apologia della Shoah, come da ultimo comma dell’articolo 604 bis del codice penale.

Insomma: tutto da rifare. La lancetta torna indietro a cinque anni fa. E la palla torna nelle mani della Procura di Forlì, competente per territorio, che dovrà decidere se riaprire o meno un fascicolo contro la ex esponente di Forza Nuova, che in questa vicenda giudiziaria è stata rappresentata dal marito, l’avvocato Daniele D’Urso.

Ma andiamo con ordine. Tutto, come detto, inizia il 28 ottobre di cinque anni fa. Quando Ticchi, all’epoca militante di Forza Nuova (che prese le distanze dall’iniziativa) e prima ancora candidata sindaco a Budrio nel 2017 per la lista neofascista ‘Aurora Italiana’, partecipò alla manifestazione di commemorazione dell Marcia su Roma, alla cui organizzazione aveva peraltro partecipato, sfoggiando una t-shirt nera con la scritta ‘Auschwitzland’ con i caratteri della Disney. Immediato il polverone, che culminò nel rinvio a giudizio per la politica. In primo grado, la pm forlivese Laura Brunelli chiese una condanna a nove mesi e 600 euro di multa, ma il giudice invece la assolse ritenendo che il fatto non costituisse reato in quanto "mancano le prove sulla ’portata distintiva’ del logo ‘Auschwitzland’ e sul fatto che questo possa essere riferibile a un’organizzazione che nell’attualità persegue finalità di incitazione alla discriminazione", scrisse nelle motivazioni.

La Procura fece dunque ricorso direttamente in Cassazione, saltando il grado d’appello, sostenendo come al contrario il simbolo fosse ben noto e già utilizzato da altri gruppi che si fondano sull’apologia della Shoah.

FONTE: IL RESTO DEL CARLINO

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