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Quelle bombe di Milano prima di piazza Fontana

La Recensione del libro di Paolo Morando Prima di Piazza fontana, scritta da Enrico Deaglio per Robinson
L’Italia non era abituata. Le bombe, all’epoca, erano un affare del periferico Alto Adige o della lontanissima Sicilia. E invece era successo a Milano, il 25 aprile 1969, festa della liberazione: una bomba nel padiglione della Fiat alla Fiera Campionaria; e, appena due ore più tardi, un’altra all’Ufficio Cambi della Stazione Centrale. Per fortuna - ma solo per fortuna - nessun morto; ma gli ordigni era stati confezionati per uccidere, in luoghi simbolo di un paese in crescita economica, in presenza di un grande movimento di giovani studenti ed operai che chiedevano più diritti, più soldi, più libertà. La Questura di Milano fu all’altezza della situazione: in poche ore intuì la matrice ideologica degli attentati: “gli anarchici” e in poche settimane venne a capo della loro organizzazione: un gruppo di giovani e giovanissimi, finanziati e teleguidati dall’editore Giangiacomo Feltrinelli, l’amico di Fidel Castro che voleva fare la rivoluzione in Italia. Quando l’8 e il 9 agosto scoppiarono otto bombe sui treni, la polizia non potè che confermare la giustezza della sua indagine: “sono sempre loro, gli anarchici”; e il loro organizzatore sul campo è un ferroviere anarchico milanese , tale Giuseppe Pinelli. E così, quando il 12 dicembre scoppiò la bomba alla Banca Nazionale dell’Agricoltura, la polizia poté arrivare facilmente ai responsabili. Pietro Valpreda, un ballerino che tenevano sotto controllo da mesi aveva materialmente portato la bomba. Giuseppe Pinelli si era occupato della logistica. Fermato, e messo alle strette, Pinelli si suicidò buttandosi dalla finestra della Questura di Milano, a riprova della giustezza della polizia. Come i lettori sanno (i vecchi perlomeno, quelli giovani – stando ai sondaggi di opinione - non sanno niente e nessuno, peraltro, gli dice niente), le cose non andarono così.

“Prima di piazza Fontana – La prova generale”, scritto da Paolo Morando è un libro importante, un gioiello di giornalismo investigativo e un brillante saggio di microstoria. L’autore, 51 enne giornalista trentino, si era già dedicato alla storia recente con “Dancing days” e “80. L’inizio della barbarie”; a spingerlo ad interessarsi di avvenimenti successi quando lui aveva un anno, era stato il riemergere nella cronaca del nome di un compaesano, tale Paolo Faccioli, che all’epoca, diciottenne, era stato arrestato per gli attentati del 25 aprile. Che fine aveva fatto? Scoprì che faceva l’apicoltore e che aveva avuto una vita ricca e generosa. Lo intervistò, si incuriosì sempre di più. E gli altri, che avevano sfiorato “il grande disegno della strage di piazza Fontana”? Così cominciò la sua personale indagine su quell’episodio dimenticato della nostra storia recente. Il libro non è un pamphlet, non è una denuncia, non ha una tesi da dimostrare; ma i fatti che allinea sono abbastanza spaventosi. Per come eravamo, per quello che siamo diventati.

Niente “spoiler”, ma certo avrete già capito che non erano stati quei giovani anarchici a mettere le bombe del 25 aprile 1969; né avevano nulla a che fare con la strage di piazza Fontana. Furono piuttosto prescelti, costruiti, costretti a confessioni contro la loro volontà. Perché? Morando ha ritrovato i protagonisti, i testimoni, le carte e lo spirito dell’epoca. Gli atti di un processo, nel 1971 – quindi nel pieno dell’accusa a Valpreda per la bomba – in cui gli avvocati degli anarchici riuscirono a provare le menzogne della polizia; la scoperta che l’accusa si reggeva su una testimone falsa, la grottesca professoressa Rosemma Zublena (un’indimentabile Laura Betti sullo schermo); la coraggiosa requisitoria - in realtà arringa in favore degli anarchici, che orienterà la sentenza – di uno sconosciuto giovane pubblico ministero, l’unico che ebbe il coraggio di sfidare l’arroganza della Questura di Milano. Si chiamava Antonio Scopellitti, era un uomo libero. Molti anni dopo, finirà ucciso dalla mafia, proprio perché si era rifiutato di “aggiustare un processo”. C’è molto dello spirito di quei tempi, nel libro di Morando. Giornali servili, magistrati pavidi e/o collusi, poliziotti arroganti: era davvero un’Italia al di sotto degli standard di democrazia che noi oggi consideriamo (forse per eccessivo ottimismo) acquisiti. Ma il libro ha anche un valore attuale. La ricerca di Morando, partendo dal suo prologo, è arrivata molto più in là di quanto ci abbia finora fornito la ricostruzione giudiziaria. Le bombe del 25 aprile, scrive Morando, fornendo copiosa documentazione, furono collocate materialmente da Franco Freda, leader di Ordine Nuovo, in un programma di attentati che avrebbe avuto il suo seguito con piazza Fontana, poi con Peteano, poi con il finto anarchico Bertoli, poi con Brescia. Freda era protetto, fin dall’inizio della sua attività, dall’Ufficio Affari Riservati, all’epoca la potente intelligence della nostra giovane Repubblica, e di cui la Questura di Milano era mera appendice. Gli “Affari Riservati” ordinarono di accusare gli anarchici. E questi eseguirono. Per eccesso di zelo? Per quieto vivere? Perché questo aiutava la loro carriera? Per conscia collusione in un programma di eversione?

Il libro di Morando dovrebbe essere letto da tutti, in questo che si avvia ad essere il mesto cinquantesimo anniversario degli avvenimenti che cambiarono, purtroppo per sempre, l’Italia.

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