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La morte di Di Vittorio/3: le menzogne dei pentiti e le verità risapute

Marco Di Vittorio, morto di tumore dopo una strenua battaglia, è stato uno dei protagonisti della guerriglia nera. Per una volta, superando la mia maniacalità cronachistica e compilativa, invece di ricostruirne le gesta attraverso la loro ipostatizzazione giudiziaria, vi restituirò la sua lunga testimonianza su quegli anni. Uno dei tanti frutti preziosi dello straordinario lavoro di Nicola Rao, in "Il piombo e la celtica". Questi due brani sull'omicidio Zini e gli scontri di Centocelle sono tratti dalle pagine 178 e 189 (Sperling & Kupfer, 2008):
IL DELITTO ZINI - Una mattina ti svegli e ti ritrovi delle acccuse tra capo e collo, perché parte un pentito, poi un secondo, poi un terzo e alla fine te ne puoi ritrovare quindici contro.
Anche perché  una legislazione che prevede che più accuse fai e prima esci, incentiva le chiacchiere di corridoio.
Per cui, se gira voce che per Ivo Zini siamo stati noi, il pentito, per rafforzare le sue accuse, non dice "Gira voce che" ma dice, come fece Cristiano, "Me l'ha raccontato proprio Di Vittorio che è stato lui. E poi me l'hanno confermato tizio - che nel frattempo è morto - caio - che pure è morto - e sempronio" che nel frattempo si è a sua volta si è pentito e magari conferma dicendo "Sì, è vero". Quando Cristiano mi accusò dell'omicidio di Ivo Zini, dissi che glielo avevo raccontato la sera stessa a piazza Risorgimento, salvo scordarsi che quella sera c'erano i compagni, guidati da Vittadel, che stavano sfondando la sezione di via Ottaviano. Avevano dato fuoco a tutto. Per cui nel confronto con lui in aula gli chiedo: "Ricordi nulla di particolare di quella sera?". Mi risponde: "Assolutamente no, davanti alla sezione era tutto calmo e tranquillo": Allora dico: "Va bene, grazie, arrivederci". Mi pare tutto talmente evidente
GLI SCONTRI DI CENTOCELLE - Inizialmente c'era, lancia in resta, tutto il gruppo dirigente del partito a Roma. Poi, come d'incanto, si sono dileguati. Noi siamo arrivati dopo, ma si capiva che sarebbe successo un gran casino. Avevamo centinaia di litri di benzina, eravamo armati fino ai denti. E' chiaro che, quando parti così, non puoi sapere come andrà a finire. Comunque sia, la cosa iniziò come una manifestazione come tante, e poi degenerò. Ricordo che, a un certo punto, da un palazzo - sarà stato un palazzo di partigiani - che ne so cominciano a lanciarci addosso tubi, piatti, bottiglie e tazze di cesso, con la gente che urlava: "Fascisti assassini".
Sono rari i casi, nei processi degli anni di piombo, in cui ad accuse dirette dei pentiti non abbiano fatto seguito condanne per omicidio. Per la fascisteria io ne ricordo solo altri due: il falsario Bruno Deidda, che a detta di Sordi, era stato ucciso da Roberto Nistri e Pasquale Belsito perché era venuto meno all'impegno di fornire documenti per la fuga di Cavallini in Bolivia e il tipografo del Messaggero Di Leo, scambiato con il giornalista Concina. Anche in questo caso l'accusatore principale è Cristiano Fioravanti e il commando è individuato nel gruppo di fuoco di Prati. Stavolta, però, essendo settembre 1980, si aggiunge l'accusa per i mandanti dal carcere: Pedretti e Dimitri, e cioè i principali "avversari" del fratello Valerio per l'egemonia sull'ambiente lottarmatista. Curiosa coincidenza, no?
Mi pare solare, comunque, che Cristiano Fioravanti si sia inventato le circostanze della confessione sul delitto Zini, destituendola così di fondamento ma nel senso comune ("la verità si sapeva") riprodotto dalla perversa macchineria della Rete resta l'idea che ad ammazzare Zini siano stati i camerati di Prati, che sarebbero andati a sparare nel mucchio giusto all'angolo opposto della città.
In un'altra circostanza, invece, smentire il pentito sul contesto non è servito a nulla. Mi riferisco al mandato per l'omicidio Calabresi che Adriano Sofri avrebbe conferito a Marino dopo il comizio per la morte di Franco Serantini. Un dopo-comizio segnato da un furibondo acquazzone mentre il pentito aveva parlato di una tranquilla passeggiata. Ma i giurati non se ne fecero un problema... (2-continua)

2 commenti:

  1. Nicola Rao non è oro colato e le sue ricostruzioni, alle volte partano da premesse sbagliate.Nel suo blog, asserì che Freda, non era a conoscenza di avere il telefono sotto controllo e che tale circostanza era una invenzione.Salvo poi lasciare cadere il discorso, alle successive smentite. L'editore era solito esordire al telefono con una frase rituale:"Se ce un coglione in ascolto che ascolti pure..."Tutte queste lodi sperticate mi sembrano un azzardo e in palese contraddizione con quanto da te scritto sulla scarsa verifica delle fonti da parte dei giornalisti; specie aggiungo io da parte dei "pistaroli neri" dei "fontanologhi" dei "tramaioli" compresi quelli sedicenti di destra. T.V.

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  2. Nessuno è oro colato. Ma ho scritto e ripeto che Rao ha fatto un lavoro eccezionale di raccolta di tutte le testimonianze orali dei protagonisti degli anni di piombo a destra disponibili a parlare (mancano Pedretti e Aronica, manca Giuliani, Concutelli l'ha data ad Ardica). Testimonianze che poi vanno sottoposte a verifica e confutazione: io l'ho fatto, ad esempio, su Zani e ho ricostruito un percorso di edificazione della narrazione.
    Ma in questo caso, TV, resogli merito per il lavoraccio svolto Rao non c'entra un cazzo. E' solo ed esclusivamente il narrato di Di Vittorio ad essere citato e nessuno, neanche Murelli o Adinolfi che con Rao hanno aspramente polemizzato, ha mai accusato Rao di aver manipolato le narrazioni.
    Io stesso, ad esempio, gli ho contestato sul piano metodologico che le testimonianze non sono fatti ma narrazioni, appunto. Un errore epistemologico diffuso tra i giornalisti che, tanto per fare un esempio, per presentare un libro ormai preferiscono intervistare l'autore piuttosto che fare la fatica di leggerselo.
    Io da nevrotico doc rispetto tutte le ossessioni ma devi fartene una ragione: qui piazza Fontana e gli anarchici non c'azzeccano...

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