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Fascista è chi (anti)fascista fa?


A partire dalla bagarre per il saluto romano ad Acca Larentia una riflessione di Peppe Carrese sulla questione della ritualità retorica e liturgica per l'italiano medio

Ad Aurelio Lepre, Giorgio Candeloro, Vujadin Boskov. Con gratitudine

di Peppe Carrese

La ritualità e relativa controritualità noiosissime, stucchevoli del 7 gennaio hanno raggiunto quest’anno un livello di tale insopportabilità da far dare pienamente ragione alla buonanima di Indro Montanelli che, nei capitoli della sua “Storia d’Italia” dedicati al ‘900,  insiste più volte sulla irrefrenabile e incoercibile voglia dell’itagliano medio a risolvere tutto in rituale retorico-liturgico.

Ma proprio tutto:  tragedie, pallone, nascite e morti illustri, anniversari di ogni genere. Ed ovviamente, il fascismo è il (contro)rituale massimo di tutti i (contro)rituali. Tutto ciò che lo riguarda è ridotto da decenni a una orgia ritualistica da messa cantata: e il 7 gennaio, e il 25 aprile, e il 12 dicembre, e il 2 agosto, ecc. ecc. ecc.

Se ci fa ben caso, la ritualità è perfettamente identica nelle coreografie (verbali e/o adunate): cambia “solo” la fraseologia e l’armocromia: rosso-nostalgia di qua, nero-nostalgia di là. Da un lato “l’ansia di giustizia”, “l’improrogabile necessità di trovare mandanti, sottomandanti, oscure coperture blablabla”; dall’altro, il culto necrofilo del morto che però è vivo, del “sangue che trasmette agli eredi ideali del morto l’appartenenza identitaria blablabla”.

L'ignoranza come precondizione

Una cosa però accomuna perfettamente le due ritualità: la sussunzione (più o meno cosciente) dell’ignoranza in precondizione necessaria per il perfetto svolgersi del rituale. E della sua retorica.

Nel caso specifico: la riduzione di un fenomeno complesso, polivalente quale il fascismo storico a pura e sola ritualità. Parafrasando un autore ovviamente negletto in primis dagli “antifascisti”, Angelo Tasca, oggi “per conoscere il fascismo bisogna innanzi tutto ignorarne la storia”.

E infatti, la si ignora. Subito un esempio concreto e d’attualità: dice che la Meloni è (post)fascista. Magari lo fosse davvero: a chi, oggi, farebbe schifo vedersi bloccati per 4 anni prezzi, tariffe di gas luce e acqua, fitti? Proprio quello che fece il ducione: regi decreti 5 ottobre 1936 n. 1746 e 16 giugno 1938 n. 1387.

Marxisti senza teoria economica marxiana

Naturalmente, un provvedimento che oggi sembrerebbe “democratico e tantodesinistra” nascondeva il trucco. Ma per trovarlo si deve fare una cosa oggi noiosissima, di poco appeal e audience: studiare. Con buona pace di Tasca, non lo si fa. E’ forse un caso che, nel 2024, il miglior testo che studia e illustra la politica economica del fascismo resti quello di Grifone[1], scritto nel ’40? No, non lo è. E lo strano (eufemismo) è che ciò avviene in un paese infarcito (accademicamente e non) di “storici” più o meno marxisticamente orientati. E che perciò dovrebbero doverosamente spiegarci perché, giusta la celeberrima Risoluzione del VII Plenum dell’Internazionale Comunista del 1932, “il fascismo è la dittatura apertamente terroristica del capitale finanziario”. Ovviamente, prima però detti “storici” dovrebbero capire e conoscere la differenza, in chiave marxista, tra “capitale” e “capitale finanziario”. Cosa di cui, a giudicare dall’attuale mercato editoriale, non gliene importa assolutamente niente.

Dando cosi totalmente ragione al sociologo Ferrarotti, che, in un’osservazione di molti anni fa, talmente azzeccata ed esatta da assurgere al valore di canone interpretativo di decenni di studi di sedicente impronta marxiana, scriveva: «la teoria economica marxista è esattamente ciò che hanno tradizionalmente saltato i “marxisti” italiani … che da Gramsci a Togliatti hanno intrattenuto rapporti deboli se non evanescenti con l’economia»[2].

Un buco nei cataloghi

E difatti, basta la pura e semplice scorsa dei cataloghi delle grandi case editrici per constatare che il mercato editoriale scaffale “fascismo” è letteralmente saturo di studi tutti e solo a carattere e tema “sovrastrutturale”, per usare la fraseologia del (presunto) maestro dei loro autori. Ma si provi a chiedere a costoro, che so, “qual era la politica fiscale del fascismo?” o “a cosa servivano, come funzionavano i prestiti del littorio?”: nel 90% dei casi, si avrà un balbettio ovviamente retorico a base di apodittico politicismo tipo “ottenimento del consenso blablabla”. Eppure si parla di gente con tanto di cattedra (e relativo stipendio), pagata per far ricerca non per rimasticare solo fatti e persone non di rado ai limiti del pettegolezzo. Arrivati al centesimo libro su, che so, “la cultura fascista” e/o “la politica repressiva del fascismo” uno si scoccia pure.

Non è nemmeno del tutto colpa loro: giustamente, avendo famiglia, danno al mercato quel che il mercato vuole. E il mercato itagliano sbava non per capire e conoscere ma per sguazzare in un’altra sua storica e incoercibile voluttà: il pettegolezzo melodrammatico, la spettacolarizzazione, la riduzione della Storia (e della politica) a filmone da Cinecittà (peraltro istituzione fascistissima) col buono il brutto e il cattivo.

I benefici fascisti per gli operai

Altro esempio concreto: siffatto pubblico cosa direbbe di uno storico che afferma testuale che sotto il fascismo si ebbero (e più volte) «miglioramenti dei salari reali» e che il mostro fascista «introdusse miglioramenti (per la classe operaia, n.d.r.) come la gratifica natalizia, la retribuzione delle festività infrasettimanali e delle ferie, l’indennità di licenziamento e di pensionamento (ossia la “liquidazione”, n.d.r.)»; e addirittura che siffatti provvedimenti «portarono ad un aumento del salario di base di circa il 10% tra il ’37 e il ‘39»? Un lurido propagandista, un bieco nostalgico? No, è Giorgio Candeloro, assolutamente non sospettabile della benchè minima vicinanza al fascismo[3].

Nonché uno dei pochissimi storici italiani non rientranti nella categoria delineata da Ferrarotti. Anzi, per lo meno per quanto riguarda i lavori di sintesi, l’unico. E il guaio è che resta unico.

La legge fascista sul diritto d'autore

Inevitabile dunque che persino chi si ritiene edotto e colto sul tema, laddove però è stato edotto da un accademismo universitario sempre, tutto e solo “sovrastrutturale” (nell’accezione sarcastico-marxista del vocabolo) è convinto in buona fede che il fascismo sia stato tutto e solo ciò che ha letto. Beneduce chi? L’IRI cosa? “Quota 90”? e che è? Ossia, detta corta, per questi incolti ma colti ma fieramente antifascisti il loro nemico è nient’altro che un coacervo di ritualità repressivo-armocromistiche. Cui, di conseguenza, va e deve essere contrapposto una uguale e contraria ritualità monocomprensiva.

L’esempio concreto più eclatante in tal senso è proprio quello dei giornalisti: non vi piace niente del fascismo? Tutto ciò, senza eccezione alcuna, che ha fatto il fascismo è monnezza? Bene, allora rinunciate a farvi tutelare da una legge fascistissima quant’altre mai: la 633/1941, sul “diritto d’autore”. Forse a “Repubblica” non lo sanno ma li tutela una legge firmata dal nazistissimo Pavolini (oltre che dal ducione).  

Per finire con il consenso

Basti del resto, infine, vedere la vexata quaestio del “consenso”. Quando fu inaugurata, 50 anni fa da De Felice[4], questi era palesemente convinto di dire una ovvietà. Cioè che, volenti o nolenti, per interesse o per fede o per quel che si vuole, a metà degli anni ’30 gli italiani erano e si dichiaravano “fascisti”. Più chiaramente: non gliene fregava un tubo a nessuno della democrazia e delle libertà conculcate. Non l’avesse mai detto.

Forse qualcuno ricorderà cosa accadde: i marxisti “alla Ferrarotti” insorsero sdegnati da un lato accusando De Felice di fare “un monumento al duce”, dall’altro, in sostanza, esigendo una rap-presentazione della realtà del periodo che fosse coerente non con i fatti e con i documenti, ma con la loro liturgia: gli italiani soffrivano tutti, nessuno escluso, le pene dell’inferno sotto un regime spietatamente oppressivo e di cui tutti gli italiani suddetti erano perfettamente coscienti di detto carattere oppressivo. Coscienti, ma non lo davano a vedere però.

Sta a vedere che l’unico fascista era mio padre che, sedicenne, nel ’40 sognava di diventare ufficiale di marina e comandare la “Littorio”. Peraltro bellissima nave[5], assai migliore di tutte le corazzate democratiche inglesi e migliore pure delle mitizzate “Bismarck” e “Von Spee”.    


[1] P. Grifone, Il capitale finanziario in Italia. La politica economica del fascismo, Einaudi, Torino, 1971. Prima ediz. 1945.

[2] F. Ferrarotti, Introduzione a G. Schwab, Carl Schmitt. La sfida dell’eccezione, Laterza, Bari, 1986, p. XIV.    

[3] Storia dell’Italia moderna, vol. IX, Feltrinelli, Milano, 1988, p. 435 e 436. 

[4] Sul quale, peraltro, molto ci sarebbe da dire. A parte il suo periodare terrificante e per restare sull’aspetto qui trattato: il rapporto della narrazione defeliciana con le tematiche economico-sociali del fascismo è trattato in modo palesemente assai “elastico” (eufemismo): in breve, quando gli pare a lui, si ricorda che la sua opera è “solo” una biografia, quindi non tenuto a occuparsi di finanza, produzione ecc.; quando non ne può fare a meno, si limita al minimo indispensabile. Basti solo confrontare il modo in cui viene trattata la crisi del ‘29 e la risposta fascista in De Felice (pp. 54 - 100 del suo Gli anni del consenso, Einaudi, Torino, 1974) e in Candeloro (il già citato vol. IX della sua Storia dell’Italia moderna, pp. 251 - 286). Un confronto dal quale De Felice ne esce indiscutibilmente assai male. Ma almeno De Felice, com’è noto, non rivendicava affatto di essere uno storico “marxista”.     

[5] «tra le più belle mai costruite»: detto dal democraticissimo G. Rochat, Le guerre italiane 1935 - 1943, Einaudi, Torino, 2008, p. 213. Domanda: dire che il fascismo ha fatto costruire “bellissime navi da guerra” è un giudizio storico o apologia guerrafondaia di una spietata dittatura?

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