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Primavalle, così il Messaggero aiutò Potere operaio a depistare

La via si chiamava Bernardo di Bibbiena, il numero civico era il 33, l'appartamento popolare era all'interno cinque della scala D del lotto 15, il quartiere era quello di Primavalle. Ci abitava una famiglia proletaria e fascista, i Mattei, madre, padre e cinque figli.
Una tanica, una miccia, alcuni litri di benzina trasformarono il 16 aprile del 1973 la casa in un forno crematorio in cui arsero vivi Virgilio Mattei, 22 anni, e suo fratello Stefano, dieci anni. Gli altri si salvarono, chi miracolosamente scappando dalla porta prima che fiamme e fumo rendessero mortale l'uscita, chi gettandosi dalle finestre: ustionati, fratturati, ma vivi.
Il rogo e la tentata strage hanno una firma, con tanto di rivendicazione: «Brigata Tanas Guerra di classe - Morte ai fascisti - la sede del Msi Mattei e Schiavoncino colpiti dalla giustizia proletaria». Era talmente mirata e giusta quella giustizia che storpiava persino il nome di uno dei bersagli: Schiaoncin, braccio destro di Mario Mattei, il capofamiglia segretario della sezione missina Giarabub, è quello vero e il particolare, come vedremo, è significativo.
Gli assassini che si nascondono dietro quella sigla si chiamano Achille Lollo, Manlio Clavo e Marino Grillo, tre militanti di Potere operaio, ma, come titolerà Lotta continua a cadaveri appena bruciati, «La provocazione fascista oltre ogni limite è arrivata al punto di assassinare i suoi figli». Quanto al Manifesto: «È un delitto nazista. Fermato un fascista».
Quarantacinque anni dopo, di quel rogo tragico e bestiale nella sua stupidità si sa tutto, o quasi. Ma fra il primo processo del 1975, conclusosi con un'assoluzione per insufficienza di prove, e un secondo d'appello che rovescia il verdetto passeranno undici anni e ce ne vorranno ancora venti prima che Lollo, espatriato come gli altri fin da subito, ammetta dal Brasile che sì, quella sera, davanti a quella porta c'erano loro, e non solo loro: erano addirittura in sei, i componenti di un collettivo creato qualche mese prima e dove aspiranti proletari e veri borghesi si davano la mano. C'era Diana Perrone, la figlia di Ferdinando Perrone e la nipote di Sandro Perrone, gli allora proprietari del quotidiano Il Messaggero; c'era Elisabetta Lecco, che poi diverrà un'affermata gallerista; c'era Paolo Gaeta, futuro gestore di enoteche. In quel 2005 in cui verranno tirati in causa, reagiranno, come ha ricordato Luca Telese nel suo Cuori neri, con lo sdegno di classe e di censo che gli è proprio: quel Lollo è un poveraccio, un borgataro, brutto, sporco e cattivo, insomma...
Ora, al di là delle ricorrenze e del giusto omaggio e ricordo verso quelle giovani vite spezzate, verso una famiglia piegata e piagata da ciò che accadde, il Rogo di Primavalle resta emblematico per il clima intellettuale che si creò intorno a esso, la cortina fumogena del falso e della reticenza, la sapiente strategia della menzogna, la rete di solidarietà messa in atto perché alla verità non si giungesse.
Potere operaio curò un libretto, Primavalle, incendio a porte chiuse, in cui si parlava «di un oscuro episodio, nato e sviluppatosi nel verminaio della sezione fascista del quartiere». Come era scritto nell'introduzione, avevano contribuito «alla realizzazione di questa contro-inchiesta un gruppo di giornalisti democratici» e del resto da Alberto Moravia a Dario Bellezza, da Elio Pecora a Ruggero Guarini, la crème dell'intellighentia di sinistra romana dell'epoca, saranno tutti lì ad alzare il calice nella casa di Fregene dei genitori di Lollo al tempo del primo processo.
Quarant'anni dopo sarà proprio Guarini (riposi in pace) a raccontare come quel libretto era nato. Ci aveva lavorato lui, capo dei servizi culturali del Messaggero, insieme con due colleghi, un redattore capo e un inviato, aiutando quelli di Potop «a spazzolare stilisticamente un testo che avevano messo in piedi, scritto in un sinistrese indigesto». Lo aveva fatto perché degli amici del Movimento con cui la sera giocava a poker gli avevano detto: «Credi davvero che dei ragazzi colti, intelligenti, preparati come noi, dei marxisti che leggono i Gundrisse di Karl Marx, possano individuare in un povero netturbino, segretario di sezione dell' Msi di Primavalle, un nemico di classe?». Infatti Lollo, Clavo e Grillo, la parte per il tutto potoppino, erano talmente a loro agio con il tedesco dei Gundrisse da non saper nemmeno scrivere correttamente, come abbiamo visto, il nome italiano di uno dei missini da abbattere.
Guarini dirà allora che lui all'innocenza di Lollo e compagni ci credeva: peccato non ci credessero proprio gli amici del Movimento andati a chiedere il suo aiuto. In La generazione degli anni perduti, uno di essi, Lanfranco Pace, dirà trent'anni dopo: «Fummo costretti ad assumerne le difese nonostante la loro colpevolezza e così montammo una controinchiesta. Perché? Perché non c'erano alternative». E ancora: «Non ricordo tanta comprensione né tanta solidale vicinanza come quella volta che predicammo il falso».
Superficialità, pressapochismo, arroganza intellettuale, il gusto di civettare con la rivoluzione, senza firmarsi, non si sa mai, ma emotivamente e culturalmente sentendosi militanti dell'Idea, anche questo fu, fra una partita di poker e l'altra, il giornalismo italiano dell'epoca, un correre in aiuto del vincitore senza troppo preoccuparsi se il vinto rimasto morto sul terreno meritasse almeno una pietosa e onorevole sepoltura. È anche per questo che ogniqualvolta sento parlare di controinformazione metto mano al revolver.
FONTE: Stenio Solinas, Il giornale, 19 aprile 2018

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