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Walter Jeder: Junio, il più sensibile, il più vero

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Oggi, 20 maggio,  ricorre il trigesimo della morte di Junio Guariento, uno dei protagonisti della scena musicale non conforme fin dalle origini. Infatti inizia a suonare nel 1976 nel "Gruppo Padovano di Protesta Nazionale", poi divenuto, l’anno dopo, "Compagnia dell’Anello". Della "Compagnia" sarà uno dei principali artefici fino al 1983 quando se ne staccherà. Ritorna ad esibirsi da solo in concerto nel 1991. Ho avuto l'onore di  vederlo all'ultimo Campo Hobbit, dove è stato un protagonista con Jack Marchal.
In suo ricordo il collega Walter Jeder ci ha inviato, sotto forma di articolo, un suo personale ricordo, dove convivono perfettamente testa e cuore, che pubblichiamo volentieri.

Vi sono uomini ai quali la nostra comunità militante non poteva rinunciare. Junio Guariento era uno di questi. E poiché non parliamo di un eroe, di un leader, di uno scrittore o di uno scienziato, sento già il sommesso borbottio di chi mi rimprovera di abusare, per troppa amicizia, dell’enfasi un po’ finta e fastidiosa che accompagna, puntuale, l’elogio di chi “passa oltre”.

Il mio giudizio, invece, non è accecato dal tributo di affetto che rende unica ogni persona alla quale vogliamo bene: vorrebbe essere lucido e “utile”, perché tiene conto della fame maledetta che tutti avvertiamo di offrire qualche buon esempio a placare il nostro quotidiano bagno di cinismo. 
Junio, ci manca (e ci mancherà) perché aveva il carisma acqua e sapone dalle persone coerenti, orgogliose e disponibili. La sua voce, il suo sorriso, quel suo modo puntiglioso di guardare alle persone e alle cose, ci accompagneranno a lungo. Per molto più tempo di quanto ci si aspetta che possa durare la memoria delle sue semplici imprese: un gesto generoso, un’invettiva, una guasconata cameratesca, una strofa azzeccata consegnata alla storia minore della musica alternativa.
Già meno di un anno fa - sciolto l’abbraccio con Jack Marchal e spenta come un fuoco d’artificio l’emozione di una canzone lanciata, insieme, alle stelle nella notte di Montesarchio – mi chiedevo quale specie di alchimia guidasse quell’eterno ragazzo. 
L’incontro con Junio era servito a cancellare, in un attimo, il timore che la celebrazione di Campo Hobbit (quarant’anni dopo!) si riducesse al raduno patetico di pochi amici, reduci da tanti, e tanto diversi, percorsi di vita. Una specie di seduta spiritica per contarci le rughe e riesumare un progetto, quel “Domani” che non ci era appartenuto e che, in gran parte, avevamo rimosso e tradito. Cosa avrebbero pensato i giovani, cresciuti in un contesto così diverso, di quella che rischiava di apparire come una celebrazione autoconsolatoria?


Era bastato un minuto per accorgersi che quell’uomo calvo, dalla lunga barba bianca e i segni impietosi del tempo, aveva lo stesso spirito e lo stesso entusiasmo del giovane riccioluto del primo campo Hobbit. E la stessa capacità, autentica, di commuoversi senza mollare. 

Ricordavo Fonte Romana, al microfono del secondo Campo, mentre lo interrogavo su quel suo essere rimasto “solo” a rappresentare la Compagnia dell’Anello travolta da una brutta inchiesta giudiziaria (Stefania esule in Thailandia, Mario altrove) ed erano comparse quelle lacrime, subito ricacciate indietro per non incrinare la sua bella voce: dolce nella Canzone del Lago e beffarda sulle note di Police Blues.
Nella recente sera di giugno era ricomparsa, identica, la stessa sensibilità. Ancora quel groppo la gola, a marcare una lunga pausa nel racconto di una vicenda familiare nell’ atrocità della guerra civile. Soltanto un attimo che, pure, mi era sembrato così speciale in un mondo che ha sempre bisogno di patenti di militanza dura e pura, a volte più ostentata che genuina.
Junio non aveva bisogno di esibire citazioni al merito e onori mediatici per essere riconosciuto, tra noi, per quello che era: un uomo coraggioso e coerente. Che l’età non aveva infrollito ma, anzi, reso ancora più disponibile. Sentiva il bisogno di passare il testimone ai più giovani sottraendosi alla tentazione delle divisioni settarie. E questi lo avvertivano. Capivano che, per quello stagionato militante, salire su un palco, voleva significare la necessità pragmatica di essere ancora, a dispetto dell’anagrafe, protagonisti di un disegno politico unificante, ancora tutto da scrivere e da percorrere. 
Cameratismo e solidarietà non erano, per lui, valori astratti. In particolare negli ultimi anni era sempre pronto a promuovere una raccolta di fondi, un’iniziativa di sostegno o di aiuto. Si trattasse di bisogni importanti o soltanto di una tastiera rotta, pochi soldi che avrebbero azzoppato un musicista. Non avrebbe mai immaginato che l’ultima “catena” avrebbe dovuto toccare proprio lui 

Quel male implacabile che non riusciva a piegare la sua speranza, il suo sorriso, la sua ironia.
Junio non aveva tempo di stare a letto a leggere i rapporti medici sulla bilirubina. Doveva tornare al suo legno, che lavorava con arte antica, estraendo dalle essenze bellezza senza tempo incisa da simboli ancestrali. Tornare alle luci e ai profumi della sua collina del Casetto. Ne sarebbe sceso solo per impugnare la chitarra come un’arma, sempre pronto a rispondere a nuovi inviti e nuove sfide. E al diavolo i chilometri e i soldi.
In una sua ultima intervista, raccolta da un gruppo di ragazzi “saliti” a Montesarchio per attingere alla collaudata esperienza dei militanti dell’altro secolo, Junio spiegava di non avere tempo per indulgere nei ricordi “perché ogni giorno preferiva costruirne di nuovi”.
Le parole non medicano e non soccorrono. Per questo mi sono trattenuto per un lungo mese prima di parlare di lui. Non so neppure se sia giusto consegnare questa testimonianza sulla “rete”, che frequentava con allegro distacco, se non per concludere, con Ezra Pound, che “alla fine” resta la qualità dell’affetto che risiede dove sta memoria.
E la forza di dire, con un limpido aforisma, come sia importante aggiungere più vita agli anni che anni alla vita.

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