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A Napoli manca la destra, manca l'opposizione

Il Corriere del Mezzogiorno, allegato al Corriere della Sera, il principale quotidiano italiano, nelle giornate di mercoledì 4 e giovedì 5 ottobre dedica due interessanti articoli sulla ultra decennale mancanza di proposta politica di destra nella vita politica della terza città d'Italia.
Il primo firmato dal collega Marco De Marco, già direttore de Il Corriere del Mezzogiorno, che in un articolo intitolato C'era una volta la destra che potete leggere qui  dove ricorda come Napoli sia stata la città del sindaco monarchico Lauro, di Almirante consigliere comunale, di Rastrelli governatore della regione Campania di una giovane Alessandra Mussolini sfidante di Bassolino, da cinquanta anni la città non ha più un sindaco di destra.
Il collega Alessandro Sansoni, nell'articolo pubblicato il giorno successivo sul Corriere del Mezzogiorno, evidenzia come a Napoli manchi non soltanto la destra ma anche una opposizione politicamente e culturalmente efficace.

Manca la destra, manca l'opposizione
di Alessandro Sansoni


Napoli è stata la città di Lauro, di Almirante consigliere comunale, di Rastrelli governatore, di Alessandra Mussolini sfidante di Bassolino, ma da più di mezzo secolo — dai tempi del Comandante appunto — non ha più un sindaco di destra. E neanche di centro-destra, tanto perché non sembri un discorso limitato a quell’area che fu monarchica e conservatrice e non ancora repubblicana e liberale.
La questione sollevata ieri da Marco De Marco sulle colonne del CorMez, in merito alla ormai ultradecennale mancanza di un proposta politica “di destra” nella vita politica di Napoli, non riguarda solo le vicende di uno schieramento politico, ma la città nel suo complesso e spiega, in parte, l’assenza di un’alternativa all’attuale amministrazione de Magistris, la cui desolante inerzia è anche il prodotto dell’assenza del pungolo di un’opposizione non solo politicamente, ma anche culturalmente efficace.
De Marco coglie senz’altro un elemento di criticità quando mette in evidenza la mancanza di una personalità di peso nel centrodestra originaria del capoluogo, di fatto sotto “tutela commissariale” da parte dei vari leader provenienti dalla provincia o da altre città campane. Una constatazione che fa quasi sorgere il dubbio che esista una precisa volontà non detta di evitare con ogni mezzo l’emergere di una leadership cittadina che potrebbe mettere in ombra quelle presenti sul resto del territorio regionale.
Ci sono, tuttavia, delle ragioni più profonde, di ordine storico, che De Marco non manca di segnalare, che spiegano l’incapacità della destra, da oltre sessant’anni, di esprimere un sindaco, in una città la cui anima molti commentatori ritengono ancora oggi orientata in senso conservatore. Esse risalgono alla sconfitta del laurismo, verificatasi negli anni Sessanta sul piano della “battaglia delle idee e dell’immaginario”, ancor prima che su quella del consenso elettorale.
Una sconfitta che pesa tutt’ora: basti pensare che la percezione storica del decennio che vide il Comandante al comando di Palazzo San Giacomo è come cristallizzata nelle immagini del film di Rosi “Le mani sulla città”. Il laurismo resta sinonimo di corruzione, malgoverno, sacco edilizio, clientelismo, come se le amministrazioni a guida democristiana e quelle capeggiate da Valenzi, non avessero operato secondo quegli stessi criteri, se non peggio, come dimostrano Scampia, le periferie della 167, le assunzioni senza concorso o di ex detenuti al municipio, solo per ricordare alcuni episodi tra i più macroscopici.

Sebbene quella di Lauro sia stata per molti aspetti la stagione della “resurrezione” di Napoli dalle macerie della Seconda Guerra Mondiale, gli elementi positivi di quel periodo possono essere recuperati all’indagine storica solo attraverso i ricordi orali dei nonni, con la meritevole eccezione di alcune pubblicazioni come “Il potere di Lauro” del professor Pierluigi Totaro. La narrazione antilaurina resta ancora oggi uno degli esperimenti meglio riusciti di costruzione dell’egemonia in senso gramsciano da parte del PCI, che attraverso quella vera e propria officina politico-culturale che fu la redazione napoletana dell’Unità, riuscì a determinare lo spostamento della borghesia professionale ed intellettuale cittadina su posizioni di sinistra. Una vittoria totale, resa possibile anche dall’assenza di un analogo lavoro dalla parte opposta.

Negli ultimi sessant’anni la destra non ha saputo offrire ai napoletani una lettura alternativa del passato cittadino, né una visione originale di quello che potrebbe essere il futuro di Napoli. Ha subito senza reagire la damnatio memoriae pubblica di Lauro, mentre l’assenza di idee è stata mascherata da slogan spesso privi di retroterra progettuale come il famoso “Napoli Capitale” della campagna per “Almirante sindaco”. La destra partenopea ha accettato, come dimostrato anche dalle recenti campagne elettorali, di ergersi a paladina “delle periferie”, facendo propria l’analisi interessata fattane da Giorgio Napolitano negli anni ’70, che ne riconosceva il tratto proletario e sottoproletario, mentre la sinistra le sottraeva la simpatia del ceto medio produttivo e pensante, che nei primi vent’anni del Dopoguerra aveva reso Napoli la testa d’ariete della possibile nascita di una Grande Destra alternativa alla DC.



In termini di elaborazione, nei vent’anni della Seconda Repubblica, poco o nulla è stato messo in campo dal centrodestra. L’exploit di Rastrelli è rimasto isolato e senza una strategia complessiva, fatta di pensiero ed azione, difficilmente sarà possibile recuperare il voto della piccola e media borghesia della zona collinare e dei Decumani. Quella, per intenderci, che ha reso possibile i trionfi di de Magistris, mirabile sintesi di populismo berlusconiano ed immaginario radical chic.

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