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Anche nel petto del grande faccendiere batte un cuore nero

La recensione del libro di Pierluigi Battista "Mio padre era fascista"  scritta dal grande faccendiere Luigi Bisignani

Nei viali dell'Aldilà, due vecchi signori profumati di fresca colonia inglese, con un piccolo foulard bianco di seta al collo, chiacchierano sereni sulle ultime notizie arrivate lassù.
«Caro Peppino, che emozione! Finalmente dopo sessant'anni il mio Pigi ha capito che essere rimasti fascisti non è stata un'infamia».
«Ho già letto, Vittorio, il suo ultimo libro "Mio padre era fascista» (Mondadori editore 17,50 euro, 168 pagine).
Inorgoglito il buon Vittorio straripa: «Ha pure riconosciuto che questo gli ha insegnato a capire cosa sono l'onore e la lealtà. E mi è arrivata anche voce che il suo amico, Paolino Mieli, che negli anni 70 militava come Pigi nell'ultrasinistra, presentando a Milano il romanzo ha detto chiaro e tondo che in un popolo di voltagabbana come l'Italia, bisogna riconoscere che in tutte le famiglie c'è stato un fascista e chi non ha rinnegato di esserlo va rispettato, a dispetto di tutti quegli intellettuali e artisti che fecero il salto della quaglia. E poi, hai notato quante analogie di ieri con l'Isis di oggi, sugli uomini e sull'arte ad esempio? Sapessi le volte che ho raccontato al piccolo Pigi di quando Ezra Pound, il grande poeta, colpevole di aver combattuto con i ragazzi di Salò venne messo dagli americani in una gabbia da gorilla nel campo di Coltano, dov'eravamo stati imprigionati in trentamila. Lui di notte aveva un faro puntato addosso e stava sdraiato sulla terra nuda senza che nessuno potesse rivolgergli la parola. E noi, prigionieri per non aver tradito, portati in corteo per le strade tra sputi e lanci di sassi».
Peppino sorride: «Davvero il colmo. Gli invasori, cioè gli americani, diventati alleati e gli alleati diventati invasori. Tutto in una notte. E noi coerenti, bollati per tutta la vita con un marchio per la nostra lealtà».
«Ma il mio Pigi, finalmente ha fatto chiarezza. Anche sull'arte, dopo tutte le volte che l'ho portato a vedere l'affresco di Mario Sironi nell'aula magna dell'Università di Roma, dove sono stati coperti i simboli del fascismo. Sai chi ordinò quello scempio? Quello che era stato il grande architetto del fascismo, Marcello Piacentini…doveva rifarsi una verginità».
Questo dialogo potrebbe essere intercorso tra i fratelli Vittorio e Giuseppe Battista, due protagonisti della vita romana degli anni 70 e 80: il primo avvocato penalista di grido con un passato fascista rivendicato con orgoglio, il secondo avvocato d'affari che ha avuto il merito di tenere accesa la luce del Teatro Eliseo, dove ha raccolto intorno a sé la "Compagnia dei giovani", composta tra gli altri da Rossella Falk, Giorgio de Lullo, Umberto Orsini, ed ha fatto debuttare un gigante come Carlo Verdone.
Ho conosciuto bene i fratelli Battista e con loro ho trascorso ore stimolanti in una bella villa nei castelli romani. Quando si parlava di Pier Luigi, che iniziava a farsi onore sulle pagine della "Stampa", in papà Vittorio c'era sempre un misto di orgoglio e un velo di tristezza, perché questo figlio aveva imboccato, assieme ai fratelli, una strada politica all'opposto dalla sua. Il libro è un viaggio sentimentale in sessant'anni di storia italiana, tra fascismo e liberazione, dalla strategia della tensione alla nascita del Msi, fino alla scomparsa di un mito della destra italiana come Giorgio Almirante, anche lui, si può dire, rinnegato dai suoi figli al congresso di Fiuggi. Una carrellata di avvenimenti ed episodi avvincenti, che a volte fanno piangere ma soprattutto riflettere.
Della sua giovinezza Battista ricorda la casa ordinata, i dizionari sul tavolo per tenere i gomiti uniti durante il pranzo, il ripudio della festa della liberazione, che era il giorno della sconfitta. Vinti ma sempre fieri, quei fascisti che non hanno rinnegato le scelte giovanili cercavano di imprimere alle loro famiglie il senso dell'ordine e della disciplina. Mentre Pigi e i suoi coetanei facevano ricadere su questi uomini «come fossimo una odiosa polizia culturale tutto il male commesso dal fascismo».
Un giorno, diventato difensore della famiglia Mattei nel processo sul rogo di Primavalle dove, vittime dell'odio dell'ultrasinistra, morirono nel 1973 bruciati vivi due ragazzi di dieci e ventidue anni, il papà di Pigi si ribellò, provocando nel figlio una svolta psicologica di rara efficacia. «Rifletti su questo fascicolo, cretino». E Pigi cominciò a capire dove stava portando quella deriva da brividi e di quando con i compagni gridava nei cortei: «Sommacampagna, Balduina… fascisti attenti il fuoco si avvicina».
Onore al camerata Vittorio e onore a suo figlio, che in questo romanzo mette a nudo se stesso e la sua generazione con onestà intellettuale e una scrittura che arriva al cuore.

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