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Avene Selvatiche: nella prefazione inedita Preiser spiega come ha reinventato la sua storia

Nicola Guerra, ricercatore storico che spazia tra culture ultras, waffen SS e anni di piombo, ha ieri pubblicato sulla pagina del gruppo facebook Years of Lead (Anni di Piombo) l'inedita prefazione scritta da Alessandro (Danieletti) Preiser per il suo "Avene Selvatiche". Un documento utile, in cui l'autore spiega con chiarezza la specifica modalità con cui ha contemperato realtà autobiografica e esigenze letterarie:
non mi sono preoccupato nemmeno di mantenermi fedele agli avvenimenti, ho utilizzato questi elementi come ho stimato più opportuno e funzionale all’affabulazione del mio racconto. 
Ecco il testo della prefazione:


Avene Selvatiche, assommato in sei mesi nell’ottantasei in una cella del carcere di Lodi nel corso di circostanze estremamente particolari, racconta una storia ambientata per lo più a Milano al principio degli anni settanta, un’epoca perciò tutt’altro che remota, ma che la vorticosa accelerazione dei cambiamenti occorsa nei decenni successivi ha già relegato lontano dalla nostra memoria. 

Il romanzo, che costituisce il primo tomo d’una trilogia alla quale non ho ancora terminato di lavorare, si attorciglia attorno a un personaggio cardine e intorno a lui ruota. La vicenda assume via via l’aspetto d’una girandola che lo travolge, una concatenazione di eventi che sono in certa misura uno la conseguenza dell’altro senza che però si pervenga ad acclarare una causa specifica, una sicura origine della serie ininterrotta di malestri, errori e debolezze che alla fine “bruciano” la gioventù del mio protagonista. 
Credo d’aver cercato di render quest’origine “visibile” ma non “tangibile”, d’averla lasciata intravedere in controluce sotto forma di pulviscolo a fluttuare in una labilità pressoché colloidale inzuppata di fatalità.
Visibile, perché ciascuno vede come sia l’atmosfera, il baccano di questa ridda di spettri, a trar fuori questo giovane studente-lavoratore dal sentiero ove camminava sopra pensiero fischiettando, compreso nei suoi sogni e nelle sue passioni: le motociclette e la musica, obnubilato dagli spinelli e distratto dalle donne.
Non è tangibile poiché quest’atmosfera che lo circonfonde è composta da miriadi di particelle volteggianti nell’aria, ovvero un arazzo che comporta un incalcolabile numero di fili di tessuto diverso interrelati fra loro che non è possibile districare. 
Non era mia intenzione costruire o descrivere tutto il puzzle, per così dire, degli avvenimenti di quegli anni, e men che meno di dipingere, diciamo così, un affresco, mi sono semmai limitato a scattare delle istantanee da quel fotografo dilettante che sono. Non avrei nemmeno potuto collocare l’arazzo come sfondo alla mia storia, sarebbe stato sproporzionato e ingombrante, così ho scelto delle fotografie, le ho ingrandite, le ho composte in un collage e sopra ci ho scritto la vicenda di un amore giovane: frastornato, trasognato, disordinato, ma nondimeno venato da una tenue malinconica dolcezza.
Il personaggio porta il nome d’un celeberrimo “piccolo grande eroe”, emblema da sempre, insieme col suo sventurato compagno, di quel primigenio impulso giovanile ad agire per “compiere qualcosa di grande” scordandosi la reale entità delle proprie forze; quell’impulso che induce taluni giovani a mettere a repentaglio e se occorre finanche a sacrificare la propria giovane vita in nome di ciò che nella loro peranco incerta assiologia ritengono giusto e spesso soccombono, perché, inebriati dalla propria euforia, commettono qualche imprudenza. 
Mi sono dispensato dall’esprimere un giudizio purchessia sulla storia che racconto; ciascun lettore è libero di trarne ciò che gli pare. Ritengo peraltro che qualsivoglia commento avrebbe appesantito il racconto. 
Fuorché qualche lieve ritocco qua e là e qualche cucitura che spero d’aver reso invisibile nel tessuto della narrazione, si può affermare che il testo è rimasto quale era stato scritto tanti anni orsono. Di tanto in tanto, col passare del tempo, ho preso in considerazione l’ipotesi di riscriverlo ritenendomi, non so quanto velleitariamente, alquanto maturato; ma l’ho presto accantonata.
Il testo si è rivelato refrattario a interpolazioni successive e abbastanza monolitico nella sua compattezza: una certa naïveté di sottofondo mi sembrava che ben si contemperasse a tutta la storia quasi che la giovinezza di colui che racconta si assimilasse in forza di un’aleatoria simbiosi a quella dei personaggi, sprigionando un’indistinta e impalpabile sensazione di freschezza che aleggia, o dovrebbe aleggiare qualora avessi ragione, dalle pagine del libro. Avrei potuto riscrivere Avene Selvatiche e, forse, svilupparlo in modo più articolato e concinno, sennonché di quella mia autentica giovinezza di scrittore non avrei più potuto rimpossessarmi, poiché come quella della vita una volta passata non la si riacquista più.
Ecco perché ho deciso di lasciare Avene Selvatiche così com’era, così come l’ho scritto sedendomi un bel giorno dietro uno scalcinato tavolino di legno per sei mesi, con le lugubri ombre delle sbarre che si allungavano sul pavimento nella luce spettrale che filtrava al crepuscolo da un’alta finestra a tramoggia. 
Il libro è scritto in terza persona, sebbene non infrequentemente traluca in filigrana la falsariga d’un diario giovanile e si scorga la parvente sagoma dell’autore a ridosso dei personaggi e di quando in quando pare persino si stemperi nel protagonista.
Chi vorrà baloccarsi con questi paralleli sarà libero di farlo, non mi sono preoccupato né di celare né di esibire e parecchi lettori argomenteranno agevolmente che, per poter raccontare le cose come le racconta, l’autore, certi episodi di cronaca realmente accaduti non può essersi limitato a leggerli su qualche quotidiano bensì avervi preso parte egli stesso; è palese. D’altra parte non mi sono preoccupato nemmeno di mantenermi fedele agli avvenimenti, ho utilizzato questi elementi come ho stimato più opportuno e funzionale all’affabulazione del mio racconto.
Di conseguenza suggerirei al lettore di gustarsi il testo così com’è, senza gingillarsi a disgiungere l’invenzione dalla cronaca documentale, perché ciò che mi sono principalmente ripromesso è stato di non annoiarlo e di trasformare semmai, anche la nuda cronaca, in un racconto avvincente.
Ho cercato perciò d’imprimere un ritmo veloce e fluido alla narrazione, di costruire dei personaggi vivi che il lettore possa vagheggiare di veder muovere in modo naturale dinanzi ai propri occhi e conferir loro quell’eloquio che era il gergo abituale dei giovani milanesi di quegli anni, sovente sboccato, e purtuttavia non di rado suggestivo. 
Sino a che punto sono riuscito in questo mio intento non saprei dire, d’altra parte se è vero che ho tenuto fermo il proposito di non annoiare il mio ipotetico lettore è altrettanto vero che ho seguito la mia ispirazione e anche questo penso si evinca agevolmente, giacché, io stesso, leggendo il testo ad anni di distanza, sono rimasto piacevolmente sorpreso e finanche sbalordito di ravvisarvi numerosi spunti di creatività disseminati qua e là tra le pagine, di come sono riuscito a non prendermi troppo sul serio e persino a divertirmi, a dispetto di tutto, scrivendolo.
L’ho lasciato così perché tutto considerato il tono mi è sembrato soddisfacente, poiché il tono non è lo stile, il tono è, come ha detto Borges, quella “voce” che giunge a noi da un libro e che lui reputava la cosa più importante

3 commenti:

  1. Sì... va bene... però documentiamoci anche sul "personaggio" Danieletti ed il suo C.V... giusto per non ritrovarci con risultati uguali allo "sdoganamento" di quello psicopatico di Angelo Izzo... che ha generato nell'ambiente di Destra fiumi e fiumi di verbali di accuse assurde e "psichedeliche"!

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