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28 febbraio/2: E gli omicidi di Mantakas così passarono alla lotta armata

(umt) Il 28 febbraio è un giorno di lutto per entrambe le comunità militanti romane che oggi commemorano la fine prematura, per mano nemica, di Mikis Mantakas e di Roberto Scialabba. Due delle centinaia di morti della piccola guerra civile che ha insanguinato l'Italia nella seconda metà del secolo breve. Oggi (e credo anche domani: sono molte le cose da scrivere) il blog sarà dedicato esclusivamente alla ricostruzione di queste vicende. In questo post ricostruisco l'omicidio Mantakas utilizzando testi dei primi due capitoli di "Guerrieri" (Immaginapoli, 2005). Le interpolazioni e una correzione (di concetto) sono segnalate tra parentesi e in corsivo. Qui si può leggere il primo e il terzo post dello speciale.
Nell’inverno 1975, sulle truppe sparse della destra radicale, come trent'anni prima sulle armate allo sbando di Salò soffia impietoso il vento del Nord. Il militante nazionalrivoluzionario, «soldato politico povero ma potente» ha perso tutti i punti di riferimento strategici e i supporti logistici. I servizi segreti americani squassati dal Watergate e dal senso di colpa nazionale per la sporca guerra (e la disfatta) in Vietnam sono in stallo. Potenti lobby transnazionali – a partire dalla Trilateral – hanno deciso di puntare sulla svolta democratica in atto alla periferia del dominio americano. I regimi autoritari del nord Mediterraneo sono stati appena travolti dal crollo dell’impero (il Portogallo) e dal fallimento di avventure neocoloniali (la Grecia a Cipro) oppure si avviano all'eutanasia (Spagna) per l'incapacità di riprodurre una classe dirigente. Il disfacimento è in ugual misura prodotto di una dinamica interna e del mutato contesto internazionale. Per i "combattenti anticomunisti" il colpo è durissimo. Le ultime manovre golpiste hanno sfasciato la rete militante. Da una parte, sotto la pressione del movimento scatenato dalle stragi di Brescia e dell’Italicus, la magistratura perseguita gli extraparlamentari. Dall'altra le bande armate sono scaricate dalle forze che le avevano suscitate e usate. L’esito del referendum sul divorzio liquida le velleità della destra democristiana di regolare i conti con la sinistra e il conflitto operaio per via autoritaria. Andreotti, espressione più lucida di questo disegno reazionario, sacrifica col consueto cinismo i suoi uomini compromessi nelle trame nere sull'altare della nascente solidarietà nazionale. Cresciuti nelle anticamere del Viminale e degli uffici dello Stato maggiore, abituati ad ampie coperture giudiziarie e poliziesche, i neofascisti a prevalente vocazione anticomunista sono in affanno (nel 2005 avevo scritto: "ordinovisti e avanguardisti" ma oggi non riconosco esatto una definizione così tranciante, ndb).
Dopo le mazzate subite c’è comunque in giro voglia di rialzare la testa e di farla pagare ai compagni e allo Stato. Non passa settimana a Roma senza un assalto o un attentato incendiario contro una sezione missina. Sedi nei quartieri popolari come a Portonaccio, Centocelle e Cinecittà, saranno costrette a chiudere dopo ripetuti attentati dinamitardi. L’attacco più pericoloso è compiuto il 17 gennaio 1975, a Cinecittà. Gli autonomi lanciano ben dodici molotov e chiudono dentro i militanti missini abbassando la saracinesca. In cinque rimangono gravemente feriti dagli ordigni resi micidiali dal catrame liquido e dall’acido solforico. Tra le vittime Daniela Di Sotto, l'ex signora Fini, che così la racconta ad Adalberto Baldoni:
"Avevo vent’anni e i rossi stavano per mandarmi all’altro mondo. Un giorno lanciarono delle bottiglie molotov nella sezione, una mi colpì in testa e ci fu un incendio, avevo i capelli lunghi più di un metro che bruciavano. Il ragazzo che stava per ammazzarmi frequentava il mio istituto, qualche anno dopo finì nelle Brigate rosse. Dal rogo quella volta mi salvò Alessandro Lo Savio, un camerata che ho poi rivisto negli anni successivi, strappandomi di dosso i pantaloni e le calze che già bruciavano. Lui si rovinò la vita. Il fuoco lo ustionò gravemente e si ferì una mano cadendo sui cocci di vetro. I rossi avevano buttato le molotov chiudendoci dentro dall’esterno. Ricordo che fu un carrozziere a frantumare la porta a vetri della sezione con un cric".
L’inizio del processo per il rogo di Primavalle (i figli del segretario del Msi di Primavalle carbonizzati in un attentato incendiario compiuto da tre militanti di Potere operaio) alla fine di febbraio scatena la mobilitazione generale, animata dal nascente movimento di Lotta Popolare, una frazione peronista del Msi, diretta da Paolo Signorelli, un professore di filosofia di area ordinovista, buon suonatore di chitarra (lo chiameranno ironicamente ”chitarrella”), sguardo freddo ed ironico. Dal Veneto come dalla Sicilia accorrono i militanti del disciolto gruppo (ed è un ex militante signorelliano ad aiutarmi a ricostruire cosa succede quella mattina, ndb). Per un paio di giorni il dispositivo funziona: i quadri più anziani presidiano l’aula, i giovani rastrellano dall’alba le strade di accesso a piazzale Clodio mazzolando i compagni che tentano di affluire. Ma dura poco, giusto il tempo di riorganizzarsi e mobilitare i rinforzi, e all’alba del 28 febbraio sono i “rossi” a prendere il controllo della zona e possono così, a sorpresa e grazie a una schiacciante superiorità numerica, caricare i militanti missini. Soltanto l’apertura da parte dei carabinieri di un cancello laterale del Palazzo di Giustizia impedisce la disfatta. Dopo una frenetica trattativa, le forze dell’ordine concordano le modalità di ritiro: i camerati saranno scortati fino alla vicina sede missina di piazza Risorgimento, un santuario nero. Un torpedone della polizia trasporta un primo plotone, scortato da numerose volanti e jeep, che rientrano a piazzale Clodio per ripetere il servizio. Nessuno però lascia una forza di interposizione e così un’orda di compagni può impunemente assaltare le truppe sparse che bivaccano, stanche e avvilite, all’incrocio tra la piazza e via Ottaviani. Colti di sorpresa, i camerati ripiegano disordinatamente nel portone limitando i danni: le grida concitate, i lamenti di qualche contuso convincono i più esaltati tra gli assalitori che qualche compagno è stato catturato e tenuto prigioniero nel ridotto assediato. Parte un secondo, più rabbioso assalto, un braccio armato riesce a infilarsi nel portone, si sentono alcune revolverate, Fabio Rolli è ferito, il militante greco del Fuan Mikis Mantakas è colpito a morte alla nuca. Franco Anselmi, che ne vede gli occhi sbarrati, si inginocchia e bagna il passamontagna nel sangue dell’amico, una reliquia della sua personale religione della morte. Il commando assassino si dà alla fuga. Un agente fuori servizio insegue uno dei partecipanti all’assalto, che tenta di far perdere le tracce infilandosi in un palazzo. Lo blocca all’uscita: all’interno dell’edificio la polizia recupera un impermeabile bianco e una pistola 7.65 (di calibro inferiore a quello usato a via Ottaviani). Il fermato è Fabrizio Panzieri, responsabile del servizio d’ordine di Avanguardia comunista, uno dei gruppi più duri  e radicali dell’estrema sinistra romana (in quel periodo ci militavo anch'io, ma a Napoli eravamo pochi., diestrazione intellettuale e borghese, ndb) 
Nonostante una martellante campagna in sua difesa, Panzieri sarà condannato per concorso morale in omicidio. Scarcerato, raggiunge i suoi compagni che hanno dato vita alle Unità comuniste combattenti e quando alcuni compagni si “pentono” ripara all’estero, in Portogallo e poi in Angola, (grazie ai documenti che ha procurato loro un fascista rosso come Egidio Giuliani, ndb). Il responsabile dell’omicidio Mantakas, Alvaro Lojacono, giovane quadro militare di Potere operaio, segue il percorso del suo leader Valerio Morucci: Formazioni comuniste armate (responsabili dell’assalto al Prenestino), Brigate rosse (è accusato di essere tra i nove componenti del commando che rapisce Moro e massacra la scorta), poi il distacco dalla lotta armata, con la fuga all’arresto grazie ai vecchi rapporti del padre comunista con i reseaux clandestini della resistenza algerina. E’ arrestato molti anni dopo in Svizzera, dove aveva ottenuto la nazionalità grazie alla madre ticinese: è stato scarcerato nell’autunno 1999 dopo aver scontato 11 anni di carcere per l’omicidio del giudice Tartaglione, essendo messo al sicuro da un decreto di non estradabilità in Italia per la strage di via Fani. Un successivo arresto in Corsica, dove si era recato in vacanza, non avrà conseguenze.
La morte di Mantakas è seguita dai consueti “giorni della rabbia”: per una settimana Prati è interdetto alle “zecche” (compagni e capelloni) ma in molti non sono soddisfatti dalla qualità della rappresaglia. Bisogna rispondere attaccando, sostengono: un bel raid armato in un quartiere proletario, con l’obiettivo di devastare le sedi comuniste e lasciare a terra tutti i “compagni” intercettati o comunque scatenare scontri durissimi con la polizia per fare capire che non si possono impunemente ammazzare i “camerati”. La tensione cresce: nel corso di una discussione molto animata, qualche testa calda “mena” un dirigente del Fronte della gioventù assolutamente contrario alla vendetta, Gianfranco Fini. Non se ne farà niente, e sarà la giustificazione per qualche “disertore”: se si era lasciata impunita l’arroganza criminale dei compagni era meglio lasciar perdere e abbandonare del tutto l’inutile terreno della milizia per cercare altrove la propria via di realizzazione

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