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27 ottobre 1972: ucciso a Ragusa Giovanni Spampinato

Il 27 ottobre 1972 fu ucciso Giovanni Spampinato, corrispondente dell'Ora e dell'Unità da Ragusa.  Secondo Wikipedia il delitto maturò in un contesto che all'epoca non venne adeguatamente investigato in sede giudiziaria. Spampinato indagava sull'uccisione di un facoltoso ingegnere-imprenditore, Angelo Tumino, che era avvenuta a Ragusa il 25 febbraio dello stesso anno. Ad ammazzarlo fu Roberto Campria, figlio dell'allora presidente del tribunale di Ragusa, che di quel delitto era sospettato. Spampinato era altresì impegnato in una inchiesta sulle attività del neofascismo in Sicilia, in relazione pure a situazioni di contrabbando e di affari illeciti con la mafia che avevano luogo lungo le aree orientali dell'isola.


L'anno scorso il fratello Alberto, quirinalista dell'Ansa, ha pubblicato per Ponte alle Grazie il libro «C’erano bei cani ma molto seri. Storia di mio fratello Giovanni ucciso per aver scritto troppo» (292 pag., 15,50 euro). Nel volume Spampinato racconta la storia di quel delitto e insieme la Sicilia e l’Italia di quegli anni. Pubblico uno stralcio dal capitolo finale. 
La vera storia di Giovanni di Alberto Spampinato
Pensavo che tutti volessero conoscere la vera storia di Giovanni. Speravo che qualcuno, prima o poi, l’avrebbe scritta, e l’avrebbe spiegata anche a me. Immaginavo che tutti quelli che conoscevo mi avrebbero aiutato a trovare le risposte che cercavo. Mi sbagliavo. Scoprii che il dolore degli altri non sempre suscita pietà. Spesso fa paura. Le persone normali temono di esserne contagiate. Mi rassegnai a malincuore a muovermi da solo. Per trovare le risposte che cercavo dovevo andare in fondo alle cose. E io andai in fondo.
Fu come addentrarmi in una caverna. Lentamente i miei occhi si abituarono all’oscurità, cominciarono a vedere nel buio, ma non trovai quel che cercavo. Qualcosa mi impediva di penetrare la dinamica dei fatti. Qualcosa mi impediva di parlare con gli estranei della morte di Giovanni. Avevo una ritrosia che poteva sembrare vergogna, mi faceva male parlarne. Non sopportavo che la gente mi considerasse il fratello del morto. Avrei voluto essere considerato per quello che ero: una persona come tutte le altre che voleva capire. Naturalmente nella piccola Ragusa non era possibile. Tutti sapevano chi ero e mi approvavano o disapprovavano per le convinzioni politiche o l’appartenenza sociale e, soprattutto, sulla base delle fazioni che si erano formate dopo la morte di Giovanni. Le divisioni resistevano come partiti, alimentati da una informazione che con una malintesa obbiettività, metteva sullo stesso piano torti e ragioni, chi aveva sparato e chi era stato ucciso. Mi ero trasferito a Palermo e poi a Roma, una città che consente a tutti un facile anonimato. 
Anche in questa città c’era sempre qualcuno che mi individuava. Notai che appena si sapeva che ero il fratello di Giovanni, si creava un solco. La mia ritrosia, la mia dissimulazione esprimevano la voglia di vivere senza quel solco fra me e gli altri, senza sbattere in faccia alla gente il mio fardello, senza esibire le cicatrici che portavo e la rabbia che provavo per l’ingiustizia subita. Insomma, rifiutavo la mia identità di familiare della vittima e questo non mi appariva chiaro come lo sto dicendo adesso.\ Il primo giorno di primavera del 2005 ero in piazza del Campidoglio. Da quirinalista dell’Ansa – ruolo che svolgo dal 1999 – seguivo il presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi che, quel giorno, aveva lasciato il Quirinale per partecipare alla «decima Giornata del ricordo e della memoria delle vittime delle mafie» promossa dall’associazione Libera di don Luigi Ciotti. C’era molta gente. C’era anche il presidente emerito Oscar Luigi Scalfaro. Vari oratori si alternarono al microfono per leggere da un elenco i nomi delle vittime della mafia. Un rosario di 640 nomi, in ordine cronologico dal 1893 in poi. Arrivati al 1972 dissero il nome di Giovanni. Non me l’aspettavo, sentii un tuffo al cuore, ma non dissi nulla alle persone che erano con me e non ci avevano fatto caso.
Sei mesi dopo provai la stessa emozione quando accompagnai Ciampi nella visita alla Casa del Jazz di Roma, ospitata a Villa Osio, la splendida residenza sequestrata al boss della banda della Magliana Enrico Nicoletti. Ciampi si fermò alcuni minuti in raccoglimento all’ingresso, davanti a una lapide che riportava i nomi di quelle centinaia di vittime della mafia. Di nuovo, c’era il nome di Giovanni.
Mafia! Non avevo mai pensato di classificare la morte di Giovanni come un delitto di mafia. Era un impasto di così tante cose che si faceva fatica a darne il senso. L’impossibilità di dire in una parola che cos’era aveva contribuito a farlo dimenticare. Capii solo allora che non era arbitrario chiamare mafia quel miscuglio di insabbiamenti, depistaggi, contrabbando, traffici illeciti, trame nere, oscuri moventi, sentenze di favore.
Ripresi vecchi contatti con Ragusa. Organizzai un convegno in memoria di Giovanni. Scoprii che in quegli anni di mia lontananza, a Ragusa, un giovane storico, Carlo Ruta, di sua iniziativa, aveva ripreso il filo delle inchieste di Giovanni e aveva riproposto tutti i suoi dubbi sull’insabbiamento dell’inchiesta per l’assassinio di Angelo Tumino. Per questo si era scontrato con il magistrato che aveva condotto le prime indagini e aveva subito una ingiusta condanna. Ognuna di queste cose smosse qualcosa dentro di me. Mi fece capire che non ero il solo a pensare che Giovanni non era morto per una fatalità e che era ingiusto fare credere che non aveva fatto bene il suo lavoro.C’erano bei cani ma molto seri» scriveva nel 1971 Giovanni Spampinato, ricordando la propria infanzia fatta di gesti semplici - come mangiare i semi di girasole - eppure felici. E questa vita breve, semplice e densa, modesta ma enormemente ricca di valori, di ricerca di verità e giustizia, riesce a raccontare oggi Alberto Spampinato, fratello del giornalista de L’Ora assassinato a soli 25 anni nell’autunno del 1972.
Giovanni era il naturale prodotto del laboratorio politico e professionale che fu la redazione dell’Ora. Una «centrifuga» azionata dal genio del direttore-padre Vittorio Nisticò (appena scomparso), che esaltava le doti di ciascuno dei giovani approdati al giornalismo attraverso la passione civile della difesa di chi non ha voce. Giovanni muore ucciso da un giovane, figlio di un alto magistrato di Ragusa, che non accetta la messa in discussione del «semplice principio» che chi ha il potere possa essere più «uguale» rispetto alla legge. Ma Giovanni muore soprattutto perché il mondo che lo circonda è pavido, intimorito dall’idea di puntare il dito verso un potente che non è solo uno «scavezzacollo» ma il «naturale prodotto» di un pezzo di società di quell’inizio degli Anni Settanta. 

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