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Il delirio di Scanzi: Colosimo è cresciuta nel Msi. Aveva 8 anni a Fiuggi


(umt) 

Dalla pagina facebook di Andrea Scanzi, prima firma del Fatto Quotidiano, ospite più che fisso di Lili Gruber, primadonna del giornalismo antigovernativo. Un post di due giorni fa che la capricciosità dell'algoritmo mi restituisce oggi. Per una banale, evidente osservazione sulla totale sciatteria dell'attuale giornalismo. E' del tutto evidente che il presidente dell'Antimafia è una ragazzina e basta digitarne il nome su google per scoprire in quindici secondi che è nata il 2 giugno 1986. Quindi quando è stato sciolto il Msi aveva otto anni e sette mesi. Assai precoce, la bambina ...


Aliprandi: lo stile di Report? Degno delle purghe staliniane

di Damiano Aliprandi
Prendendo spunto dalla trasmissione di ieri di Report, oltre il discorso della foto (ne ho parlato ieri qui) c'è un secondo capitolo in questa vicenda, che merita una riflessione generale. Colosimo è stata costretta a prendere pubblicamente le distanze dallo zio Paolo, avvocato penalista condannato quindici anni fa in via definitiva a 4 anni e 6 mesi per aver fatto da tramite tra il faccendiere Gennaro Mokbel e cosche della 'ndrangheta. Lo zio è morto a febbraio scorso. Ed è qualcosa che colpisce il privato, un lutto famigliare.
Colosimo ha dichiarato di non avere rapporti con lui dal 2010, ben prima della condanna definitiva. Ha dovuto, come se stesse innanzi a un tribunale speciale, ripudiare pubblicamente lo zio. Costretta a rinnegare un legame familiare per dimostrare la propria purezza morale. Come se la parentela fosse di per sé contaminante, ereditaria. È il metodo della responsabilità collettiva applicata alla genealogia. Un concetto che pensavamo sepolto nella storia del Novecento, quello dei "figli che pagano per i padri". È il reato di parentela elevato a sistema di epurazione.
Arthur Koestler, nel suo capolavoro Buio a mezzogiorno, descriveva con lucidità inquietante il meccanismo della purga stalinista: non importava se l'accusato fosse colpevole o innocente. Ciò che contava era la sua utilità al sistema. Se rappresentava un ostacolo, la macchina si metteva in moto. E trovava sempre qualcosa: un'affermazione del passato, una vecchia foto, un'amicizia sospetta, un parente compromesso.
"La verità è ciò che è utile all'umanità, la menzogna ciò che le è nocivo", recita la logica del procuratore Gletkin, durante il terzo interrogatorio del protagonista del romanzo, Rubashov. E così l'accusato viene tritato non dai fatti, ma dalla loro ricostruzione funzionale. Non dalle prove, ma dalla narrazione che le avvolge e le trasforma in armi. Attenzione, vale per tutti, trasversalmente. E qualcosa del genere la si può scorgere anche in alcuni processi mediatici come quello fallimentare sulla "(non) trattativa Stato Mafia". Ci vorrebbe davvero una rivoluzione culturale, persino un dopoguerra, per ricominciare da capo e ricostruire un Paese davvero civile.

Report contro Chiara Colosimo: è squadrismo non giornalismo


di Damiano Aliprandi

Se la presidente della Commissione Antimafia Chiara Colosimo avesse semplicemente proseguito sulla scia dei suoi predecessori, Report non avrebbe dovuto raschiare il fondo del barile per colpirla, fino a metterla in evidente e inevitabile imbarazzo con quella fotografia estratta durante l'intervista con studiata tempistica. Eppure, proprio quella scelta di non conformarsi alla narrazione consolidata l'ha posta di fronte a un bivio dalle implicazioni evidenti.
Le strade che le si aprono davanti sono sostanzialmente tre. La prima: rassegnare le dimissioni, cedendo alla pressione mediatica e valanga politica che a breve la colpirà duramente. La seconda: arrendersi accogliendo senza obiezioni le eterne tesi sconclusionate e suggestive avanzate nella relazione depositata dal pentastellato Roberto Scarpinato, rinunciando quindi a sollevare le evidenti questioni di conflitto d'interesse del soggetto.
In sostanza, rientrare nei ranghi, ritrovare quella coesione compatta che per anni ha caratterizzato i lavori della Commissione. Tutti allineati e coperti alla solita narrazione fuorviante. Nessuna voce stonata, nessuna discordia. Un'armonia che ha però il sapore della rinuncia a un'indagine serrata dei fatti.
La terza opzione: proseguire con determinazione lungo il percorso intrapreso, nella consapevolezza che ogni nuovo passo verrà accompagnato da nuovi materiali dissotterrati per screditarla definitivamente. Perché ciò che conta, nella dinamica mediatica contemporanea, non sono i fatti per quelli che sono, quanto la loro orchestrazione, il modo in cui vengono presentati per suscitare indignazione collettiva.
Ed eccoci dunque a quella fotografia. Lei, ventisettenne, insieme a un'amica, che ironizzavano davanti a un busto di Benito Mussolini. È stata una stronzata, come lei stessa ha ammesso? Ovvio che sì. Può sorprenderci davvero? No, considerando che Fratelli d'Italia affonda le proprie radici nel Movimento Sociale Italiano. E con fatica, con grande fatica, sta cercando di liberarsi dei nostalgici fascisti per modernizzare la destra italiana e renderla simile alle destre europee. Ma questo fa di Colosimo una fascista nell'accezione profonda e inquietante del termine, quella che purtroppo attraversa in alcuni settori trasversalmente lo spettro politico? La risposta è no.
Occorre qui una riflessione più ampia. Nessuno ha chiesto dimissioni quando Michele Giarrusso, all'epoca commissario antimafia per il Movimento 5 Stelle, dichiarò pubblicamente di voler prendere a sassate i manifestanti di Potere al Popolo contrari all'ergastolo ostativo e al regime del 41-bis. Affermazioni che, messe a confronto, renderebbero un Del Mastro uno spirito libertario. Eppure, il silenzio.
Certo, quella foto rappresenta un errore di gioventù. A 27 anni, credetemi, si è ancora giovani e la maturazione politica è in movimento. Si tratta davvero di una goliardata, di quelle che ciascuno di noi, guardando al proprio passato, può riconoscere.
Ripenso a me stesso, proprio a ventisette anni, mentre partecipavo a un concerto della Banda Bassotti e, insieme a un caro amico anarchico, intonavo con ironia l'inno sovietico. Senza crederci, naturalmente. Pura provocazione nostalgica.
Così come oggi potrei assistere a un concerto dei 99 Posse per pura nostalgia generazionale, pur essendo perfettamente consapevole che certe posizioni radicali rimangono, per me, nel territorio della metafora musicale e nulla più.
Il punto è un altro: quando la ricerca del passato diventa strumento per annientare il presente, quando ogni gesto giovanile viene trasformato in prova definitiva, quando il dibattito pubblico si riduce a una sequenza di epurazioni mediatiche, allora abbiamo perso qualcosa di essenziale. La possibilità di confrontarci sui fatti, di discutere nel merito, di ammettere che tutti abbiamo un passato imperfetto senza per questo essere condannati a un'eterna gogna.
Parliamo di quell'essenza autenticamente fascista che non si annida tanto in una vecchia fotografia stupida, quanto piuttosto nel metodo Report: è squadrismo, non giornalismo.

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