Header Ads


10 settembre 1976/3: Nardi e la falsa pista nera per Calabresi


 Nel gennaio dell’anno successivo ad Ascoli Piceno un ordigno esplode davanti al palazzo di Giustizia, e un altro danneggia il ripetitore della RAI di Colle San Marco, nelle alture sopra la città. Convinti, non a torto, che dietro ci siano Nardi e i suoi amici, i poliziotti tornano a bussare alla villa di Marino del Tronto e questa volta trovano cose difficili da giustificare con motivazioni di studio. Come un grosso bloc notes in cui Nardi ha elencato una serie di banche della zona, gli indirizzi dei direttori e la distanza dai posti di polizia e carabinieri. Ha anche cronometrato con precisione i tempi esatti che occorrono per svaligiare gli istituti e dileguarsi lungo le strade più sicure.

Anche in questa occasione, comunque, Nardi se la cava a buon mercato. Per tornare in libertà, gli basta sborsare una cauzione di 2 milioni e mezzo di lire: una cifra consistente, ma non per la sua famiglia. Non lo stesso può dirsi per Roberto Rapetti, che dopo la sua confessione viene rinviato a giudizio con accuse pesantissime. Perché anche il rampollo della famiglia di industriali venga chiamato nuovamente a giudizio per favoreggiamento nei confronti di Rapetti occorre un esposto del padre del «parà». Per una strana dimenticanza, nella nuova richiesta di rinvio a giudizio per l’omicidio di piazzale Lotto il nome di Nardi era stato semplicemente «dimenticato».

Finalmente si può celebrare un nuovo processo, questa volta a carico del vero autore dell’omicidio, che si chiuderà nel 1974 con un’unica condanna: quella di Rapetti a venticinque anni. La faccenda, insomma, verrà archiviata come una rapina fatta da un balordo e finita male.39 D’altronde, né la polizia né la magistratura sono al corrente di importanti informazioni su Nardi ed Esposti che il SID invece conosce, e che potrebbero costituire il movente della rapina: foraggiare una banda armata con finalità di eversione politica e terrorismo.

Una nota del SID dell’aprile 1969 segnalava infatti che Nardi meditava di uccidere il rabbino capo Elio Toaff e un giudice della Corte Costituzionale di origine ebraica. E anche di compiere un attentato alla sinagoga di Roma, facendo saltare un’auto imbottita di tritolo all’uscita dei fedeli dal tempio. Secondo l’informativa, Nardi era già in possesso di un grosso quantitativo di tritolo.

Protetto e vezzeggiato, Nardi prosegue i suoi traffici in compagnia di un nuovo amico, Bruno Luciano Stefàno. Trent’anni, figlio di un ufficiale dell’esercito, Stefàno è nato a Ravenna e durante il servizio di leva è stato sottotenente a Palmanova, non lontano da Udine, presso il Reggimento Genova Cavalleria. Ha frequentato un po’ la facoltà di Scienze politiche a Roma, ma presto è finito fuori corso perché fa politica in una delle tante siglette della destra extraparlamentare, intercettando anche i percorsi di Stefano Delle Chiaie e Serafino Di Luia. Stefàno non bazzica solo la scena romana. Ha contatti anche con la cellula di Franco Freda, in Veneto, e sarà in prima fila a Milano nei furiosi scontri del 12 aprile 1973, durante i quali muore l’agente Marino.

Anticipando i legami tra destra eversiva e criminalità comune degli anni a venire, Stefàno non disdegna poi di legarsi a delinquenti di professione. Della partita è anche suo fratello Sergio Giuseppe, che verrà condannato per aver alleggerito, con false firme, i conti correnti di persone famose, tra le quali Monica Vitti.

Il 20 settembre 1972 Nardi e Stefàno si recano in Svizzera per tornare in Italia in giornata con un carico interessante: sul sedile posteriore della loro Mercedes c’è la bella fidanzata di Stefàno, Gudrun Kiess Mardou. Gudrun è una delle tante ragazze tedesche che sono venute in Italia a cercare fortuna a Cinecittà: è riuscita a rimediare soltanto qualche particina, anche se in film importanti, come Roma di Federico Fellini e Scipione detto anche l’Africano di Luigi Magni.43 Appare anche in svariati fotoromanzi erotici, un genere all’epoca diffuso.

Sotto il sedile della Mercedes ci sono nascoste un paio di pistole, comprate da un trafficante svizzero, dodici candelotti di gelignite e dieci metri di miccia a lenta combustione. A trovarli, quando i tre cercano di passare come normali turisti al valico di Brogeda, non lontano da Chiasso, è la guardia di finanza, insospettita dal comportamento di Stefàno. Quando gli chiedono se ha qualcosa da dichiarare, risponde che ha sei stecche di sigarette, smonta dall’auto e va dritto a pagare.

Il giorno dopo la polizia scopre, in un cestino di carta straccia della stazione, una scatola con un centinaio di detonatori. Forse è stata proprio Gudrun a liberarsene dopo il fermo. Intanto a bordo della Mercedes di Stefàno vengono rinvenuti anche una stampa commemorativa di Benito Mussolini, un numero di Historia dedicato all’attività della Gestapo in Francia, una copia della rivista Il Legionario e un fotoritratto di Hitler. Agli allibiti finanzieri Stefàno spiega che la foto del Führer gli serve perché è uno studioso di cose militari.

La notizia giunta dal valico svizzero elettrizza il magistrato di Milano Libero Riccardelli. Incaricato di indagare sulla morte del commissario Calabresi, è convinto di aver finalmente individuato i responsabili. Nardi assomiglia al photofit del killer, Gudrun potrebbe essere la bionda che secondo un testimone guidava l’auto del commando e Stefàno il basista. In fondo Calabresi, prima di morire, stava indagando su un traffico internazionale d’armi. Nardi poteva avere dunque un buon movente per ucciderlo.

La notizia suscita un certo sconcerto nella sede del SID di Perugia e induce il responsabile, il maggiore dei carabinieri Manlio Rocco, a scrivere un rapporto alquanto irrituale: «Meraviglia molto la connessione con il caso Calabresi ma visti i precedenti, una testa malata come quella del Nardi potrebbe anche essere stata capace di organizzare un assassinio del genere».

Quello che è certo è che Nardi sta studiando un piano per far evadere dal carcere Roberto Rapetti e Giancarlo Esposti, come dimostra un carteggio cifrato che la polizia gli sequestra nel lussuoso appartamento di famiglia di Milano a due passi da piazza San Babila. Sono lettere che documentano il carattere cameratesco di Nardi, che all’amico in carcere manda per Natale una decina di scatole di sigari. Rapetti ringrazia, ma non ricambia perché non ha soldi. Promette però di rimediare quando ne avrà, spedendogli un disco di Lucio Battisti.

Nasce così, al valico di Brogeda, grazie alla complicità della stampa, la leggenda nera di Gianni Nardi. L’uomo che traffica armi ed esplosivo in compagnia di conturbanti attrici porno. L’assassino del commissario Calabresi. Quell’insieme di cose che porteranno al disseppellimento della sua salma nel tentativo, fallimentare, di comprenderne una volta per tutte l’ambiguità e il segreto.

A parte la prima, le altre accuse sono completamente infondate; bisogna ammettere che il personaggio in effetti si presta a ricamarci intorno: capelli biondo cenere tagliati a spazzola, abiti di foggia militare, stivaletti da parà, camicia chiusa senza cravatta sul collo taurino, muscoli forgiati dalla pratica del judo. Per impressionare gli amici di Ascoli pare abbia detto: «Io ho il sangue di un rettile. Non mi scompongo mai, non ho paura di nulla. Posso attraversare il fuoco e nelle mie vene scorrerà ugualmente liquido freddo».

Adesso più che mai i giornalisti vogliono sapere tutto di lui e la sua fama di «uomo che non deve chiedere mai», come reciterà una pubblicità maschilista di qualche anno dopo, li induce a cercare le testimonianze delle donne che ha fatto sue. «Gianni è uno che vuole andare controcorrente», racconta una certa Nicky. «I capelli li porta rapati, quasi a zero, perché tutti gli altri se li lasciano crescere. È un tipo ossessionato dalla gente, vuole stupire e distaccarsela sempre.»

Viene intervistato anche Paolo Merlini, che non è solo un amico di Nardi, ma anche il suo sosia, tanto i due si somigliano. «Io e Gianni siamo due militaristi convinti. Siamo interessati alle armi in ogni loro forma ed espressione», spiega, e poi dice che per fare esperienza «ci saremmo arruolati anche in un esercito straniero», evidentemente ignaro che Gianni ha tradotto in realtà quello che per lui è rimasto un vaneggiamento da bar dello sport. «Quello italiano, infatti, è troppo molle. Noi aspiriamo a qualcosa di diverso dagli altri, che ci facesse sentire degli uomini, veri, vivi.»

Intanto l’inchiesta sulla morte di Calabresi prosegue, nonostante contro Nardi, Stefàno e la ragazza tedesca non ci sia molto. Per un po’ tiene banco la deposizione di una giovane infermiera incarcerata per furto, Luigina Ginepro, secondo cui Gudrun, dopo l’arresto al valico svizzero, le avrebbe confidato di aver fatto parte del commando che ha assassinato il commissario. Ma si tratta soltanto di una povera mitomane in cerca di notorietà.

Nardi invece è rimasto in Italia, con il solo obbligo, che come vedremo viola continuamente, di dimorare ad Ascoli in attesa del processo.

Le indagini continuano stancamente per un anno e mezzo, e Riccardelli rischia anche di essere sottoposto a un procedimento disciplinare per scarsa produttività. Poi però si rimbocca le maniche e all’improvviso, il 3 marzo 1974, spicca tre mandati di cattura contro Nardi, Stefàno e la Kiess.48

Per motivi che ancora oggi restano uno dei tanti misteri di questa faccenda, i primi a sapere del mandato di cattura sono i giornalisti. Forse chi ha fatto trapelare la notizia vuole che i catturandi scappino, inchiodandosi addosso da soli la propria colpevolezza. Ed è esattamente quello che succede.

Gudrun e il fidanzato vivono in un appartamento a Roma, nella sonnolenta zona Lanciani, intestato a loro amici malavitosi, tra cui un noto falsario, Mario Cappuccini, e un futuro trafficante di droga, Leandro Leoni.

I vicini di casa hanno visto spesso Gudrun con un’appariscente parrucca rossa, mentre Stefàno, che è sotto inchiesta anche per il golpe Borghese, si è fatto notare picchiando il condomino a cui è solito usurpare il posto auto. La sera del 3 marzo sentono al telegiornale la notizia che la polizia li sta cercando. I due partono quindi in fretta e furia per la Spagna, dove trovano un sicuro rifugio. Tra l’Italia e la Spagna vige una convenzione che impegna i due Paesi a scambiarsi le persone imputate o condannate. Con l’eccezione, però, dei delitti politici. Non a caso i due fidanzati si dichiarano fascisti perseguitati per le loro idee.

Dalla Spagna Gudrun respinge risolutamente le accuse della Ginepro e nega di averle mai fatto delle confidenze. All’inviato della Domenica del Corriere Norberto Valentini racconta di aver saputo della morte del commissario a Roma, ascoltando il telegiornale con la mamma del fidanzato. Quanto all’esplosivo che Stefàno e Nardi hanno tentato di far passare alla frontiera, ribadisce che non ne sapeva niente: «Io una bomba non l’ho mai vista in vita mia, se non al cinema».

Gianni Nardi invece si rifugia prima in Cile e poi in Spagna, alle Baleari. E per un po’, finalmente, nessuno sente più parlare di lui. Anche perché nel 1975 i magistrati lasciano cadere l’accusa di omicidio nei confronti del commissario Calabresi, e le indagini per la strage di piazza della Loggia, in cui pure è coinvolto Esposti, prendono tutt’altra strada. Anche se, tanto per non sbagliare, il Tribunale di Ascoli non chiude un vecchio fascicolo per contrabbando di armi. Così, quando, il 19 settembre 1976, i giornali danno notizia della sua morte in un incidente a Maiorca, il pubblico sembra ormai essersi dimenticato di lui.

In definitiva, cercare una verità univoca su una figura tanto controversa come quella di Gianni Nardi sembra un’impresa assurda, e probabilmente inutile. Sono state troppe le interferenze, le proiezioni e le distorsioni applicate a forza su di un uomo che, almeno da un certo punto in poi, non ha più potuto difendersi. Alle tante verità manca solo quella della madre Cecilia. Molti si erano chiesti perché non avesse riportato il corpo del figlio in Italia, e alcuni avevano anche supposto che la mancata traslazione fosse la prova che quella seppellita non fosse la salma di Gianni.

Come aveva riferito il console Montalto, subito dopo l’incidente, quando era a Maiorca, la signora Cecilia aveva pensato di farlo, ma poi si era imbattuta in una spagnola, una signora molto anziana, che l’aveva confortata in quel momento terribile. «Perché vuoi portare via tuo figlio?» le domandò. «Non sai che Dio vuole che il corpo sia seppellito nella terra dove muore?» «Tale frase mi colpì talmente tanto», raccontò Cecilia, «che decisi di dare sepoltura presso il piccolo cimitero di Campos, nonostante avessi preparato tutta la documentazione per portarlo in Italia.»(3-fine)

FONTE: Massimiliano Griner, Anime nere, Sperling & Kupfer

1 commento:

  1. sull'assassinio del Commissario Luigi Calabresi vi è stata anche una pista neofascista legata al traffico d'armi

    RispondiElimina

Powered by Blogger.