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40 anni fa a Padova la cattura di Valerio Fioravanti


 Ma in queste settimane del gennaio-febbraio 1981 matura, negli ambienti della malavita veneta che frequenta Cavallini, un altro progetto: un rapimento «eccellente».

Francesca Mambro:

La criminalità organizzata del Veneto propone a Gigi di rapire il figlio di Benetton. Ci dicono che hanno già fatto una serie di appostamenti e pedinamenti. Che sanno già anche a quale banda «cedere» il ragazzino. Io e Valerio gli diciamo che non se ne parla proprio: «Ma siete matti? Rapire un ragazzino? Stateci lontani perché noi queste cose non le facciamo e non ci piacciono». Noi avevamo un nostro codice d’onore: niente sequestri di persona e niente commercio di droga.

Gabriele De Francisci:

Rientro in Italia dal Libano per il Natale del 1980. Dovevo tornare a Beirut a gennaio, ma resto in Italia perché in Libano è scoppiata una nuova guerra civile. A quel punto recupero i miei contatti con Cristiano e gli dico: «Dobbiamo convincere Valerio e Francesca a mollare tutto e venire con me in Libano». Cristiano mi risponde: «Ok, andiamo a Milano e cerchiamo di parlargli per farli venire via e abbandonare la lotta». Arrivati a Milano, Valerio ci dice: «C’è un problema, dobbiamo tornare di corsa a Padova, perché è successo un guaio: dobbiamo recuperare delle armi». Così andiamo tutti a Padova.

Il piano era semplice: fare un’ultima rapina e con i proventi scappare tutti in Svizzera, e poi si vedrà. Belsito e Soderini attraversano la frontiera, gli altri dovrebbero seguirli dopo il colpo. Le armi sono state lasciate a un uomo di Cavallini, il padovano Fiorenzo Trincanato. Ma accade l’impreve-dibile: la moglie di Trincanato si incazza, gli dice che non vuole armi in casa e chiama la polizia.

Lui non ha altra scelta. Carica l’arsenale in macchina e, in fretta e furia, lo scarica in un canale di campagna, il Lungargine Scaricatore. Poi chiama Cavallini e gli racconta tutto. Quando Valerio lo viene a sapere, se la prende con Gigi, ma ormai la frittata è fatta. Le armi vanno subito recuperate, così Cavallini, Fioravanti e la Mambro si precipitano a Padova.

Ma l’unico in grado di immergersi con una muta è Valerio. Certo, anche Cristiano è un bravo sub, ma è ancora a Milano con Vale e De Francisci. Valerio gli telefona, chiedendogli di raggiungerlo con maschera, pinne e muta, per aiutarlo nel recupero delle armi.

È la sera di giovedì 4 febbraio 1981. Cristiano arriva e si offre di immergersi, aiutato da Trincanato, mentre Valerio e Francesca gli guarderanno le spalle. A controllare la situazione, dall’altra parte del canale, la seconda auto con Cavallini e De Francisci. Ma lì vicino abita un vigilante, la cui finestra dà proprio sullo slargo dove si svolge il recupero. La guardia giurata si affaccia e si imbatte in una scena surreale: una coppia di giovani che assiste un altro giovane in muta da sub. In piena notte. La cosa è troppo strana, così decide di chiamare i carabinieri.

La gazzella Eden 8 arriva in silenzio. Sull’Alfetta ci sono due militari: alla guida il carabiniere Luigi Maronese e al suo fianco il capopattuglia, l’appuntato Enea Codotto. L’auto passa davanti alla Golf nera di Fioravanti e Mambro e si avvicina pericolosamente a Cristiano e Trincanato, che cer-cano di nascondersi tra i canneti. Ma i fari dell’Alfetta li hanno già messi a fuoco. Trincanato riesce ad allontanarsi, mentre Codotto scende dall’auto e si avvicina a Cristiano. L’appuntato tira fuori la pistola e chiede a Cristiano di uscire dall’acqua. A quel punto Valerio decide di agire. Mette in moto la Golf e fa a marcia indietro poche decine di metri. Poi arresta l’auto. Spegne motore e fari, tira fuori le due pistole dal giaccone e si avvia verso l’auto dei carabinieri, seguito dalla Mambro, che a sua volta impugna altre due pistole. In quel momento Maronese sta parlando alla radio per chiedere rinforzi. Valerio gli urla: «Non muoverti!» Lui reagisce e Fioravanti gli spara contro tre colpi di pistola. Poi si getta sotto l’auto dei carabinieri, che ha ancora il motore acceso, e urla all’altro carabiniere, quello che ha sotto tiro Cristiano: «Getta le armi!»

Ma nel frattempo, strisciando, è uscito dall’auto e ora è lui in posizione pericolosa. Così, preso dal panico, spara con tutte e due le armi contro Co-dotto. Che risponde al fuoco e lo colpisce a entrambe le gambe.

Valerio ha finito i colpi e urla: «Non sparare, butto tutto», mentre sta pensando di recuperare l’altro caricatore che ha in tasca, riprendersi una delle pistole che ha buttato via e continuare a sparare. Ma non fa in tempo ad agire che Cristiano lo precede. Si mette a correre verso l’auto, seguito da Codotto. Cristiano arriva all’Alfetta per primo e si impossessa della pistola di Maronese, mentre Codotto ha appena aperto la portiera posteriore per prendere la mitraglietta M12.

Cristiano è in vantaggio e spara per primo. La battaglia è finita. I due militari sono stati uccisi, Valerio Fioravanti è gravemente ferito: un colpo gli ha reciso l’arteria femorale. Quelli che stavano di copertura dall’altra parte del fiume non hanno potuto aiutarli. Cristiano e Francesca caricano Valerio in auto e scappano verso una casa che hanno affittato a Padova. Appena entrati, su insistenza di Valerio, lo abbandonano. Poco dopo alcuni ragazzi che abitano nell’appartamento vicino, chiamati da Valerio, avvertono il 118. Finisce così, in una notte d’inverno del 1981, in un anonimo appartamento di Padova, la carriera del più noto terrorista nero del dopoguerra.

Inizialmente Fioravanti si dichiara prigioniero politico e dà delle false generalità. Ma appena gli prendono le impronte digitali, la sua vera identità salta fuori. Dopo un paio di giorni cominciano gli interrogatori di Borraccetti. Sentiamolo ancora:

Noi avevamo il terrore che con il siero di Pentothal ci facessero parlare. Così decisi di giocare d’anticipo. E prevenirli, cominciando a dire qualcosa.Ma facevo racconti in maniera confusa e parziale, per prendere tempo. Ogni tanto facevo finta di svenire e Borraccetti era costretto a sospendere l’interrogatorio. Pian piano, però, cominciai ad avere un rapporto di fiducia con lui, che si protrarrà nel tempo. In quel momento magistrati e investigatori non avevano la minima idea di cosa fossero i Nar. Applicavano a noi le stesse categorie interpretative del terrorismo rosso, e quindi erano fuori strada. Così provai a fargli capire chi fossimo e cosa volessimo.

Per questa sua interlocuzione con alcuni magistrati, nel tentativo di spiegare la vera storia dei Nar, Fioravanti sarà duramente attaccato da diversi camerati, che lo accuseranno, più o meno apertamente, di essere un «infame». Ma lui si difende e spiega questa scelta:

A me non è mai piaciuto chi si definisce «combattente rivoluzionario», ma poi, quando l’arrestano, nega tutto per non farsi la galera. Se neghi la tua storia e la tua identità, che militante politico sei? Il malavitoso, il mafioso, il delinquente comune, che non hanno ideali, negano qualunque cosa. Nega tutto un Totò Riina, che dice che è un contadino e non c’entra niente con la mafia. Però se tu ti definisci un combattente rivoluzionario, ma dici che passavi per caso nel posto dove c’è stata un’azione armata e non c’entravi niente, manchi di rispetto alla tua storia e al tuo mondo. Questa, almeno, è la mia opinione.

FONTE: Nicola Rao, Il piombo e la celtica

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