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16 giugno 1979, assalto al Pci Esquilino. Di Vittorio: vendicammo Cecchin ma non cercammo i morti

Dal libro Il piombo e la celtica, il volume che conclude la Trilogia di nicola rao per Sperling & Kupfer.

Se la vendetta «mirata» (seppure con un obiettivo sbagliato) per Ramelli salta, quella indiscriminata per vendicare Francesco Cecchin andrà in porto. Militante missino della sezione Trieste-Salario, frequentatore di Sommacampagna, Cecchin è anche amico dei rivali di Terza Posizione, che proprio in quel quartiere hanno la loro roccaforte. La sera del 28 maggio, mentre sta passeggiando con la sorella, viene riconosciuto e inseguito da un gruppo di militanti del Pci della sezione locale. Lo ritrovano, già in coma, riverso in un ballatoio cinque metri sotto il livello della strada. Nessuno saprà mai se è stato spinto dagli avversari o ci è caduto da solo, ma il fatto rimane: Cecchin è in fin di vita a causa di una tentata aggressione dei compagni. Morirà il 16 giugno.
La vendetta scatta immediata, il giorno stesso. Al Fuan, a spingere per la rappresaglia sono soprattutto l’ex gruppo Prati e Dario Pedretti. L’obiettivo: una sezione romana del Pci contro cui lanciare un paio di bombe a mano da esercitazione. Fare insomma un’azione spettacolare, ma senza morti. Fioravanti è contrario, tanto che per il pomeriggio in cui è programmata la rappresaglia si precostituisce un alibi, restando nel giardino di casa a cogliere albicocche con la fidanzata di allora.
Oggi spiega:
Non è che fossi contrario alla vendetta, ma solo contro la rappresaglia indiscriminata, gli spari nel mucchio.
Alle 19.30 scatta il blitz. Alla sezione del Pci Esquilino, in via Cairoli 131, è in corso un’affollata assemblea di iscritti, quando all’improvviso entrano due giovani. Uno spara sei colpi con una 7,65 alle gambe dei presenti, mentre l’altro lancia all’interno due bombe a mano Srcm da esercitazione.
Poi i due fuggono su un Vespone e una moto, con due persone alla guida che li stanno aspettando. Il bilancio è di venticinque feriti, tre dei quali gravi. La rivendicazione arriva in piena notte, alle 3.30, con una telefonata al Messaggero:
Ieri un Nucleo Armato Rivoluzionario ha colpito la sezione del Pci di via Cairoli. Eseguiamo così in parte la nostra sentenza di condanna nei confronti dei responsabili dell’omicidio del camerata Francesco Cecchin, ucciso davanti alla sezione del Pci di piazza Vescovio. Diciamo in parte perché ieri abbiamo colpito semplici attivisti del Pci, complici morali in quanto portatori dell’antifascismo più reazionario. Domani colpiremo i responsabili materiali, già individuati e condannati, questa volta a morire. Ribadiamo ancora una volta che i nostri veri nemici sono i rappresentanti dell’antifascismo di Stato, in quanto i loro mezzi subdoli (dai mass media alla magistratura) ci colpiscono certo di più di chi ci affronta apertamente in piazza. Ma chi oggi ha riempito le galere di camerati e ha insozzato sui giornali e alla televisione la memoria dei nostri caduti, sappia che, dopo averli distrutti, sapremo anche convincere la gente che quello che abbiamo fatto rientra nel giusto.
Post scriptum: precisiamo che sono stati sparati sei colpi calibro 7,65 e lanciate due bombe a mano di tipo Srcm da esercitazione.
Il gruppetto che realizza l’azione è composto da quattro persone a bordo della Vespa e della moto. Alla guida Di Vittorio e una persona mai identificata, mentre a entrare nella sezione sono due leader di via Siena: Pedretti e Aronica.
Sentiamo Di Vittorio:
Quando muore Cecchin, decidiamo subito di reagire. Il primo obiettivo che ci viene in mente è la sezione del Pci di Ponte Milvio, ma quando arriviamo là troviamo una marea di auto e blindati della polizia. Non lo sapevamo, ma quel pomeriggio c’era un’assemblea con un parlamentare importante del partito. Allora ce ne andiamo e decidiamo di attaccare un’altra sezione comunista: quella di via Cairoli, all’Esquilino. Dai manifesti affissi in città avevamo appreso che anche lì ci sarebbe stata un’assemblea, quindi non l’avremmo trovata vuota. Era una delle sezioni storiche del Pci in città e poi – altro particolare importante – era abbastanza vicina a via Siena. Tanto che partimmo dal Fuan e ritornammo in sede in pochi minuti. Si scendevano delle scale e c’erano diversi locali. Saranno state presenti una quarantina di persone. Tirammo due bombe a mano Srcm, tanto che la maggior parte di loro fu ferita da schegge. Sì, sparammo anche con le pistole, ma solo alle gambe di chi ci venne incontro. Non volevamo uccidere nessuno, e infatti non morì nessuno. La cosa folle è che ci hanno condannati per strage. Secondo me, sicco-me Valerio era coimputato con noi in questo fatto (anche se se ne stava a cogliere le albicocche nel giardino di casa sua a Monteverde), a loro interessava presentarlo in quella messinscena del processo di Bologna come persona che aveva già una condanna per il reato di strage e avere quindi un appiglio in più, oltre a quella massa di «cantanti» che lo accusavano, per farlo condannare. Se spari a uno alla gamba non è tentato omicidio, ma lesioni. Se sparo a mille persone su un piede, sono lesioni plurime. Il reato di strage si configura quando c’è volontà omicida. Se avessimo voluto uccidere, saremmo entrati là con le mitragliette e bombe a mano non offensive, ma difensive. La bomba a mano offensiva è tirata dal soldato in avanti, quando va all’assalto, e fa solo un grande rumore per confondere il nemico. Quella difensiva è più potente, serve a proteggersi dagli assalti altrui, e se la tiri, uccide. Noi usammo volutamente quelle offensive, proprio per evitare di ammazzare gente. Era un attentato eclatante nella forma, ma misurato nella sostanza. Lo facemmo per dire ai compagni: «Fatevi i fatti vostri, non ci rompete più i coglioni». Ma penso che non sia stato recepito...
Nel giugno 1980, nel primo anniversario della morte di Cecchin, Fioravanti, che ormai fa coppia fissa con Francesca Mambro e guida il nucleo principale dei Nar (nel quale è confluito anche il milanese Gilberto Cavallini), penserà a una vendetta «mirata», che però non gli riuscirà. Sentiamolo:
La voce negli ambienti dei camerati del Trieste-Salario raccontava che tra i responsabili della morte di Francesco ci fosse il dirigente comunista Sante Moretti. Decidemmo di eliminarlo. Si diceva che frequentasse i ristorantini intorno alla direzione nazionale di Botteghe Oscure. Così con Francesca diverse volte facemmo delle «passeggiate» intorno a Botteghe Oscure sperando di incontrarlo. Ma non accadde...
Anche Gabriele Adinolfi, all’epoca uno dei leader di Terza Posizione, pur non avendo mai fatto parte dei Nar, conserva ricordi precisi di quei mesi, soprattutto a proposito di Sante Moretti:
Lui era nel mirino del nostro ambiente. Su questo non c’è dubbio. Tanto che, avvertito dai servizi, pensò bene di scomparire da Roma. Certo, ce l’avevamo con lui perché era ritenuto tra i responsabili della morte di Cecchin, ma non solo. C’era tutta una serie di dati e informa-zioni precedenti, non so se vere o false, che lo riguardavano. Anni prima, per esempio, era circolata anche la voce che Moretti fosse coinvolto nel rogo di Primavalle. Accadde questo: alla fine del 1973, in carcere, Achille Lollo confessò ad Andrea Ghira4 che lui non c’entrava con la strage dei fratelli Mattei, fornendogli una serie di prove e informazioni incredibili, che portavano tutte al ruolo centrale che Moretti all’epoca aveva negli ambienti più duri della sinistra romana. Lollo parlò di una vera e propria rete di gruppi di fuoco organizzati e indicò Moretti come uno dei dirigenti principali di questa rete. Ora non so se Lollo lo abbia fatto per allontanare da sé le accuse della strage o meno. Ma questo ci raccontò Ghira...
Ma torniamo ai momenti seguenti all’attentato di via Cairoli, che segnerà il canto del cigno del Fuan-Nar, anche perché due giorni dopo Fioravanti viene arrestato e passerà tutta l’estate in carcere. Il 18 giugno la polizia svizzera blocca al valico di Ponte Chiasso un’auto targata Roma. A bordo ci sono tre giovani: Enzo Pallata, Francesco Borgogelli e Valerio Fioravanti. Saltano fuori una 7,65 con matricola limata, otto cartucce, un silenziatore e alcuni foglietti che raffigurano delle svastiche. I tre stavano andando oltreconfine per comprare dei pezzi di impianto stereo rubati, a prezzo stracciato, ma sono tempi in cui si va in giro armati per qualunque occasione... Vengono subito consegnati alla polizia italiana, che accusa Valerio di aver partecipato all’assalto di via Cairoli. Lui nega e chiama a testimoniare la sua fidanzata e una vicina di casa, che confermano: quel pomeriggio Valerio era a casa sua a raccogliere le albicocche.
In più la perizia sull’arma trovata a Ponte Chiasso darà esito negativo: non è quella usata in via Cairoli. Inoltre Borgogelli dirà che l’arma era sua e non di Valerio. Alla fine, Fioravanti viene scarcerato per mancanza di indizi. È il 20 ottobre 1979.

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