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Letti da noi /20 la mia Avanguardia di Adriano Tilgher

Giacinto Reale, storico dirigente del Movimento Sociale Italiano a Bari, autore di interessanti saggi sullo squadrismo tra cui ricordo Racconti squadristi, prezioso collaboratore del blog recensisce la Mia Avanguardia, il nuovo libro di Adriano Tilgher, edito da Avatar Edizioni.



A più di quarant’anni dallo scioglimento, due libri-testimonianza di esponenti di Avanguardia Nazionale: “La mia Avanguardia” di Adriano Tilgher, e “Una vita in Avanguardia Nazionale” di Domenico “Mimmo” Magnetta e Ippolito Edmondo Ferrario.
Libri che trattano  i fatti in una successione che si può dire temporale,  perché quello di Tilgher finisce (ma forse ne arriverà una seconda parte) praticamente nel 1974, quando   quello di Magnetta comincia (“Poco prima di iniziare le superiori, spinto da curiosità, ero andato un pomeriggio, alla sede di Avanguardia nazionale, al n. 4 di via Adige” scrive, e quindi più o meno siamo lì).
Libri diversi, perché diversi sono temperamenti e caratteri degli autori, diverso fu il loro ruolo nel movimento, diverse –anche se in qualche occasione coincidenti- le città nelle quali svolsero prevalentemente la loro azione di “rivoluzionari contro il sistema”.
Già il solo fatto che Tilgher sia nato nel 1947, esattamente dieci anni prima dell’altro autore-avanguardista, e che il suo libro si apra con la famosa “battaglia di Valle Giulia”, del 1° marzo 1968, mentre Magnetta è ancora impegnato nelle scazzottate a scuola con chi lo chiama “terrone”, può aiutare a capire quante siano le diversità “alla base” che segneranno l’intero iter politico dei due, che pure militeranno nello stesso movimento.
Dieci anni in politica valgono quanto una generazione nella vita normale: le esperienze, i riferimenti umani, storici e dottrinari che Tilgher si porterà appresso fioriscono sulle scale della Facoltà di Architettura e sono evidentemente diversi da quelli di  Magnetta che solo qualche anno dopo  si affaccerà alla sede milanese di Avanguardia.
E, quanto rilevante sia questa differenza, lo dimostra anche il fatto che   le prime centocinquanta  pagine su duecentocinquanta complessive del libro del futuro leader romano siano dedicate ai due anni scarsi che vanno da Valle Giulia all’apertura delle sede in via Arco della Ciambella, quando cioè a Milano Magnetta è ancora un ragazzino con i calzoni corti.  
Anche il clima generale nel quale matura la loro scelta è molto diverso. E’ vero che a Roma, dopo una iniziale quanto fallace tregua (nel libro viene riproposto, tra gli altri, l’episodio già noto delle partite a pallone “con qualche calcio di troppo” all’interno dell’Università insieme occupata, con i “neri” a Giurisprudenza e i “rossi” a Lettere) non mancano scontri e bastonate, ma a Milano è “Mammarosa” a “dare la linea”, quando si presenta, minaccioso, al bar Celeste, noto ritrovo di katanghesi e MS, con due pistole alla cintola.
Nella Capitale resta l’Università il luogo deputato del confronto, con il dirigente avanguardista romano che, al suo solo apparire, ogni giorno, per andare a lezione o sostenere esami, viene fermato dagli agenti e condotto in Questura, senza motivo, a scopo “preventivo”. A Milano invece, dove l’accesso alla Statale –e anche  alla Cattolica-  è praticamente interdetto ai giovani neofascisti,  sono i bar i moderni “Ok Corral” delle sfide.
E’ nel ricordo di quelle giornate di lotta alla Sapienza che Tilgher, con giusto orgoglio ripercorre le tante iniziative –spesso con coinvolgimento di molti studenti- che Avanguardia porta a termine anche nelle Scuole superiori, e  riproduce il testo di documenti e volantini sopravvissuti ai vari sequestri giudiziari, soffermandosi, in particolare sull’opuscoletto “La lotta politica di Avanguardia Nazionale”, edito nel 1972, che, ristampato qualche anno fa, conserva ancora interessanti spunti di frescheza e modernità.
Niente di tutto questo vi è in Magnetta, per il quale tutto, o quasi, si risolve nell’urgenza di una lotta per la sopravvivenza.
La rivolta di Reggio, che Tilgher dettagliatamente ricostruisce, quasi minuto per minuto in certi passaggi, rappresenta la punta di maggior successo della battaglia antisistema di Avanguardia, ma anche anticipa la sua fine, certo anche per la pericolosità e la capacità di incidere sulla realtà, dimostrata in quella occasione dal movimento, aldilà  di quanto sarebbe stato logico aspettarsi per la sua stessa limitata  consistenza numerica.
Col senno di poi, il momento di svolta può essere individuato nel fallimento del golpe Borghese, al quale fa da contraltare l’inizio di un’offensiva mediatica, giudiziaria e di piazza senza precedenti “ contro il fascismo”.
Pur senza darci alcuna certezza su ciò che accadde e soprattutto sarebbe dovuto accadere (“Io non so se effettivamente ci fu un tentato colpo di Stato”), il dirigente avanguardista romano difende le ragioni alla base del tentativo, contro quanti nell’”area”, allora e anche oggi, prendono le distanze, considerandolo un progetto di natura militar-conservatrice sotto l’egida protettrice atlantista: “Non avremmo mai consentito, e questa era una nostra volontà precisa, avallata, condivisa ed imposta dal Comandante Borghese, che i militari prendessero in mano le redini del Governo”.
Nessuno vuole mettere in dubbio la volontà espressa dall’A, ma è lecito nutrire  qualche dubbio   sulla effettiva possibilità di “non consentire”, a cose fatte, una deriva reazionaria.
A quella notte di “Tora tora tora” seguono, per Avanguardia, anni di attività diffuse, sia pure ad ondate ritornanti, legate alle capacità di qualche attivista e dirigente locale, su tutto il territorio nazionale.
Nel libro viene citata anche Milano, ma senza riferimenti a Magnetta, con particolare riguardo, piuttosto, alla ambigua figura di Carlo Fumagalli che nel capoluogo lombardo affascina gli ambienti giovanili neofascisti, ma è “bandito” dal vertice romano, anche a costo dispiacere ad alcuni come Vivirito e D’Intino (non Magnetta, invece, che ne era già “poco convinto”).
Siamo, comunque, alla fine. Cominciano a circolare voci di scioglimento per “ricostituzione” del movimento, e l’unica risposta possibile è quella di serrare i ranghi, come recita la circolare “urgente e riservatissima” del 16 aprile 1973, contro le manovre provocatorie che il Regime sta allestendo.
Essa prevede il controllo “uno per uno” di tutti gli iscritti, il blocco delle iscrizioni, e, soprattutto “più che mai una rigida disciplina”.
Credo si possa dire questa sia stata la cifra distintiva più significativa della storia dell’organizzazione, e il momento fondativo di quella “scuola di vita” che essa voleva essere.
Con una scelta, se vogliamo, anche innovativa rispetto ad una certa tradizione “fascista” fatta, fin dalle origini, aldilà delle parole, di approssimazione e spensierato anarchismo, che sempre avrebbe avuto un alto costo in credibilità e persino –nei momenti più tragici, e penso al quadriennio rivoluzionario, ad episodi come quello di Sarzana, per esempio-, vite umane.
Questa scelta sembrò, a chi, come il sottoscritto quegli anni visse, ma nelle file missine, elitarista ed escludente, ma fu l’unica in grado di evitare allora ogni forma di “pentitismo” avanguardista e consentire  oggi la sopravvivenza di una “traccia” umana e ideale, mentre altri associazionismi sentimentali e reducistici di “area” languono, provati dalle molte delusioni.
In questo senso, può dirsi che quella di Tilgher e dei suoi camerati fu una battaglia vinta. Agli uomini di oggi il compito di farla vincente.

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