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16 maggio 1977. Sparatoria in Tribunale a Roma. Arrestato Francesco Bianco

Il 16 maggio 1977 Francesco Bianco, uno dei componenti del primo Nucleo armato rivoluzionario di Monteverde è arrestato dopo una sparatoria in Tribunale. La sua testimonianza a Nicola Rao ci restituisce più di tante analisi il rapporto "leggero" tra quella generazioni di giovanissimi camerati e le armi.

Nel marzo del ’77 qualcuno mi aveva dato una pistola calibro 7,65, modello 70. Era talmente nuova che non riuscivi nemmeno ad armarla per quanto era dura. Una mattina salgo sul mio Vespone verde, con le «chiappe» ricoperte di adesivi. Destinazione: qualche prato di Tor di Quinto per provare la nuova pistola. Mentre sono fermo al semaforo di piazzale Clodio, mi passa davanti un camerata della sezione Prati, Ferdinando Ferdinandi, che mi dice: «Sto andando in tribunale, a un processo». Quella mattina c’era la prima udienza per gli scontri del campo sportivo Don Orione. Era successo che mentre c’era una partita di calcio, sugli spalti, improvvisamente, si erano riconosciuti un gruppo di compagni con un gruppo di camerati e ne era nata una rissa tremenda, che finì anche con alcuni arresti. Allora dico a Ferdinandi: «Vorrei venirci anch’io al processo, ma sono armato». E lui: «Che c’entra, pure io sono armato...» Così parcheggio la Vespa là davanti, vicino al bar Rosati. Ferdinandi mi dice: «Lascia la pistola nel baule della moto». «No», rispondo, «me la tengo con me.» All’epoca in tribunale ci entravi come niente, c’erano controlli all’acqua di rose. Così entriamo senza problemi. Il processo si teneva nell’aula proprio in fondo al tribunale e c’era da attraversare tutto il palazzo. Mentre camminiamo, incrociamo quattro o cinque compagni. All’epoca ci si riconosceva a pelle, a naso. Allora suggerisco a Ferdinandi: saliamo al piano di sopra, percorriamo tutto il piano e poi scendiamo alla fine, così evitiamo i compagni. Il problema è che anche loro avevano pensato la stessa cosa, salendo al piano di sopra dalla parte opposta alla nostra. Alla fine, al primo piano, ci troviamo di fronte: ’sto gruppetto di compagni da una parte, io e Ferdinandi dall’altra. Ci guardiamo in cagnesco. Sembrava la sfida all’ok corral. Alla fine dico: «Non mi sembra il caso di fare casino qui dentro, vediamoci fuori». Loro sono d’accordo. Così si forma questo gruppetto surreale: io e Ferdinandi davanti, i compagni dietro. Usciamo sulla strada laterale, che oggi è dedicata a Mario Amato. Ma invece di andare a sinistra per imboccare altre strade e dileguarci, ci sbagliamo e giriamo a destra dove, all’epoca, la strada era senza uscita. Intanto i compagni cominciano a fare il passaparola e a chiamarne altri che stavano dentro il palazzo. A metà stradina vedo che si sono già moltiplicati: saranno stati almeno una ventina. Allora tiro fuori la pistola. Ma non armava bene; il tempo di riuscire ad armarla e questi si erano già buttati per terra. A quel punto gli sparo contro. E centro il lunotto della macchina dietro alla quale si sono riparati. Alle 10 di mattina. A venti metri dal tribunale! Ripensandoci, una vera follia... Poi mi metto a correre, scappo all’impazzata, entro in un palazzo, salgo su, poi riscendo. E a quel punto mi trovo davanti qualunque cosa: decine di carabinieri con pistole e fucili spianati... Sembrava un film. Intanto Ferdinandi aveva nascosto la sua pistola dentro un vaso di fiori, mentre io, a quel punto, non posso far altro che alzare le mani e poi, lentamente, poggiare la pistola per terra davanti a me e aspettare che mi arrestino. Arriva il maggiore Varisco, che comandava i carabinieri di piazzale Clodio. Mi ricordo che dava certi cazzotti al pomo d’adamo di Ferdinandi e gli urlava: «Dove sta la pistola? Dove hai nascosto la pistola?» Conclusione, mi faccio tre mesi al carcere minorile di Casal del Marmo e per fortuna l’accusa, da tentato omicidio, verrà derubricata a spari in luogo pubblico. 

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