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1 maggio 1985: commando nero uccide un poliziotto della Stradale sull'A24


Sull’autostrada Roma-L’Aquila, all’altezza dell’uscita di Castel Madama, a poche decine di chilometri dalla Capitale sono le 2.30 di notte del 1° maggio 1985. Sulla Fiat Regata della Polstrada ci sono due agenti: il trentaquattrenne Giovanni Di Leonardo e Pierluigi Turiziani, vent’anni. La strada è praticamente deserta, ma a un certo punto gli agenti notano un’auto con i fari accesi, ferma sulla corsia d’emergenza. Si avvicinano e vedono due giovani accanto all’auto, che ha il cofano aperto. Avranno problemi, si dicono. Quella è una strada che la pattuglia percorre spesso, anche in piena notte. E non è la prima volta che si ferma ad aiutare automobilisti in difficoltà. La Regata, guidata da Turiziani, si accosta alla Golf in panne. Gli agenti restano in auto, in attesa. I due giovani si avvicinano a Turiziani e, attraverso il finestrino, gli dicono: «La macchina si è bloccata». 
«Favorite i documenti, per favore», chiede intanto Di Leonardo. I due consegnano i documenti al capopattuglia, ma a quel punto accade una cosa incredibile. Uno dei giovani accenna ad avviarsi verso la Golf, mentre l’altro tira fuori una pistola e spara contro Turiziani. Contemporaneamente, da dietro una siepe, compare una terza persona, pistola in mano, che fa fuoco contro Di Leonardo. La fortuna di Turiziani è che il proiettile sarà deviato dalla chiusura lampo del giaccone di pelle che indossa. Di Leonardo non avrà la stessa sorte: un colpo gli attraversa il torace, provocando una profonda emorragia. I tre si impossessano delle pistole degli agenti e li ammanettano con delle strane manette spagnole che hanno portato con sé. Poi li spingono in una scarpata e fuggono con le due auto: la loro Golf e la Regata della polizia, che lasceranno alcuni chilometri più avanti, non prima di essersi presi anche un giubbotto antiproiettile e una mitraglietta M12.
Turiziani riesce a liberarsi e blocca alcune auto di passaggio. Un automobilista capisce che Di Leonardo sta male e perde molto sangue. Così lo carica in macchina e lo porta, con l’acceleratore a tavoletta, all’ospedale più vicino, quello di Tivoli. L’agente è in condizioni disperate, i medici provano a operarlo per fermare l’emorragia, ma non ci sarà niente da fare. Sono le 6.15 del mattino. Alle 21.15 di questo interminabile 1° maggio arriva la prima rivendicazione. Un tizio telefona alla sede napoletana dell’Ansa e detta uno strampalato testo: Siamo Ordine Nero-Ordine Nuovo e Nar uniti, rivendichiamo l’uccisione dell’agente. Ascolti bene, colpiremo altri obiettivi. Onore ai camerati uccisi a Torino. Ci risentiremo. Certo, Macciò e Ferrero sono morti soltanto da quaranta giorni, quindi uccidere un poliziotto per vendicarli potrebbe rientrare nelle distorta logica di qualche reduce dei Nar o di qualche «aspirante» terrorista. Così come gli assalti alle auto della polizia e i disarmamenti di agenti, negli anni passati, erano quasi una firma del gruppo nero. Ma anche stavolta non c’è nessuna rivendicazione certa. Una nuova rivendicazione a nome dei Nar arriverà a Genova qualche giorno dopo, il 4 maggio, quando uno sconosciuto telefona alla redazione del quotidiano Il Lavoro dicendo: «Siamo i Nar, rivendichiamo l’attentato all’agente Di Leonardo». Ma senza fornire alcun elemento per attribuire con certezza a questo gruppo la responsabilità dell’attentato. Anche se la polizia, a poche ore dall’attentato, dirà che sono stati i «neri»: Il modus operandi dei terroristi – ha rilevato un funzionario – ricorda alcune azioni compiute in passato da estremisti di destra.
Le manette che i presunti terroristi hanno usato non appartenevano agli agenti: sono di un tipo costruito in Spagna.È proprio quest’ultimo particolare, insieme al modus operandi, che fa pensare agli investigatori che gli aggressori siano dei terroristi di destra che volevano impossessarsi delle armi degli agenti. Anche per questo attentato verrà inquisito Esposito. Ma l’inchiesta finirà nel nulla. Dei responsabili della morte dell’agente Di Leonardo non si avrà mai notizia.

FONTE: Nicola Rao, Il piombo e la celtica

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