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Il 25 aprile? Il secondo tempo dell'8 settembre

Il 25 aprile? Il secondo tempo dell'8 settembre.Lo testimoniano i “fascistissimi” - ossia di esponenti del calibro di Eugenio Scalfari, di Noberto Bobbio, di Dario Fo, di Giorgio Bocca, di Enzo Biagi, di Giorgio Napolitano e così via - che sostituiranno, senza grandi patemi, il braccio teso con il pugno chiuso o semichiuso nel volgere di un battito di ciglia, come ci racconta in un interessante articolo, pubblicato da Il Tempo, storico quotidiano romano, intitolato "la festa nazionale dei voltagabbana" il collega Antonio Rapisarda.
Articolo che riportiamo fedelmente.


Risultati immagini per Antonio Rapisarda + il tempoDall'ex firma di “Roma fascista” che oggi «si fa intervistare da Papa Francesco», come appuntano velenosamente i maligni, al giullare premio Nobel e anima di “Soccorso rosso” ma con un passato da rastrellatore di partigiani, passando per il guru dell'azionismo elitario con una “macchia” da confessare, al “migliorista” del Pci già corrispondente dei giornali del regime alla Mostra di Venezia. Nell'Italia “morta di tradimento” l'8 settembre del '43, i prodromi dello sport nazionale chiamato “voltare gabbana” hanno avuto una vastissima selezione di testimonial che, da giovani in camicia nera, rappresenteranno poi il meglio della proposta antifascista, azionista, progressista o liberale che sia, fino ai giorni nostri.


Tra questi vi sono stati anche personaggi controversi a 360°, come il gappista responsabile della strage di via Rasella Rosario Bentivegna “scoperto” in una foto con la divisa dei giovani fascisti o esponenti ai vertici della cultura del Pci, come Elio Vittorini, passato da squadrista e poi membro italiano al convegno della cultura nazista a Weimar nel '42 a denigratore dei volontari della Rsi, definiti «figli di stronza». Anche Cesare Pavese, altra figura centrale della cultura italiana del primo '900, prima dell'adesione al Pci è stato fascista. Lo è stato “formalmente”, con la sua iscrizione al Pnf, e con le pagine di diario e le lettere scritte dal confino dove - come ricorda il biografo Pierfranco Bruni - «era stato mandato per un puro errore e non per reali motivi politici», ma ha sviluppato anche una visione cruda e non glorificante della guerra civile come si può riscontrare tra le pagine de “La luna e i falò”, «romanzo anti-resistenza per eccellenza che anticipa di cinquant’anni le ricerche e gli studi di Giampaolo Pansa». Di nomi altisonanti come questi – da Dino Risi a Roberto Rossellini, da Ignazio Siloni a Gaetano Azzariti – ce ne sono tanti.

Ma come hanno raccontato i libri di Bruno Vespa (“Italiani Voltagabbana”) e, diversi anni prima, di Nino Tripodi (“Italia fascista in piedi”) e di Anonimo Nero (“Camerata dove sei?”), c'è stata anche una particolare “palestra” che ha sfornato, come una cantera calcistica, il gotha della sinistra di pensiero e di azione così come della cultura social-liberale. Stiamo parlando dell'esperienza del Guf, il Gruppo universitari fascisti, e della rivista “Primato” del ministro e intellettuale fascista Giuseppe Bottai che hanno rappresentato la fucina dei “fascistissimi” - ossia di esponenti del calibro di Eugenio Scalfari, di Noberto Bobbio, di Dario Fo, di Giorgio Bocca, di Enzo Biagi, di Giorgio Napolitano e così via - che sostituiranno, senza grandi patemi, il braccio teso con il pugno chiuso o semichiuso nel volgere di un battito di ciglia.

C'è stato chi, come il decano del giornalismo italiano Enzo Biagi, non ha mai disconosciuto quell'esperienza e ha ricordato di aver «sempre stimato» Bottai, nei confronti del quale ha anche confessato il proprio «dovere di gratitudine», definendolo una di quelle «camicie nere ma teste libere». Per molti invece – come hanno spiegato non senza imbarazzo – l'adesione alle organizzazioni del Ventennio è stata giustificata come una sorta di opportunità per poter tramare meglio contro il regime. Maschera pirandelliana o menzogna questa, ci sono stati poi invece i fascisti convinti. Leggete qui: «Gli imperi moderni quali noi li concepiamo sono basati sul cardine razza, escludendo pertanto l’estensione della cittadinanza da parte dello stato nucleo alle altre genti». Parole sulla “razza” di Eugenio Scalfari, ai tempi collaboratore entusiasta del giornale del Guf, oggi sostenitore di tutte le leggi libertarie e globaliste con suo giornale-partito La Repubblica.

Un'altra autorità della carta stampata progressista e antiberlusconiana come Giorgio Bocca – salito in montagna con i partigiani nel '43 ma prima giornalista schierato apertamente con il regime con tanto di articoli a sfondo antisemita sui famigerati (e falsi) Protocolli dei Savi di Sion – ha dovuto ammettere di non saper datare la scelta di coscienza: «Quando iniziò il nostro antifascismo? Difficile dirlo...». C'è voluta una celebre intervista di Pietrangelo Buttafuoco, poi, come vera e propria seduta di analisi per Noberto Bobbio, il filosofo della frattura destra-sinistra: «Noi il fascismo l'abbiamo rimosso perché ce ne ver-go-gna-va-mo. Ce ne ver-go-gna-va-mo». Teorico della “maschera”, ossia dell'adesione al Guf come discutibile pratica sommersa di dissidenza, l'ex presidente della Repubblica Giorgio Napolitano che ha motivato l'esperienza nell'organizzazione (anche come giornalista e inviato alla Mostra di Venezia) spiegando come lì «si formarono anche molti antifascisti e comunisti». Non fu per nulla una trovata, infine, l'adesione di Dario Fo – poi icona della sinistra culturale nonché sostenitore degli assassini della strage di Primavalle con il “Soccorso rosso” – alla Rsi: dopo una battaglia legale su una testimonianza che lo descriveva come appartenente ai paracadutisti, si difese sostenendo che la sua adesione era frutto «di metodi di lotta partigiana». Non venne creduto dagli stessi membri della Resistenza e rimase in silenzio nel 1980 quando il tribunale sentenziò che «è perfettamente legittimo definire Dario Fo repubblichino e rastrellatore di partigiani».

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