Header Ads


28 marzo: Giuseppe Valerio Fioravanti compie 60 anni


Oggi compie 60 anni Valerio Fioravanti, il più noto "terrorista nero". Qui ripropongo il capitolo che gli ho dedicato nella seconda edizione di Fascisteria



Valerio Fioravanti, la figura più nota e più controversa della “giovane guardia” del terrorismo nero, schiacciato da una condanna definitiva per la strage di Bologna insieme alla moglie Francesca Mambro, una sentenza che ha l’insopportabile marchio dell’errore giudiziario. Nel corso degli anni è crollato l’intero castello accusatorio, che vedeva un triplice livello organizzativo (il cervello formato da Gelli e dai vertici piduisti dei servizi segreti, la rete di trasmissione composta dai leader storici dei gruppi extraparlamentari, il braccio dei ragazzini spontaneisti) e un unico disegno eversivo, manifestato in una escalation di agguati e di attentati dal 1978 al 1980 e che non escludeva il ricorso ad attività stragiste. 
Fioravanti, che pure si è macchiato di feroci e inutili delitti per “isteria”, per “paranoia”, come ha ammesso anni dopo, non ha ucciso né Mattarella né Pecorelli come è stato dato per scontato per anni e non può essere considerato il “killer della P2”. Mazzate, coltellate e pistolettate tante ma non ha mai compiuto un attentato dinamitardo. Anche il principale elemento di accusa – le confessioni di un vecchio malavitoso romano amico di Cristiano, un reduce dal manicomio criminale che avrebbe incontrato due giorni dopo la strage Valerio e Francesca bisognosi di documenti falsi – è dal punto di vista logico piuttosto una prova di innocenza: due clandestini, già responsabili di alcuni omicidi (Fioravanti quattro: Scialabba, Arnesano, Evangelisti e Amato, la Mambro gli ultimi due), prima di compiere una strage di quella portata si premuniscono di documenti falsi. 
Merita quindi rispetto l’accanimento con cui respingono l’accusa, che in termini pratici non gli ha portato un solo giorno di più di carcere. Tant’è che oggi sono entrambi fuori: lui in liberazione anticipata, lei da sette anni con la pena sospesa per maternità. 
La questione l’ha spiegata molto bene Francesca: “Noi ci siamo presi gli ergastoli proprio per dimostrare che i fascisti non mettevano le bombe sui treni”. La loro lotta armata è stata un modo cruento di fare i conti con i fratelli maggiori, complici della strategia della tensione e soprattutto con il partito che li aveva prima sfruttati e poi abbandonati a loro stessi. È proprio lei la più accanita nell’affermare l‘innocenza sua e di Valerio e questa differenza va iscritta nelle opposte traiettorie che li hanno portati a unirsi per la vita. 
Francesca proviene da una militanza nella periferia sud di Roma, dove particolarmente forti erano le istanze sociali e movimentiste ed è giunta a impugnare le armi perché si è stancata di vedersi morire al fianco gli amici inermi (Mario Zicchieri, 16 anni, dissanguato da una fucilata sparata dalle Formazioni comuniste armate, davanti alla sezione Prenestino; Stefano Recchioni, ucciso presumibilmente da un carabiniere dopo la strage di Acca Larentia: e Francesca sarà l’unica ad avere il coraggio di firmare la denuncia contro l’ufficiale che manifestamente fece fuoco). Valerio, ragazzo prodigio in televisione, un anno di liceo negli Stati Uniti non ancora maggiorenne, politica non l’ha mai fatta: ha cominciato a bazzicare l’estrema destra per riportare a casa il fratello più piccolo, Cristiano, che già a 12 anni andava in giro a fare a botte con i compagni di Monteverde. I due sono rimasti coinvolti nell’escalation, da ragazzi della via Paal a guerriglieri urbani, con una successione di passaggi quasi indolore.

La banda Fioravanti
Valerio ha indubbio carisma, coraggio, determinazione e capacità militare, qualche libro l’ha letto, e non solo di armi, ma riesce ad animare solo bande in cui il collante è l’amicizia. Per essere promosso leader occorre che una catena fortuita di arresti, concentrati nel dicembre 1979, decapiti i vertici dei gruppi attivi a Roma, nell’ordine Fuan, Tp e Cla. Il 5 è la volta di
Dario Pedretti, leader carismatico del Fuan, fidanzato della Mambro, catturato durante una rapina in gioielleria. Il 14, mentre trasferiscono un arsenale, sono arrestati i responsabili militari di Tp, Peppe Dimitri e Roberto Nistri. Il 17 tocca a Sergio Calore e Bruno Mariani, l’ideologo di Cla e il capo dell’apparato illegale, l’Mrp, per l’omicidio di un passante erroneamente ritenuto l’avvocato Giorgio Arcangeli. Fioravanti è l’unico componente del commando sfuggito alla cattura.125 Nel vuoto di leadership e nel generale sbandamento dell’ambiente trova spazio il suo progetto di destrutturazione sistematica dei gruppi, attraverso l’innalzamento del livello di scontro, il passaggio in clandestinità, la pratica della lotta armata come unica forma di azione politica. Nella banda confluiscono in pochi mesi gli elementi più decisi dei vari gruppi: la Mambro e Gabriele De Francisci dal Fuan; Gilberto Cavallini da Cla; Giorgio Vale, Dario Mariani, Luigi Ciavardini, Pasquale Belsito e Stefano Soderini da Tp. 

Anche se le acquisizioni processuali escludono la sua responsabilità negli omicidi più torbidi e inquietanti resta nel suo agire, nella breve stagione della lotta armata e poi nei lunghi anni dei processi, più di un’ombra che ha contribuito a trasformarlo nel capro espiatorio perfetto per la strage di Bologna. È evidente che molti boatos usati contro di lui (si è incontrato con Licio Gelli, per suo conto ha ammazzato un banchiere in Francia e via fantasticando) sono stati alimentati da un clima di crescente ostilità nei suoi confronti nell’ambiente, solo in parte determinato dal discutibile stile di lavoro. Su Valerio pesa il sospetto che in più di una circostanza egli abbia lucidamente incastrato i camerati, coinvolgendoli in delitti più gravi di quelli per i quali erano disponibili, in preda alla perversa logica di bruciare le navi per impedirsi di tornare indietro. 

A garantirgli l’odio dell’area di Tp basta l’omicidio di Ciccio Mangiameli, ucciso per un errore di sopravvalutazione. Ha raccontato lo stesso Giusva a Sergio Zavoli:

Fu da noi sequestrato perché intendevo fargli delle domande abbastanza precise; al di là del desiderio di punire una persona con cui avevamo avuto diversi litigi, per vari motivi, in questo clima di paranoia, volevo capire cosa c’era sotto. Non riuscivo a capire che, in fin dei conti, Mangiameli era semplicemente un uomo normale impelagatosi in un’avventura troppo grande. Adesso lo so, Mangiameli è morto soltanto per degli eccessi nostri.

L'isolamento in carcere

A isolarlo in carcere è la scelta di accettare il confronto con i magistrati, nello sforzo luciferino di limitare i danni, anche a costo di compromettere qualche coimputato con false accuse. Fino alla decisione rovinosa di “flirtare” con Angelo Izzo e Sergio Calore sullo scivoloso terreno della “ricostruzione storica” dello stragismo, con il paradossale risultato che i suoi compari hanno finito con il “pentirsi” e, nonostante le evidenti menzogne, si sono conquistati la libertà e lui, assassino confesso ma non stragista, si ritrova con parecchie condanne all’ergastolo e marchiato a vita come il colpevole di quelle ottantacinque morti. Alla fine persino uno che da Fioravanti era stato condannato a morte, Gabriele Adinolfi, coglierà l’aspetto paradossale della vicenda:
Coloro che (…) hanno preteso di aver impugnato le armi per lavare la macchia di un ambiente che consideravano colluso con i servizi segreti e dedito allo stragismo, hanno incontrato più agenti infiltrati di qualsiasi golpista degli anni ’60 e sono stati ingiustamente condannati per una strage da loro non commessa.

Spontaneismo è disorganizzazione

L’incapacità di controllare e determinare gli effetti delle proprie azioni sembra già aver segnato la sua pur brillante carriera. Se si prendono per buone le ricostruzioni che Fioravanti ha fatto dei numerosi agguati da lui organizzati, nessuno si realizza con le modalità previste. La sua freddezza e la lucida “cattiveria” sono comunque fondamentali per portare a buon fine gli attentati. 
La sparatoria nel mucchio a piazza don Bosco si risolve con la morte di Roberto Scialabba perché Valerio disincaglia la pistola e spara il colpo di grazia dopo essere montato a cavalcioni del ferito. L’irruzione a Radio Città Futura nell’anniversario di Acca Larentia (l’obiettivo prefissato era un’altra radio dell’ultrasinistra, Onda Rossa) rischia di fallire perché un componente imbranato del commando lancia una molotov: addio al processo in diretta, per impedire la fuga delle donne sorprese in trasmissione Valerio le inchioda a terra con una raffica di mitra alle gambe. Così non si impone la tregua ai compagni con un’incruenta dimostrazione di potenza ma un’impennata nelle vendette incrociate: mitragliare un gruppo di donne inermi solo perché un conduttore ha mancato di rispetto ai morti di Acca Larentia è il modo peggiore di aprire il dialogo. 
Nell’omicidio di Antonio Leandri (uno scambio di persona) Valerio interviene per il colpo mortale, vista la scarsa mira del pistolero designato. E l’intero commando, eccetto lui, si fa imbottigliare nel traffico e si arrende. In questa prima fase Valerio è intervenuto in seconda battuta, a turare le falle. Quando si mette in proprio e dispiega il suo progetto politico, il gioco al rilancio diventa esplicito: invece di disarmare l’agente Maurizio Arnesano lo uccide, sparandogli alla schiena mentre scappa (e Vale parlerà di un patto di morte firmato in bianco...); l’incursione al Giulio Cesare, programmata come un disarmo per “ridicolizzare la militarizzazione del territorio” diventa subito un tiro al bersaglio.

Il caso Mangiameli

Ai limiti dell’autolesionismo è il comportamento con Mangiameli, un omicidio che corona lo scontro frontale perseguito con il gruppo dirigente di Tp. Le contraddittorie motivazioni offerte in successione (un ammanco di cassa, un insulto razzista a Vale, un comportamento pavido in azione, uno stile di lavoro non preciso) finiranno per legittimare, dapprima nell’ambiente e poi nella testa dei giudici, il sospetto di chissà qualche sozzeria da seppellire a ogni costo. I magistrati giocano pesante, “ricamando” sulle preoccupazioni espresse dal leader di Tp dopo l’intervista in cui Amos Spiazzi sottolineava con L’espresso il ruolo di un certo Ciccio nella riunificazione dei Nar anche se il personaggio descritto era tutt’altro (un rozzo “romanaccio”). Gli investigatori si prendono la briga di controllare i ventinove neofascisti romani di nome Francesco ma nessuno corrisponde alla descrizione (senza pensare che “Ciccio” può essere qualsiasi “grassone”). Un altro mistero: perché Mangiameli si sente “inchiodato” dalla soffiata dell’ufficiale? Forse perché Tp si sentiva già nel mirino dei servizi segreti dopo che un giornalista, Guido Paglia, ex avanguardista, aveva attribuito la responsabilità della strage a un non meglio identificato “terzo potere”? Certo è che la “velina” del Sisde ricicla notizie di quarta mano provenienti dall’ambiente dei Nar che nel passare di orecchio in orecchio si sono fortemente deformate.

È il caso della presunta riunione svolta a Milano in un albergo e presieduta da un ex sanbabilino, divenuto criminale, Rodolfo “Mammarosa” Crovace. I partecipanti sono così descritti: due romani del gruppo di “Ciccio”, un veronese di nome Valerio, malavitosi milanesi, alcuni giovani toscani (tra cui Tomei) collegati a un neonazista perugino, tale Lucidi. All’epoca sono due i militanti romani di Tp attivi nella “banda Fioravanti”, Vale e Ciavardini; Fioravanti, nella primavera ’80, ha avuto frequenti contatti con la rete veneta di Cla; la banda ha rapporti con la “mala” milanese (scambio di “basi” e supporto logistico). Il riferimento più criptico è al nucleo toscano-perugino: forse si allude a Mario Rossi, fiancheggiatore di Cavallini e già militante dei Gruppi d’azione ordinovista di Concutelli, che avevano un nucleo perugino. Valerio comunque si difende al processo: lui era disposto anche a sentire le ragioni di Mangiameli ma il protagonismo di Cristiano – che ha sparato subito – ha fatto precipitare la situazione. Lo smentiranno diversi militanti di Tp. Nella settimana precedente il delitto Vale si era affannato a mettere tutti in guardia: non fate incontrare Mangiameli con Valerio, lo vuole ammazzare. Nessuno aveva preso sul serio la sua determinazione omicida. Eppure lo stesso Vale partecipa al delitto, tirando anche lui un colpo di pistola.

La scelta del confronto

Dopo l’arresto, mentre ancora soffre dei postumi del dissanguamento che l’ha portato in fin di vita, per limitare i danni Valerio sceglie il confronto con i magistrati. Dopo le confessioni di Cristiano le ammissioni sono esplicite. Con qualche malizia: le false accuse a Soderini per la sparatoria di Padova. Ricostruisce l’attentato progettato dalla Mambro, Cavallini e Vale contro il funzionario italoamericano della Digos considerato responsabile delle torture di Nanni De Angelis (ma i sopralluoghi sono effettuati sul fratello, commissario della squadra mobile, che abita nel palazzo di Vale a viale Medaglie d’Oro). Nell’inchiesta Valerio coinvolge anche un suo agente di collegamento, Gabriele De Francisci, nipote di un alto funzionario del Viminale: lo aveva raggiunto a Padova per convincerlo a trasferirsi in Libano con Francesca. Giocando con il fuoco, Valerio si guadagna così il disprezzo di altri militanti dei Nar – da Fabrizio Zani a Nistri – che lo bollano con il marchio dell’“infame”, la peggiore condanna per un ergastolano. Che, in una sorta di perversa nemesi, ha dovuto subire in massiccia dose. Come chiamare altrimenti le false accuse di omicidio ricevute dal fratello Cristiano, subornato e istigato dal diabolico Izzo? Calunnie che tra l’altro hanno contribuito in maniera decisiva a puntellare l’assai fragile castello accusatorio del processo per la strage di Bologna.
Crollato l’originale impianto di un unico cervello eversivo – che riciclava le idee di Amato sul carattere fittizio delle tante sigle dell’arcipelago nero – e circoscritta alla calunnia la responsabilità di Gelli, di Pazienza e dei vertici dei servizi segreti, l’unica testimonianza a carico di Valerio e di sua moglie è rimasta quella di Massimo Sparti, il “padre adottivo” di Cristiano, scarcerato ben presto per un tumore in fase terminale a cui tuttavia sopravviverà più di vent’anni. 
Il vecchio bandito, che secondo il figlio Stefano su Bologna ha sempre mentito ed è riuscito a simulare la malattia, si guadagna l’impunità avallando le accuse contro Valerio e Francesca ma andrebbe sottoposto a un vaglio critico il suo ruolo nell’intreccio tra malavita romana e servizi segreti: era infatti intimo di Toni Chichiarelli, il falsario autore di clamorosi depistaggi nel sequestro Moro e nell’omicidio Pecorelli. Sarà ammazzato sei mesi dopo la più grande rapina mai effettuata in Italia, lo svaligiamento del caveau della Brink’s Securmark (trentacinque miliardi di bottino, rivendicati dalle Brigate rosse, il 24 marzo 1984, in coincidenza con una grandiosa manifestazione sindacale a Roma). Sparti raccontò ai giudici che il suo amico aveva composto il falso volantino n. 7 delle Br, quello che annunciava la morte di Moro mediante suicidio, per “divertirsi”, facendo correre le forze dell’ordine al lago della Duchessa. Quello scherzo metteva in pratica un’intuizione del pm Claudio Vitalone, consigliere giuridico di Giulio Andreotti, per destrutturare le Br, una verifica sul campo della reazione popolare alla morte di Moro che il palazzo aveva già decretato, a prescindere dalla volontà dei brigatisti che poi quella condanna materialmente eseguirono. Un infiltrato di Azione rivoluzionaria, Enrico Paghera, per confondere ancor più le acque, se lo attribuisce, parlando della necessità per il suo gruppo di alleggerire la pressione delle forze dell’ordine su Roma. Chichiarelli tentò poi di far credere nel suo giro che il falso gli era stato commissionato dalle Br, di cui sarebbe stato militante.

Il pentimento del fratello

Il “pentimento” di Cristiano desta perplessità: si lascerà trascinare in false accuse contro il fratello ma per alcune evidenti reticenze non guadagnerà mai la piena fiducia dei giudici e sarà perciò l’ultimo a uscire di prigione. Nessun mistero, comunque, ma un evidente conflitto con il fratello maggiore, nei confronti del quale aveva sempre mostrato un complesso di inferiorità. 
Cristiano fa parte della nutrita schiera dei baby killer: a 17 anni, con Alessandro Alibrandi, aveva ucciso Walter Rossi e poi partecipato all’omicidio Scialabba e alla rapina all’armeria Centofanti. Perché si può anche uccidere (e vedere morire gli amici) e restare ragazzini, fino a bruciare i soldi affidati da Valerio per comprarsi la moto o sfracellarsi una mano per costruire un petardo a Natale a Madonna di Campiglio. Anche sul terreno della precocissima militanza, Cristiano aveva finito per sentirsi scavalcato dal più brillante Valerio e così aveva scelto di mettersi in proprio, alternando attività criminali (rapine ai filatelici o nelle ville di ricche signore) a piccoli attentati dinamitardi, con l’amico del cuore, Stefano Tiraboschi, che aveva preso il posto del primo socio, Alibrandi, con cui aveva litigato per futili motivi.
Dopo la strage di Bologna e due anni di sostanziale separatezza, Cristiano riprende i rapporti con Valerio: è appena uscito di galera per il “covo di Ostia”, il fratello è latitante con quattro omicidi sulle spalle. Il primo frutto della nuova intesa è l’esecuzione sommaria di Mangiameli. Cristiano racconterà di aver sparato per farsi bello agli occhi di Valerio (piccola, agghiacciante verità). Il giorno dopo il delitto, freddamente, mentre è in compagnia di Vale incrocia la vedova di Ciccio e la porta da Marcello De Angelis. Intanto si aggrega alla banda e partecipa a una maxirapina in Veneto. 
La sera del 5 febbraio 1981 è con Valerio a Padova per recuperare le armi gettate nel canale. Partecipa con freddezza al conflitto a fuoco e ammazza (prendendolo alle spalle) l’appuntato che aveva ferito il fratello poi va nel pallone mentre Valerio si dissangua e insiste con Francesca per scappare prima che arrivi la polizia. Al ritorno a Roma Massimo Carminati la fa ospitare da Marcellone Colafigli. Un’ultima rapina, poi l’arresto e il crollo, cinquantacinque arresti e la morte nel cuore del fratello, per il cui amore era giunto ad ammazzare (e Valerio gliene aveva reso merito con i giudici: “Cristiano è la parte migliore della nostra generazione. Perché sa amare: la madre, le donne, i suoi cani”). Nell’autunno successivo tenta tre volte il suicidio, nel carcere di Velletri e poi di Treviso (dove era stato trasferito per il processo per la rapina all’oreficeria Giraldo), con i sedativi, tagliandosi con il rasoio (giunge in coma all’ospedale), strappandosi le bende. Valerio, che lo conosce bene, ne scrive l’epitaffio: “Sto meglio io che ho l’ergastolo”. Solo di recente, dopo tanto dolore, i due fratelli hanno ripreso a frequentarsi. Il “capo dei Nar” mostra di aver elaborato il lutto, senza vittimismi: “Tanta gente si è perdonata in nome dell’ideologia, noi no: siamo degli assassini”. Resta, certo, il groppo alla gola della condanna per la strage:
Chi ha seguito il processo sa che non siamo stati io e Francesca. Lo sa. Sa che una strage era estranea alla nostra storia, sa che ci sono stati dei depistaggi, sa che ci è stata cucita addosso l’imputazione con testimonianze che non hanno né capo né coda. Per la prima volta in vita mia, sono anch’io una vittima.

Agli inizi del 1999 è finalmente ammesso al lavoro esterno, in un contrappasso niente affatto bizzarro: curerà il sito web di Nessuno tocchi Caino, l’associazione radicale contro la pena di morte da lui più volte stupidamente comminata e per cui continua a lavorare anche oggi che è libero.

Nessun commento:

Powered by Blogger.