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Odio e violenza come strumento di lotta politica. L'intervento del giudice Salvini per il quarantennale di Ramelli

Lo scorso 19 giugno il circolo Ordine Futuro di Milano ha organizzato un interessante incontro dal titolo "Tutti i fascisti come Ramelli 40 anni d'odio anti fascista al quale hanno partecipato il giornalista Guido Giraudo autore del libro Sergio Ramelli, Una storia che fa paura il deputato di Fratelli d'Italia Alleanza Nazionale Ignazio La Russa, avvocato difensore della famiglia Ramelli, il magistrato Guido Salvini, giudice istruttore nel processo contro gli otto militanti di Avanguardia Operaia, responsabili  del servizio d'ordine della facoltà di Medicina  moderati dal giornalista Luca Fazzo.  Per i lettori di fascinazione. info pubblichiamo l'interno del magistrato Guido Salvini, in occasione dell'incontro del 19 giugno del 2015, denominato Odio e violenza come strumento di lotta politica.

Vi ringrazio innanzitutto per questo invito e vi spiego subito le ragioni per cui ho deciso di accettarlo.
Leggo per questo alcuni articoli essenziali della Costituzione. Immagino in questo momento il vostro pensiero, ecco, la solita retorica sulla Costituzione nata dalla Resistenza. Ma vi chiedo di ascoltarmi con attenzione. L'art. 21 dice che “tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione.” L'art. 49 dice che “tutti i cittadini hanno diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale”. Se sono qui è perché sono convinto che coloro che mi ascoltano siano d'accordo su questi principi basilari, intendono rispettarli e intendano che siano rispettati nei loro confronti. 
Sono consapevole che  questa mia presenza porterà a critiche all'interno delle mio ambiente, ove ci sono anche gruppi settari, e fuori dal mio ambiente. Ma se sono qui è perché respingo qualsiasi forma di censura e di autocensura, e per questo accetto di parlare con chiunque, senza eccezioni, che a sua volta accetti di ascoltarmi e sono disposto ad ascoltare chiunque.
Quale è il comportamento contrario ai principi essenziali citati negli articoli che ho letto ?. Togliere la parola a chi esprime le sue idee, giuste e sbagliate che siano per qualcun altro, usare la violenza come metodo di lotta politica, appunto il tema di questo incontro.
Togliere la parola e la vita è quello che fu fatto  a Sergio Ramelli. Credo che voi ne conosciate la storia ma è il caso di raccontare come le indagini si svolsero.
Il 13 marzo 1975, al termine delle lezioni, Sergio Ramelli, studente di appena 18 anni aderente al missino Fronte della Gioventù, stava legando il suo motorino ad un palo in zona Città Studi, prima di salire a casa dove sua madre lo aspettava per il pranzo. A casa non salì.
Una squadra di estremisti di sinistra armati di chiavi inglesi lo aggredì alle spalle. Non potè  nè fuggire né difendersi.
Quando gli aggressori scapparono il ragazzo giaceva sul selciato con il cranio spaccato. Accanto una pozza di sangue e materia cerebrale.Morì al Policlinico il 29 aprile, senza mai riprendere conoscenza, dopo 47 giorni di agonia.
Sergio Ramelli era stato sino all’anno precedente studente all’istituto tecnico Molinari.
A causa delle  sue scelte politiche, scelte politiche  e non violenze compiute, era stato più volte minacciato e trascinato in corteo per i corridoi dell'istituto dai suoi avversari: un’iniziativa, simile alla gogna medioevale, che si può definire come “antifascista” ma anche, e forse meglio, come  la pratica di una polizia parallela interno alla scuola.
Aveva dovuto abbandonare il Molinari e iscriversi ad una scuola privata ma non aveva lasciato l’attività politica in cui credeva. Aveva continuato a militare nel Fronte della Gioventù ed era quindi, forse, tecnicamente, un “neofascista” ma dal suo fascicolo in Questura non risultava coinvolto in alcun atto di violenza.
Quando il collega Maurizo Grigo ed io riprendemmo in mano quell’indagine  semi-abbandonata l’unica pista presente negli atti svolti, assai pochi, portava a quello che si poteva definire un episodio pre-terroristico. Qualche elemento indicava come responsabili i militanti del collettivo di quartiere Casoretto, attivo nella zona. Un gruppo molto violento che praticava anch’esso l’”antifascismo militante” ma alcuni dei cui componenti sarebbero passati di lì a breve in formazioni quali le Brigate Rosse o Prima Linea, organizzazione del resto quest’ultima che esattamente un anno dopo avrebbe ucciso, in viale Lombardia, a breve distanza da dove era stato aggredito Ramelli, il  consigliere comunale del MSI Enrico Pedenovi.
Ma non era così. Si trattava infatti di una voce, diffusa forse dalla stessa Avanguardia Operaia,  che allontanava le indagini dai veri responsabili. Cominciammo ad interrogare una serie di pentiti che, prima di entrare in organizzazioni eversive, avevano militato in gruppi della sinistra extraparlamentare e tutti ci dissero che  i responsabili dell’azione dovevano invece essere cercati nei componenti del servizio d’ordine di A.O. di Città Studi.
Gli otto assassini appartenenti alla squadra del servizio d'ordine di Medicina, furono infine arrestati nel 1985, a 10 anni di distanza dal delitto e quasi tutti confessarono subito dopo l'arresto. Tutti furono condannati dalla Corte d’Assise per omicidio volontario a pene comunque non eccessivamente severe [in realtà in primo grado furono condannati per omicidio preterintenzionale, in Appello l'omicidio volontario fu attenuato dalla figura giuridica del concorso anomalo, ndb]. Omicidio volontario perché un gruppo di medici non poteva non capire quali conseguenze poteva avere su un ragazzo colpirlo  ripetutamente al capo, anche mentre era già a terra, con chiavi inglesi del peso di più di due chili. Tutti dopo qualche anno  ripresero a fare il medico a Milano o altrove.

Non fu un'indagine facile e non fu facile rompere il muro di omertà che si era creato intorno a quell’omicidio. Quegli  studenti, divenuti ormai col tempo medici affermati, appartenevano quasi tutti alla buona borghesia milanese. Uno di essi era addirittura il fratello del segretario milanese di Magistratura Democratica che si trovava accanto a lui, in casa, al momento dell'arresto.

 Capimmo solo dopo aver scoperto i colpevoli il significato di qualche “vocina” che ci aveva suggerito di “lasciar perdere” quel vecchio caso irrisolto.

E, dopo gli arresti, io e il collega fummo accusati dal mondo di cui avevano fatto parte quei giovani di aver condotto un’azione “repressiva” come se gli omicidi  dovessero distinguersi per il colore politico della vittima. Eravamo dei giudici “reazionari” che pretendevano di processare il ’68.

 Nessuno dei suoi coetanei che  avevano ucciso Sergio Ramelli aveva avuto, dopo quello scempio,  una crisi di coscienza che lo portasse a costituirsi. Nessuno di essi si consegnò e tutti fecero prevalere una scelta ideologica di protezione del proprio mondo di riferimento, un mondo che avrebbe riportato un danno politico dalla scoperta degli autori dell'agguato. Se si fossero invece consegnati la confessione in quel momento storico e l’attenzione che ne sarebbe seguita sulle conseguenze della scelta della violenza come metodo di lotta politica avrebbero contribuito a far riflettere e forse a limitare nuove violenze che invece per anni proseguirono. Al contrario alcuni degli studenti di Medicina che avevano compiuto l'aggressione contro Ramelli non ebbero alcuno scrupolo, un anno dopo, a partecipare ad un'azione in grande stile in danno di un bar in Largo Porto di Classe sempre in zona Città studi. Il locale fu completamente circondato e assaltato con molotov e  devastato e alcuni avventori, colpiti con chiavi inglesi, riportarono lesioni gravissime. Un bar, secondo la “contro-informazione” di Avanguardia Operaia, frequentato da fascisti ma in cui in realtà la maggioranza degli aggrediti era estranea a qualsiasi attività politica.
Del resto l'omicidio di Sergio Ramelli non fu un “errore” e  nemmeno fu giudicato tale dall'area politica che ne era stata l’istigatrice  e la responsabile. Sui muri di Milano anzi comparvero per anni a vernice rossa  scritte con espressioni, che non voglio qui ripetere, che inneggiavano alla fine di Ramelli e nei cortei, ritmato da centinaia di voci, si udiva lo slogan “1-10-100 Ramelli”. Non vi fu quindi alcuna riflessione ma piuttosto una lugubre rivendicazione collettiva da parte dell’estrema sinistra.
Qualche mese dopo gli arresti per l'omicidio di Sergio Ramelli, nel dicembre 1985,  fu scoperto, del tutto casualmente, in un abbaino di viale Bligny l'archivio della struttura di “informazione” di Avanguardia Operaia, aggiornato costantemente a partire dall'inizio degli anni ‘70 e abbandonato all'inizio degli anni ‘80. Accanto a documenti contenenti informazioni anche di prima mano sull'eversione di sinistra e quella di destra vi erano, in cartelle e contenitori,  migliaia di schede su giovani e militanti di destra, le loro fotografie e i loro indirizzi, tra cui quelli del fratello di Ramelli le loro abitudini e i luoghi frequentati, documenti d'identità e agendine sottratte durante aggressioni e addirittura i verbali di alcuni “interrogatori” condotti all'interno di alcune scuole da militanti del servizio d'ordine dell'organizzazione su giovani ritenuti di destra. L'archivio, allegato agli atti del processo faceva capire, qualora ve ne fosse ancora bisogno, che azioni simili a quella consumata nei confronti di Ramelli non erano frutto di una decisione occasionale o istintiva ma di un capillare controllo sul territorio attuato, in forma sempre violenta, da quella già ho già chiamato una “polizia parallela” che agiva in nome dell'”antifascismo” :  ovunque fosse possibile l'obiettivo era quello di una “pulizia ideologica” condotta nei confronti del “nemico”, molto spesso rappresentato non da estremisti pericolosi ma da semplice ragazzi con idee “non consentite”.
Concludendo questo intervento voglio ricordare una proposta che ho già avuto modo di esporre in un articolo apparso sulla stampa nell’aprile del 2013 quando qualcuno chiese addirittura che la manifestazione in ricordo di Ramelli fosse  vietata : la proposta di un incontro. Purtroppo nessuno, né Autorità comunali nè forze politiche, ha sinora pensato di proporre un incontro pubblico su quegli anni e su quel tragico mese di aprile 1975 a Milano quando caddero anche giovani della parte opposta, Claudio Varalli e Giannino Zibecchi,
Non  il solito convegno, ho assistito anche a troppe di queste cerimonie inutili e noiose, in cui tutti i relatori sono d’accordo tra loro, parlano la stessa lingua e il pubblico lo stesso.
Dovrebbero esservi invitati tutti coloro, senza distinzioni, che in quegli anni hanno scelto di stare nelle piazze su sponde opposte, hanno dedicato a ideali, giusti o  sbagliati, molti anni della loro giovinezza.
Siedono del resto in Consiglio comunale o sono attivi nella politica milanese alcuni di coloro che hanno vissuto gli anni ‘70 con grande fervore, pieni di entusiasmo ma ferocemente  gli uni contro 
gli altri : Stefano Boeri e Ignazio La Russa solo per fare due nomi.
Sarebbe l’occasione non per una riconciliazione nè per una storia condivisa, che non è possibile e 
forse nemmeno augurabile, ma per ascoltare e porre domande fuori dalla consueta retorica: perché 
hanno fatto quella scelta? Quali convinzioni e talvolta quali sensazioni personali li hanno portati 
nelle piazze? Con quali speranze? Cosa sapevano a vent’anni,davvero, del “nemico” ? Quanto di 
allora è del tutto scomparso e quanto è rimasto, magari trasformandosi, nell’esperienza di vita di 
oggi? Cosa dicono o cosa potrebbero dire oggi ai loro figli ? 
I più giovani, che non hanno vissuto quegli anni, potrebbero uscirne con qualche conoscenza 
autentica in più.
È una proposta diretta a tutti. Sarebbe bello sentire anche la voce di coloro i quali hanno partecipato 
quel giorno all’aggressione a Città Studi che, purtroppo, sono rimasti sempre in disparte come se 
quel giorno di aprile, con le contrapposizioni che ancora provoca, non li riguardasse più.
Discutere e non proibire. Soprattutto deporre l’odio, una scelta che vale per tutti e che a nessuno è 
superfluo ricordare. Perché, come ha scritto Gandhi, il processo per il raggiungimento della mia 
verità, che accompagna l’intera mia vita, non può che includere in qualche modo anche le ragioni e 
la verità dell’altro.

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