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Speciale Pino Rauti/5 - Ma Ordine nuovo era una struttura di servizio atlantica?


Il mio viaggio nella "Fascisteria" (parlo ovviamente della prima edizione del 2001, un'opera che oggi considero imperfetta e squilibrata ma che pure mi dicono non essere priva di pregio) parte proprio da Pino Rauti, scomparso questa mattina all'eta di 85 anni. E quindi con rigore filologico posto qui il primo capitolo del libro, segnalando tagli e inserendo qualche nota a margine (in corsivo e parentesi quadra). Le note a fine capitolo mancanti sono collegate a passi tagliati

di Ugo Maria Tassinari
Per molti anni siamo stati sommersi dai tormentoni dietrologici, che arbitrariamente ricomponevano in un’unità metafisica - le mem­bra sparse nei qu­attro conti­nenti, il cer­vello a Villa Wanda - quel dolente impasto di sangue merda e la­crime che va sotto il nome di “strategia della ten­sione” e di “eversione neo­fasci­sta”. Oggi ci vengono a dire che la P2 era prevalentemente un comitato d’affari[i], mentre responsabili di stragi e progetti golpisti sarebbero stati in prima persona gli amerikani e i loro mercenari “neri”, e non quell’“agenzia di stretta osservanza atlantica” di cui pure ha parlato l’esperto Cossiga. Ci sembrano forti i ri­schi delle ten­ta­zioni sem­plificatrici, e noi resisteremo alla tendenza a fare - nomen est omen - di tutta l'erba un fascio, mettendo as­sieme gruppetti neofasci­sti, sette esoteri­che, massonerie più o meno deviate, cultori della ma­gia nera, terroristi grigi, uomini de­gli apparati criminali e delle agen­zie semile­gali di Stato sotto il cappello magico della CIA. 
E’ per noi più feconda un’altra chiave di lettura: quella che sottolinea come le vi­cende dell'ul­timo quindicennio [è una delle tante tracce che il libro, scritto in tre successive stesure non ha avuto un accurato editing: essendo pubblicato nell'inverno 2001 era più esatto parlare di un ventennio: queste righe sono rimaste intatte dalla versione del 1997...], dalla disfatta dello spon­taneismo armato all'e­mergenza di un terrorismo di matrice ma­gico-religiosa, dagli intrecci tra organizzazioni criminali e reseaux de­gli apparati di Stato all'ombra di logge coperte e di im­probabili ordini ca­vallereschi ma anche la confluenza nell’ala più radicale del separatismo nordista di uomini e miti della destra neopagana e cattolico-tradizionalista sembrino inverare le fe­conde intui­zioni di Giorgio Galli[ii] e di Furio Jesi[iii] sul ruolo del nazismo ma­gico e della peda­gogia dell'atto inu­tile tipica delle sette inizia­tiche nelle vicende del terrori­smo italiano negli anni ’70. Hanno infatti consistenza le tracce dei perversi intrecci tra network della de­stra radicale, ap­parati di Stato e agenzie inter­nazio­nali del crimine, tra pratiche ritu­ali e dirty works. Un buon punto di partenza è rappresentato da Ordine nuovo, il centro studi fondato negli anni ’50 da Pino Rauti come “ordine di cre­denti e di combat­tenti” che ha finito per costi­tuire una centrale di se­le­zione e di recluta­mento per le strut­ture parallele della Nato e che le ultime inchieste sulla stagione della stragi individuano come responsabile diretto dei più feroci attentati della “strategia della tensione” [all'epoca avevo in maggiore considerazione le tesi di Vincenzo Vinciguerra e i processi erano nella prima fase: quella delle condanne, poi si sa come sono finiti: assoluzioni a catena e condanne 'storiche' a futura memoria ...]
Su questa ipotesi ha lavorato con grande determinazione il giudice mila­nese Guido Salvini, interrogando 564 testimoni, sequestrando 47 faldoni di documenti del Sismi, scrivendo migliaia di pagine che ricostruiscono la strategia della tensione, innervando con il suo lavoro decine di inchieste abbandonate o in stato vegetativo. Per ragioni procedurali – e al termine di una dura battaglia – si è visto espropriare delle indagini su piazza Fontana ma, continuando a lavorare sui reati associativi connessi, ha contribuito a disegnare in modo più arti­colato e credibile il contesto e i reseaux della prima stagione dello stragismo. 
Ordine nuovo, spesso semplici­sticamente indicato come il gruppo neonazista per antonoma­sia, è la filiazione di un cenacolo ini­ziatico di stretta os­servanza evo­liana, i Figli del Sole. Negli anni ’60 si distingue nel fiancheggia­mento della frazione più ri­gorosa­mente atlantista dello Stato Maggiore della Difesa, sul fronte opposto del “golpista” De Lorenzo. Il viscerale di­sprezzo per la democrazia, de­finita “sifilide dello spirito” e la mai rin­negata venera­zione per le eroiche SS non hanno im­pedito a Rauti di essere a busta paga di ap­parati della Repubblica nata per la Resistenza e, secondo recenti acquisi­zioni istruttorie da lui sdegno­samente smentite, anche diretta­mente della Cia.
Rauti rivendica il sostegno offerto ai golpisti francesi: «Stringevamo contatti con l’OAS e aiutavamo Soustelle nascosto in Alto Adige. Incontravamo Alain de Benoist clandestino perché condannato per un attentato dinamitardo»[iv]. L’Alto Adige della lotta all’irri­dentismo tirolese è il laboratorio avanzato per formare quadri e tecniche di controguerriglia dell’appa­rato di sicurezza della Nato. Sulle compro­missioni neofasciste nella strategia della ten­sione il fondatore di Ordine nuovo finisce per ammettere: «È vero: negli anni Sessanta c’è stata tra noi la tenta­zione della scorciatoia, e questo può avere in se­guito aperto spazi di manovra»[v]. Opinione con­fermata da un al­tro leader di ON, Paolo Signorelli, otto anni di carcere preven­tivo e tre condanne all’erga­stolo (omicidio Leandri, Amato, Occorsio) annullate in successivi gradi di giudi­zio: «C’è stato un tempo in cui l’azione dei ser­vizi si è svilup­pata con insi­stenza nell’ambito della destra, perché questa of­friva un buon grado di utilizza­zione per certe ope­ra­zioni di potere, in quanto nel suo composito mondo era pos­si­bile far leva su certe ri­correnti e stantie “esigenze d’or­dine” e sollecitare, nel contempo, le ambizioni di quanti, illusoriamente, ritenevano di poter “conquistare il po­tere”»[vi]. Che poi i due siano conside­rati protago­nisti di questa compromissione è altro discorso. Rauti nega sdegnato di essere stato al soldo della Nato: «Non era ammissibile che mentre contestavamo l’americanismo qualcuno facesse i servizi sporchi della peggiore Nato (...) Io non credo che un elemento, se era veramente un nostro iscritto, si desse a queste forme forsennate di attività ma non posso escludere che in una struttura che è durata quattordici anni e nella quale sono passate, credo, diecimila persone, e tutto un mondo di irrequietezze giovanili, qualcuno si sia infiltrato. C’erano i mitomani, gli esagitati, quelli che dicevamo e si drappeggiavano da nazisti. Poteva esserci il provocatore mandato apposta»[vii]
Le più recenti inchieste su stragi e terrorismo nero compromettono pesantemente la sua immagine ma alcuni riscontri indicati dai “pentiti” per dimostrare le sue dirette responsabilità sono fasulli. Rauti cita due esempi: gli si attribuisce la partecipazione a un summit di Nuovo Ordine Europeo (aprile 1972) per definire la nuova fase della strategia del terrore mentre era detenuto per la strage di Milano; Edgardo Bonazzi racconta che un suo complice nell’omicidio di Mariano Lupo[viii] avrebbe incontrato il leader di ON nella redazione romana del “Tempo” per essere aiutato a riparare in Grecia quando Rauti, già eletto deputato, si era licenziato dal quotidiano. Non è l’unico caso in cui le rivelazioni di Bonazzi – reclutato come collaboratore di giustizia dopo un arresto per traffico di stupefacenti, per la sua lunga militanza tra i detenuti dello spontaneismo armato – fanno a cazzotti con l’evidenza. (...)
Sulla doppiezza di Rauti e di ON lasciamo la parola a testi­moni atten­dibili. Il primo è Giulio Caradonna, uno dei più noti capisqua­dra della “piazza romana”, otto volte deputato del Msi: «Ordine nuovo aveva l'ascia bipenne, il ri­cordo dei nibelun­ghi, la propaganda del mito della su­periorità della razza aria­na, Odino, i castelli delle SS (...) Rauti ai suoi giovani insegna riti ma­gici, e quella storia dei galli. Ne par­lammo addirit­tura una volta in dire­zione: a Pisa, mi pare, c'erano delle sezioni che alla mattina sacri­ficavano un gallo a chi sa chi, un rito drui­dico. E senza nean­che mangiar­selo»[ix]. Uno scetticismo so­spetto in un neofascista talmente appassionato di esoterismo da affiliarsi alla massoneria nella loggia P2. Una doppiezza che ha avuto ampi margini di manovra grazie anche al pressap­pochismo degli addetti ai lavori. 
A Rauti, infatti, alla luce di alcuni brillanti ed inef­fettu­ali slogan come lo “sfondamento a sini­stra”, è stata attribuita arbitrariamente una qualifica di “esecutore testa­mentario” e titolare del copy­right del fascismo di sinistra che anche leader gio­vanili missini a lui per­sonalmente non ostili, come Giulio Salierno[x] e Marco Tarchi[xi], gli discono­scono. La sua vicenda, attraverso cinquant’anni, si è dipa­nata lungo tutt’altra traietto­ria. Giovanis­simo re­duce, du­rante la prima deten­zione a Regina Coeli, è folgorato dal Verbo evoliano. È quindi tra gli animatori dei Far, i Fa­sci armati rivoluzionari, processati per una catena di at­ten­tati e al tempo stesso leader di una corrente giovanile «che si muove nell’orbita di Julius Evola: una sorta di estrema de­stra ipers­pirituali­sta, gerarchica e antimoderna, ossessio­nata dalla demonia dell’economia»[xii]. Nell’ar­ticolato spettro di posizioni del primo neofasci­smo Evola si poneva agli antipodi dei “socializzatori”, i fana­tici della Carta di Verona.
La scissione del 1956 che dà vita al Centro studi di Ordine Nuovo è conseguenza della vittoria congressuale del mo­de­rato Arturo Michelini contro il cartello della “sinistra”. Ma tutti i “sinistrorsi” che escono dal Msi danno vita ad altre esperienze, dal Socialismo nazionale di Massimo Invrea alla Nazione sociale di Ernesto Massi, professore di geografia dell’Università cattolica, fi­gura presti­giosa del corporativi­smo italiano. Per gli ordinovisti il «vangelo della gioventù na­zionalrivoluzionaria»[xiii] è Gli uomini e le rovine, scritto da Evola per un’ope­razione di piccolo ca­botaggio politico: legittimare il rientro, alla metà degli anni ‘50, del principe Valerio Borghese in un Msi ormai saldamente istituzionalizzato. Tutta le generazione successiva di “indole” sovversiva orienterà l’azione po­litica ed esisten­ziale sulle coordinate di Cavalcare la tigre[xiv], che un pupillo di "Giorgio" Freda ha defi­nito livre de chevet dello spon­taneismo armato[xv], anche se in realtà i “guerrieri senza sonno” per lo più leggevano libri di armi. 
Par­ticolarmente caustico è Vincenzo Vin­ciguerra, il responsabile ordi­novista di Udine che diventerà il più feroce accusatore di Rauti e delle sue compromis­sioni con gli apparati militari e polizieschi dello Stato democratico: «La “Bibbia” dei nazisti alla Rauti, Gli uomini e le rovine di Evola, nella quale si so­stiene che bisogna difendere lo Stato “anche uno Stato vuoto come questo”, non fu al­tro - scrive l’organizzatore della strage di Peteano - che un’o­pe­razione strumentale che serviva a dare giustificazione al rein­gresso di molti uf­fi­ciali che avevano aderito alla RSI e che, nel 1952, rientrarono nelle Forze Ar­mate giurando fe­deltà sul loro “onore” allo Stato repubblicano, democratico ed antifasci­sta»[xvi].
La vocazione reazionaria di Rauti si conferma nel ‘68: sa­ranno molto più tentati dal Movimento i quadri di Avanguardia nazio­nale, assai più sprovveduti dottrinariamente e sem­plicisti­camente educati al culto della disciplina e dello scontro fisico con i comunisti, dei più raffinati mili­tanti del­l’a­scia bipenne. Nella primissima fase i giovani che ave­vano già letto l’ul­timo Evola, erano pronti a Cavalcare la tigre. Uno dei primi feriti negli scontri di Valle Giulia è il responsabile degli univer­sitari ordinovisti, Mario Ca­scella. La direzione richiamò i mi­litanti che avevano abbracciato la ri­volta studentesca ed elaborò un documento che definiva la contestazione «una reviviscenza dell’u­topismo anar­chico»[xvii]. Cascella sarà con il gruppo del Ghibellino tra i fondatori di Lotta di popolo, altri, radicalizzeranno la rottura, pas­sando nei ranghi dell’estrema sinistra o individual­mente o attraverso la breve espe­rienza, ancora ambigua, del Movimento stu­dentesco eu­ropeo. In occa­sione del Ventennale, Rauti non esita a parlare del ’68 come oc­casione perduta e se la prende con la spedizione punitiva nell’Università di Roma oc­cupata: «Penso con rammarico che avevamo con noi la maggioranza degli stu­denti negli anni Ses­santa, ma non abbiamo fatto noi il ’68. Anzi, Almirante e Caradonna sono an­dati all’università di Roma con le mazze in mano e hanno pensato bene di farsi anche fotografare! Ma hanno fatto bene gli studenti a prenderli a maz­zate»[xviii].
Rauti non esiterà ad accusare i militanti dei Nar - quelli stessi che sarebbero giunti a progettare la sua esecuzione per pu­nire la sua attività di “delatore”[xix] - di “intelligenza con il nemico”: «Questi assassini dei Nar sono sol­tanto agenti al servi­zio del regime. Gente manovrata (...) gente sconosciuta ma che fre­quen­tava molto sia la polizia sia i servizi se­greti (...) Fra di loro c’è gente che ve­niva da me propo­nendo articoli per la mia rivista e si presentava come nazista, tutti atteggiati. Sembravano costruiti. Alla larga mi dicevo. E sa­pevamo che quella gente frequen­tava servizi segreti e qualche corridoio di que­stura»[xx]. [A onor del vero va ricordato che molti giovani quadri del Fronte della gioventù romana riconoscono a Rauti il merito di averli trattenuti con le sue proposte culturali e le iniziative 'fantasiose' sul crinale del passaggio alla 'via più breve']. 
An­che in seguito Rauti ammetterà la “collaborazione sottobanco” dell’e­strema destra con i servizi se­greti e i suoi rap­porti con le Forze armate: «L’ipotesi del golpe ha circolato nell’e­strema destra, a un certo punto. Come scorciatoia per il po­tere. Di fronte a un peri­colo comunista (...) Negli anni Sessanta io stesso sono stato coinvolto in rapporti con i militari. Scrivendo, insieme con Edgardo Bel­trametti, l’opuscolo Le mani rosse sulle Forze Armate, commissionato dal generale Giuseppe Aloia. Io lo vedevo come un tenta­tivo di ide­ologizzare l’esercito»[xxi]. Ma secondo Oscar Le Winter, ex colonnello della Cia, Rauti sarebbe stato un agente di grado 2 dell’agenzia americana, con uno stipendio mensile di 4000 dollari.
A prendere le distanze dai dubbi e dalle compromissioni del fondatore di Ordine Nuovo è anche il fascista non pentito Giorgio Pisanò, che pur condivide con Rauti, l’avventura della rifondazione missina: «Posso escludere che il Msi abbia condotto o coperto operazioni sporche per conto dei servizi.[…] Rauti ha avuto anni convulsi, ai margini e fuori dal partito. Può darsi che si sia fatto convinzioni errate»[xxii]. Per il direttore del “Candido”, la centrale del terrore era l’ufficio Affari riservati del Viminale, che «reclutava sciagurati di ogni risma e colore, per alimentare la teoria degli opposti estremismi. Materiali da manicomio»[xxiii]. 
Delle caratteristiche “umane” del personale reclutato offre un signi­ficato spaccato il questionario che l’aspirante militante doveva compilare: «Perché sei in ON? Desideri che ON imponga la dit­tatura al Paese? Sei capace di sostenere in un’assemblea politica una tesi as­solutamente im­popo­lare? Hai rispetto dell’opinione pubblica? Sei antisemita? Sai di­mostrare che gli uomini non sono uguali? Ti ri­tieni vincolato dalla mora­lità comune?». «L’invito scritto - racconta Vinciguerra - a mandare uno o due elementi di ON ad un campo “paramilitare”, con tanto di lista dettagliatis­sima di oggetti da por­tare, primo la tuta mimetica, non era una nuova prova di impru­denza, come pensai allora, bensì di arroganza perché i dirigenti di “Ordine nuovo” sapevano quello che face­vano e lo facevano d’accordo con le autorità mili­tari, i carabinieri e la pubblica sicurezza. Il “comandante” del campo era Paolo Signo­relli, tuta mime­tica, energia e faccia feroce. Ancora Dio e i carabinieri erano con lui: il tempo in cui Dio lo avrebbe mollato lasciandolo solo con i ca­rabinieri era ancora lon­tano»[xxiv]. La stessa devozione ai carabinieri – ma anche scambi di piaceri e forniture militari al suo gruppo - Vinciguerra l’attribuisce a Giancarlo Rognoni, ex bancario, leader della milanese Fenice, un piede in Ordine nuovo, uno nel Msi, (...). [Secondo Vinciguerra] Ordine Nuovo ha finito per trasformarsi in una struttura di civili organica ai disegni di stabilizzazione politica dell’Alleanza atlan­tica: «Buona parte di coloro che forma­vano i quadri e i nuclei mili­tanti del­l'organizza­zione erano in diretto con­tatto con funzio­nari di poli­zia ed uf­fi­ciali dei ser­vizi se­greti; e, alcuni di essi, erano addirittura sta­bilmente inse­riti nelle “strutture parallele” tipo Gladio»[xxv].
Proprio alla vigilia della strage di Piazza Fontana una “fonte Borghese” segnala agli Affari riservati – ma il rapporto è ritrovato solo 28 anni dopo, nei faldoni occultati nel maxiarchivio del Viminale e riportati alla luce da Aldo Giannulli, professore universitario e consulente della commissione stragi – che un nucleo ristrettissimo di militanti di Ordine nuovo si preparava a compiere azioni clamorose. Alla luce di queste rivela­zioni desta meraviglia la circostanza che sia stato proprio il Movimento politico Ordine nuovo – nato dalla scissione che si consuma a ridosso della strage - ad applicare per la prima volta in Italia il processo-guerriglia[xxvi], passato alla storia come “invenzione” brigatista. (...) Così anche nel primo processo per ricostru­zione del partito fascista gli ordinovisti rifiutarono gli in­ter­roga­tori, rimet­tendosi tutti alla memoria difensiva del leader Clemente Graziani. Un manife­sto politico che con­tiene un preciso avvertimento: «Siamo in attesa, signori del Tri­bunale, per sa­pere dal vostro verdetto se abbiamo ragione o torto, se Ordine nuovo può conti­nuare ad agire sul piano della legalità oppure se deve ricorrere ai mezzi di lotta previ­sti nei periodi di repressione e persecuzione democrati­che»[xxvii]
Gli or­dino­visti erano lacerati da un dilemma dot­trinario: tra la fedeltà all’Idea (l’evoliana idolatria dello Stato come entità metafi­sica) e la lotta al regime. La scelta di contestare la legittimità del tribunale della Re­pubblica troverà l’estrema conse­guenza nella condanna a morte eseguita contro il pm Occorsio che si era fatto ca­rico per tre volte dell’o­nere dell'accusa contro Ordine nuovo [Questo è lo spezzone che fa capo a Graziani e che decide di non rientrare, con Rauti, nel Movimento sociale, nel novembre 1969].
(...) Vinciguerra attri­buisce la strategia della tensione a «una struttura parallela ai ser­vizi di sicurezza e che dipendeva dall’Alleanza atlan­tica; i vertici politici e mili­tari ne erano perfettamente a co­no­scenza (...) Il perso­nale veniva selezio­nato e re­clu­tato negli ambienti dove l’anticomunismo era più visce­rale, cioè ne­gli ambienti di estrema destra (...) Tale struttura organizzativa obbedisce a una logica secondo cui le direttive partono da Apparati inseriti nelle Istituzioni e per l’esattezza in una struttura parallela e segreta del Ministero degli Interni più che dei Carabinieri»[xxviii].
E se gli si può ricono­scere, alla luce della sua posizione giuridica (ergastolo defini­tivo) e penitenziaria (una lunga do­cumen­tata catena di vessazioni) il be­ne­ficio della buona fede [undici anni dopo Vinciguerra continua a non godere di benefici penitenziari ed è blindato da 34 anni], gli va allora addebitata una dose di ingenuità in­com­pa­ti­bile con le velleità di un combattente rivoluziona­rio, che non esita a collabo­rare con la magi­stratura pur di “smascherare” le atti­vità controrivoluzionarie degli ex camerati in un bizzarro proseguimento della lotta politica per via giu­diziaria (a suon di ergastoli). Un ritratto in chiaroscuro di Vinciguerra ce lo offre Gianni Barbacetto: «Ha mani mi­nute, viso tondo, un eloquio che dimostra intelli­genza e buona cultura, nutrita so­prattutto dei maestri europei del pen­siero di destra, Guénon, Céline, Evola. Ci tiene a dare di sé l’immagine di “soldato poli­tico” spietato ma integro, in­capace di compro­messi, tutto d’un pezzo. Non vuole essere confuso con la destra reazionaria»[xxix]. La sua intenzione dichiarata è di «chiarire il proprio ruolo di combattente rivoluzio­nario antisistema in mezzo a gruppi di destra che, so­stiene, erano al contrario servi del partito atlantico, bracci armati e milizie civili a disposizione dell’esercito e dei servizi se­greti»[xxx]. Della purezza di queste intenzioni non è convinto il giu­dice Felice Cas­son e così Vinciguerra si sceglie come interlocutore il milanese Guido Salvini – che pure lo considera un “testimone reticente”[xxxi] - ri­ser­vando a quello che chiama il “giudice felice” centinaia di pagine al vetriolo. Da parte sua Casson s’impegna sistematicamente a demo­lire la sua immagine. Gli interrogativi che il giudice veneziano si pone sono pertinenti: «Perché si è consegnato ai giudici nel 1979, quando aveva sulle spalle una condanna a dodici anni per il tentato dirottamento di Ronchi dei Le­gionari? Se si è consegnato per fare chiarezza sul ruolo della destra, usata da­gli apparati dello Stato o, peggio, doppiogiochista e venduta ai servizi se­greti italiani e americani, perché ha aspet­tato cinque anni prima di raccontare, nel 1984, la verità su Peteano? Per­ché si è conse­gnato proprio alla vigilia della grande offensiva terroristica 1979-80, che culminerà con la strage di Bo­logna? Perché era ferito quando si è lasciato arrestare?»[xxxii]. (...).
È verosimile che Vinci­guerra si sia consegnato perché effettivamente disgustato delle tante “schifezze” che aveva vi­sto in giro, tra «agenti doppi, “nazisti” a mezzo servizio stipen­diati dai carabinieri e giovani fascisti italiani tra­sfor­mati, per conto dell’A­ginter Press-Cia, in cacciatori ammazza-baschi in Spagna o in volontari del ter­rore in Africa o in torturatori di oppositori in Argentina e in Cile»[xxxiii] mettendosi al tempo stesso al sicuro da chi evidentemente non si fidava più di lui. L’ultimo attacco frontale all’autorappre­sentazione di un Vinci­guerra incontami­nato dopo anni d’attività tra “zozzoni” di vario genere Casson l’ha data indagando per concorso nella strage di Peteano l’agente della Cia, Edward Mc Gettigam, consigliere po­litico del­l’ambasciata di Roma e responsabile di Stay Behind in Italia. (...) Del resto, smentendo le rassi­curazioni di Giulio Andreotti sulla natura antifascista di Gladio, Casson ha potuto individuare tra i 622 nomi di gla­diatori gettati in pasto alla stampa almeno quattro iscritti al PNF, otto re­duci di Salò, un marò della X MAS e nove iscritti al MSI. Così come il segretario del Msi, Giorgio Almirante sarà accusato di aver favorito – e amnistiato – la latitanza di Carlo Cicuttini, complice di Vinciguerra a Peteano e segretario missino di un paesino della valle di Natisone[xxxiv].
(...) Le conclusioni a cui è pervenuto il giudice Salvini è che sia vera­mente esistita «una catena di comando che dagli esecutori materiali (gli uomini di Avanguardia nazionale a Roma e di Ordine nuovo a Milano) risaliva ai capi di quelle organizza­zioni (Stefano Delle Chiaie per Avanguardia, Rauti e Carlo Maria Maggi per Ordine), fino a un livello internazionale, quello di Gue­rin Serac, in ottimi rap­porti, per esempio, con un personag­gio come William Buckley, il capo della Cia per l’area del Mediter­raneo ucciso nel 1985 in Li­bano»[xxxvii]. Di rapporti tra gli ordinovisti patavini e gli avanguardisti romani aveva già parlato Giovanni Ventura, in un interrogatorio nel ’72: a suo dire l’interfaccia nella capitale di Freda era Guido Paglia, presidente della rifondata Avanguardia Nazionale, autore di una relazione sul golpe Borghese e sul suo gruppo ritrovata nella redazione di Op, la rivista di Mino Pecorelli.  (...)
Molte delle confessioni di Vinciguerra sono de relato: la sua militanza in AN comincia in Spa­gna, nella primavera del 1974. I magistrati di mezza Italia (Milano, Reggio Calabria, Bologna) lo tengono co­munque in gran conto. Così è fondamentale il suo j’accuse contro i vertici ordinovisti per la richiesta di rinvio a giudizio della procura di Bologna per i depistaggi sulle stragi[xxxviii]: «A dimostrazione dell’elevatezza dell’attacco terrorista, della compli­cità di ap­parati dello Stato (dal Ministero dell’Interno ai vertici delle Forze Armate e dei Servizi segreti, a esponenti politici di primo piano) si richiamano le dichiarazioni di Vincenzo Vinciguerra secondo il quale, sotto la facciata di ON si na­scondeva una struttura occulta all’interno della quale operavano perso­naggi come Carlo Ma­ria Maggi, Delfo Zorzi, Paolo Signorelli e, in posizione di vertice, lo stesso Pino Rauti»[xxxix]. A Maggi, re­sponsa­bile ordinovista per il Trive­neto, rientrato nel Msi con Rauti, di cui era grande amico, arrestato nel giugno ‘97 come organizzatore delle due stragi di Milano (piazza Fontana e Questura), Vinciguerra attribuisce anche responsabilità penali: il medico veneziano, che aveva cominciato la sua carriera nel ’66, rubando esplosivo in una cava nel Vicentino, gli avrebbe consegnato il plastico al T4 utilizzato per la strage di Peteano. La condanna a dieci anni sarà cancellata in appello [così come si concludono con assoluzioni i processi per strage che vedono Maggi imputato come organizzatore della strage di piazza Fontana, della Questura di Milano, mentre per la strage di Brescia al termine di un complesso iter giudiziario arriverà la condanna definitiva all'ergastolo]. 
La struttura descritta da Vin­ci­guerra - in un primo momento confusa con Gladio e solo successivamente definita come Nuclei di difesa dello Stato[xl] o più semplicemente come Legione - solo in parte si identifica con Ordine nuovo ma può essere definita con maggiore esattezza come una federazione di singoli gruppi e bande del partito (armato) del golpe, che collega e organizza terroristi neri e bianchi, ufficiali delle forze dell’ordine, delle forze armate e della Nato: « E’ proprio sul terreno di questo “anticomunismo atlantico” che il mondo neofascista, alla ricerca di un posto all’ombra dei potenti, ha finito per legarsi definitivamente al carro americano, nella sola posizione possibile: quella di uno degli strumenti di azione del potere statunitense. Non si è trattato di un’alleanza ma di una posizione di assoluta sudditanza politica ed operativa, di cui almeno gli esponenti di vertice del neofascismo non potevano non essere consapevoli»[xli].
Già nel 1977, nel corso dell’in­chiesta sulle bombe di Trento[xlii], uno dei legionari, Enzo Ferro, ricostruisce le attività di adde­stramento al sabotaggio e alla controguerriglia della banda ar­mata di Stato. Descrive una struttura di militari e civili concen­trata a Verona intorno al colonnello Amos Spiazzi, detenuto da tre anni per l’in­chiesta sulla Rosa dei Venti. Conferma le responsabilità degli apparati di Stato per gli attentati di Trento per i quali da mesi si stavano scannando Carabinieri e Guar­dia di Finanza, accu­sandosi a vicenda di esserne i mandanti. Senza conseguenze[xliii]. Racconta le esercitazioni con gli esplosivi, gli attentati dimo­strativi, i progetti di stragi per fermare l’avanzata comunista: «La finalità della struttura - ha ribadito diciott’anni dopo a Salvini -  era quella certamente di fare un colpo di Stato all’interno di una situazione che prevedeva attentati dimostrativi preferibilmente senza vittime (…) Alle riunioni presenziavano diversi civili, anche di Verona, vari amici di Spiazzi che avevano un’ideologia più fanatica, erano quelli di Ordine nuovo, ricordo Elio Massagrande, Roberto Besutti, Claudio Bizzarri, Giampaolo Stimamiglio; si usava sempre il nome in codice  (…) Una volta venne uno con una valigetta di cuoio mostrando delle saponette di tritolo già pronte con gli spinotti e gli inneschi»[xliv]. [Verona, importante centro militare, è l'unica città veneta i cui militanti non rientrano nel Msi con Rauti ma aderiscono al Movimento politico Ordine nuovo]
Secondo Salvini - che ne ha tratteg­giato le caratteristiche in una sentenza-ordinanza del marzo ’95[xlv] - i Nuclei per la difesa dello Stato sono stati attivi dal 1966 al luglio 1974 (cioè dal convegno del Parco dei Principi alla “svolta antifasci­sta” di An­dreotti), strut­turati in trentasei Le­gioni, che avrebbero fatto capo allo Stato maggiore dell'Esercito con il supporto logistico dei carabinieri. Quella di Verona, la quinta, era composta da 60-70 uomini, il che fa ipotizzare un organico nazionale di millecinquecento uomini. Secondo alcuni pentiti, ma anche per Francesco Gironda, il gladiatore promotore di un’associazione di reduci decisi a difendere la legittimità costituzionale di Stay behind, Andreotti avrebbe bruciato Gladio per coprire i Nuclei e le loro pesanti compromissioni con il terrorismo neofascista. Una tesi sostenuta con rabbia dal generale Paolo Inzerilli, capo di Stay behind dal 1974 al 1986 e poi comandante del Sismi fino al ‘91: dietro le stragi c’è stata un’organizzazione segreta legata ad apparati istituzionali (...). 
Nella sentenza ordinanza del processo per la strage della stazione di Bologna i giu­dici, dopo aver indicato i compo­nenti della struttura occulta implicata nelle stragi (il colonnello Michele Santoro[xlvi], Antonio Labruna[xlvii], Cristiano De Ec­cher[xlviii], Massi­miliano Fachini, Marcello Soffiati[xlix], Amos Spiazzi, Roberto Raho[l], Paolo Signo­relli e Fabio De Felice) ricor­dano che «Vinciguerra ha fornito un elenco di nomi ben più ampio indicando negli appartenenti al Cen­tro studi Ordine nuovo la strut­tura portante della strategia di infiltrazione, provocazione e strumentalizza­zione di gruppi politici volta a perse­guire fini coincidenti con quelli di alcuni apparati dello Stato ai quali erano le­gati»[li] e riportano gli altri componenti del gruppo. Alcuni non hanno mai militato in Ordine Nuovo: i giornalisti Enzo Erra e Fausto Pierfranceschi (così nel testo: presumibilmente Gianfranceschi), già coimputati di Rauti nel pro­cesso del 1951 contro i FAR, il senatore missino Cesare Pozzo, portavoce di Almirante, il fondatore di Lotta di Po­polo Enzo Maria Dantini, i leader di Giovane Europa Claudio Orsi e Claudio Mutti, i milanesi della Fenice, Giancarlo Ro­gnoni e Marco Cagnoni, il bolognese Luigi Fa­lica, a cui Graziani affida la gestione di Ordine nuovo prima di espatriare. Gli altri sono i quadri ordinovisti del Triveneto: Delfo Zorzi, Carlo Maria Maggi, Francesco Neami, Cesare Turco[lii], Claudio Bressan[liii], Mario Portolan[liv], Gianfranco Via­nello[lv], Aldo Trinco[lvi], l’intero gruppo Freda-Fachini. Un rapporto del Ros per l’inchiesta Salvini dà credito alle accuse di Vinciguerra: Franco Freda avrebbe scritto rapporti informativi per il Sid con il nome di copertura di “agente T” mentre ad ammettere la collaborazione di Fachini con il servizio segreto sarebbe stato lo stesso generale Gianadelio Maletti[lvii].




[i] Il 21 novembre 1996 la Cassazione ha reso definitiva l’assoluzione per Licio Gelli e i vertici della P2: la loggia segreta non cospirò contro lo Stato. Per procacciamento di notizie riservate (un dossier su un traffico di petrolio con la Libia teso a finanziare una scissione di destra della DC nel 1975) Gelli è condannato a 8 anni di carcere, l’ex numero 2 del Sid Maletti, da anni rifugiato in Sudafrica, a 14 anni.
[ii] Giorgio Galli La crisi italiana e la Destra internazionale , Mondadori, Milano, 1974.
[iii] Furio Jesi Cultura di destra , Garzanti, Milano, 1979.
[iv] Chiara Valentini «La volta che  mi stavano fucilando», L’Espresso, 10 febbraio 1995.
[v] Adalberto Baldoni-Sandro Provvisionato La notte più lunga della repubblica. Sinistra e destra, ideolo­gie, estremismi, lotta armata Serarcangeli, Roma 1989, p. 32
[vi] idem, p. 54.
[vii] M. Ca Rauti:regia Cia? Poteva esserci una centrale unica, Il Corriere della Sera, 13 novembre 1995.
[viii] Militante di Lotta Continua ucciso a coltellate a Parma il 20 luglio 1972 da una squadra neofascista.
[ix] Daniele Protti Non fidatevi di loro. Parola di fascista , L'Europeo, 20-25 maggio 1994.
[x] Giulio Salierno Autobiografia di un picchiatore fascista, Einaudi, Torino, 1976.
[xi] Marco Tarchi Cinquant’anni di nostalgia. La destra italiana dopo il fascismo , Rizzoli, Milano 1995.
[xii]idem p.50.
[xiii] Clemente Graziani Processo a Ordine Nuovo, processo alle idee, Edizioni di ON, Roma 1973.
[xiv] Evola, falliti i tentativi tattici di collegarsi alle “forze sane della nazione”, approda a una visione più tragica e negativa di isolamento e di distacco dell'uomo dalla società borghese, la cui crisi è ritenuta definitiva.  L’impegno politico si concretizza in una milizia eroica, passaggio obbligato per costruire uno stato popolare (nella teorizzazione che ne fa Freda) o nell’esaltazione del gesto come affermazione dei valori di superiorità e disuguaglianza.
[xv] Francesco Ingravalle Pour une analyse du Mouvement Révolutionnaire en Italie, Totalité, nov.-dic. 1979, 10.
[xvi]Vincenzo Vinciguerra Ergastolo per la libertà, Arnaud, Firenze 1988, p.199
[xvii] Adalberto Baldoni-Sandro Provvisionato La notte cit., p. 35
[xviii] ibidem
[xix] vedi il capitolo 15.
[xx] cfr. l’intervista di Paolo Guzzanti a Pino Rauti (La Repubblica, 5 agosto 1980).
[xxi] Michele Brambilla Interrogatorio alle destre , Rizzoli, Milano 1994, pp.31-32.
[xxii] Idem
[xxiii] ibidem
[xxiv] Vincenzo Vinciguerra Ergastolo cit., p. 7.
[xxv] Vincenzo Vinciguerra La strategia del depistaggio, Il Fenicottero, 1993.
[xxvi] Secondo Franco Ferraresi le iniziative assunte da alcuni settori della magistratura e dei Servizi nei confronti di appartenenti al movimento fu vissuta dai suoi militanti come un vero e proprio tradimento da parte dello Stato e in questo quadro va letto la svolta strategica verso forme di lotta armata.
[xxvii] Sandro Forte I processi alle idee , 2a ed., Edizioni Europa, Roma 1995, p. 64.
[xxviii] Sentenza della corte d’Assise di Venezia, Presidente Renato Gavardini, 25 luglio 1987, p. 399.
[xxix] Gianni Barbacetto Il Grande cit., pp. 196-197
[xxx] idem, p. 101
[xxxi] «Purtroppo – spiega Salvini -  Vinciguerra ha limitato la sua ricostruzione a fini di verità sulla strategia della tensione ad alcune e nemmeno tutte le notizie di cui disponeva sulla strage di piazza Fontana e ha fornito pochissimi dati sulle altre stragi affermando che le condizioni per far emergere le verità sulle stragi non sono ancora maturate».
[xxxii] idem, p. 202
[xxxiii] idem, p. 203.
[xxxiv] Con l'accusa di aver pagato le spese dell’operazione alle corde vocali di Cicuttini, per impedirne l’identificazione come autore della telefonata trappola ai carabinieri, il segretario del Msi fu processato per favoreggiamento.  
[xxxvii] Gianni Barbacetto Il Grande cit., p. 110.
[xxxviii] La Commissione stragi così riassume le principali conclusioni della sentenza-ordinanza del giudice Grassi:
- le imputazioni di concorso in strage per attentare alla sicurezza dello Stato, omicidio plurimo, lesioni, detenzione di esplosivi, disastro ferroviario, in relazione all'attentato al treno Italicus, nei confronti di Stefano Delle Chiaie e Adriano Tilgher, con proscioglimento per non aver commesso il fatto;
- l'imputazione di concorso in associazione sovversiva, in riferimento alla costituzione e organizzazione del "Fronte Nazionale Rivoluzionario" in Toscana, fino al 3 agosto 1974, nei confronti degli stessi Delle Chiaie e Tilgher, con proscioglimento per non aver commesso il fatto;
- le imputazioni di associazione sovversiva e banda armata operanti in Milano, Ascoli e altre zone dell'Italia centrale sino all'agosto del 1974, nei confronti di Piergiorgio Marini e Giuseppe Ortensi, dichiarandone l'improcedibilità per l'esistenza di precedente giudicato sui medesimi fatti;
- l'imputazione di favoreggiamento aggravato, a vantaggio di Luciano Franchi e Pietro Malentacchi e nell'ambito delle indagini sulla strage dell'Italicus e commesso quindi nell'agosto-settembre 1974, nei confronti del comandante del Gruppo dei carabinieri di Arezzo, colonnello Domenico Tuminello, dichiarando l'estinzione del reato per intervenuta prescrizione;
- l'imputazione di calunnia continuata, aggravata dalla finalità di eversione, in relazione alle false accuse in danno di Valerio Viccei e Angelo Izzo, per aver reso dichiarazioni calunnatorie, per aver predisposto un'evasione dal carcere di Paliano unitamente a Raffaella Furiozzi e a Sergio Calore e per aver detenuto stupefacenti unitamente alla sola Furiozzi, nei confronti di Bongiovanni Ivano, dichiarando l'estinzione del reato per intervenuta prescrizione;
- l'imputazione di calunnia aggravata dalla finalità di eversione, in relazione alle false accuse di omicidi tra i quali quelli di Silvani Fedi e Manrico Bucceschi, nonché di più stragi, in danno di Licio Gelli, nei confronti di Federigo Mannucci Benincasa e Umberto Nobili, ordinandone il rinvio a giudizio innanzi alla Corte di Assise di Bologna;
- le impostazioni di favoreggiamento e abuso continuati e aggravati dalle finalità di eversione, minacce a pubblico ufficiale, tentata sottrazione di documenti sottoposti a sequestro, in relazione alle attività illecite dispiegate nella qualità di direttore del centro Sismi di Firenze per ostacolare le indagini sulle attività eversive di Augusto Cauchi, nonché per ostacolare gli sviluppi istruttori sulla propria posizione, nei confronti di Federigo Mannucci Benincasa, ordinandone il rinvio a giudizio innanzi alla Corte di Assise di Bologna. Pertanto la sentenza-ordinanza, sempre con riferimento agli ambiti temporali considerati, trasmette agli atti:
- alla procura di Bologna per l'ulteriore corso delle indagini contro gli ignoti autori della strage dell'Italicus;
- alla procura di Roma in ordine alle ipotesi di cospirazione politica e attentato contro la Costituzione dello Stato delineabili nell'intero arco temporale compreso tra il 1969 e il 1982 a carico di Gian Adelio Maletti, Antonio Labruna, Giancarlo D'Ovidio, Federigo Mannucci Benincasa, Umberto Nobili, Pietro Musumeci, Giuseppe Belmonte, Licio Gelli.
[xxxix] Gian Pietro Testa Gladio, i servizi, i fascisti. Leggete questo documento choc, Avvenimenti, 3 agosto 1994.
[xl] La sigla fu usata per la prima volta nel ’66 da Freda e Ventura per dif­fon­dere tra gli ufficiali delle Forze Armate materiale di pro­paganda golpi­sta: un’iniziativa ispirata secondo il centro di controspionaggio di Padova da Rauti e Giulio Maceratini, allora numero due di ON, oggi capogruppo di Alleanza nazionale al Senato)
[xli] Vincenzo Vinciguerra, Ergastolo per la libertà, Arnaud, Firenze, 1989 cit. in Manuel Negri L’agente “T” Franco Freda, in Avanguardia, anno XVI, n.1, gennaio 1988.
[xlii] Trento è uno degli avamposti per l’uso da parte di apparati dello Stato di attentati terroristici, opera di agenti provocatori per reprimere la sinistra e il movimento operaio e studentesco. Il 10 aprile 1969 Marco Pisetta, che sarà il primo infiltrato nelle Brigate Rosse, colloca una bomba alla Regione, la notte dopo fa il bis all'Inps di Trento. Scorda nella borsa una foto della sorella ma l'ordigno non scoppia. Lui scompare dalla circolazione e si scatena la repressione a sinistra. Nell'estate 1970 riparte in grande stile una campa­gna terroristica. Quello al Palazzo di Giustizia del 18 gennaio 1971 è attribuito a due collaboratori del Sid, Sergio Zani e Sergio Widmann ed è teso a provocare una strage tra i “compagni” mo­bi­litati per un processo attribuendone loro la responsabilità. Ma il processo slitta e il progetto salta. Gli attentati proseguono: l’8 febbraio un ordigno micidiale esplode al palazzo della Regione. Gli ultimi attentati provocatori hanno luogo il 12 febbraio, contro due monumenti ai caduti, consi­derati un tipico obiettivo di “sinistra”. Nonostante il preavviso di un giorno uno degli ordigni non è ri­mosso a tempo ed esplode. La copertura del segreto di Stato, data da Andreotti e Mariano Rumor nel novembre 1972, non serve: una faida fra opposti segmenti dei servizi di sicurezza porterà alla luce coperture e depistaggi dell’inchiesta e quindi all’ arresto nel 1977 del vicequestore Saverio Molino, capo dell’ufficio politico a Padova e poi a Trento e i colonnelli dei carabinieri Angelo Pignatelli e Santoro, tre protagonisti della “strategia della ten­sione” (dalla strage di Peteano all’omicidio dell’agente Marino alla copertura offerta alla Rosa di Venti). La vicenda giudiziaria è abbastanza complessa. Un rapporto dei carabinieri accusa i corpi speciali della Guardia di Finanza di aver organizzato l’attentato al tribunale utilizzando come manovali due contrab­bandieri sudtirolesi confidenti, Hofer e Gatscher. Riunioni di vertice a Roma affossano la denuncia che è ripresa da Lotta continua. L’assoluzione del direttore del quotidiano nel processo per diffamazione rilancia l'inchiesta. Nel novembre sono arrestati Zani e Hofer men­tre Gatscher scappa. A dicembre è la volta del colonnello delle Fiamme Gialle Siragusa e del mare­sciallo Sajia. Ma a gennaio ’77 i due sono scarcerati e scattano le manette per Molino, Pignatelli e Santoro, accusati di falso e favoreggiamento per il depistaggio. I tre ottengono la libertà provvisoria a febbraio. Il rinvio a giudizio conferma la svolta processuale ma il dibattimento assolve gli imputati maggiori con formula piena e gli autori materiali (Zani e Widmann che avrebbero fornito l'ordigno ai con­trabbandieri) con insufficienza di prove, e riapre la pista della Guardia di Finanza.
[xliii] Michele Gambino «Sapevano tutto». Quindici anni fa un testimone , Avvenimenti, 26 aprile 1995.
[xliv] Giorgio Cecchetti I pentiti parlano e affiora la Gladio dei “legionari”, La Repubblica,  4 aprile 1995.
[xlv] In un troncone dell’inchiesta principale Salvini, oltre a registrare numerose prescrizioni, ha rinviato a giudizio Rognoni, Azzi, Signorelli e Calore per un traffico di bombe a mano, Carlo Digilio ed Ettore Malcagni per favoreggiamento e inviato gli atti a Roma per procedere per cospirazione politica contro Licio Gelli.
[xlvi] In servi­zio negli anni Sessanta in Alto Adige, Michele Santoro è nel 1970-71 a Trento (e sarà perciò arrestato nell’in­chiesta sulla mancata strage al Tribunale). Dopo essere stato sospettato di aver indirizzato le indagini sulla strage di Peteano  verso un’inesistente pista rossa è trasfe­rito a Milano dove si distingue per aver attirato in trappola il responsabile dell’omicidio dell’agente Marino.
[xlvii]Il capitano Antonio Labruna, napoletano, ufficiale del Sid, quando Maletti diviene capo del reparto D entra nel nucleo operativo diretto da Sandro Romagnosi. È specializzato in “operazioni sporche”: gestisce i rapporti con gli estremisti neri che lo considerano un “amico”. Nel 1972 tramite Guido Paglia incontra in Spagna Delle Chiaie chiedendogli aiuto per le evasioni di Freda e Ventura e per l’ospitalità a latitanti neri. Nel novembre 1972 va a Padova da Fachini, che considera superiore gerarchico di Vinci­guerra, e lo avverte: «Ora basta fesserie ». Si riferiva alla strage di Peteano (tre carabinieri morti) e al di­rottamento di Ronchi (il responsabile ucciso). Nell’inverno 1973 organizza l'espatrio di Pozzan e Giannet­tini , non ancora ricercati per la strage di Piazza Fontana. Registra le confidenze dei latitanti e le usa, su mandato di Andreotti, per smantellare l’ala radicale del partito del golpe. La fonte principale è Remo Orlandini, braccio de­stro di Borghese nel putsch del 1970, riparato in Svizzera: all’inizio del processo per il golpe l’avvocato del latitante accuserà il capitano del Sid di avergli fornito un passaporto. Sulla protezione accordata a un suo confidente del Fronte Nazionale, Nicoli, si scontra col pm Violante. Ne organizza l’espatrio in Svizzera ma quando il magistrato si precipita infu­riato a Roma e chiede conto della fuga, La Bruna informa il pm Vitalone che Nicoli è un infiltrato, ricercato per un’attività in favore dello Stato. Nel 1976 si fa un mese di carcere per la fuga di Pozzan e Giannettini: è scarcerato per le “ineccepibili qu­alità morali” ma al processo sarà condannato a due anni. È coinvolto nel regolamento di conti che si scatena tra le opposte fazioni dei servizi. Rompe con Maletti e arriva allo scontro totale a colpi di dossier e di denunce. È accusato dal colonnello Viezzer (un affiliato della P2 già segretario di Maletti al Sid) e da Delle Chiaie di aver allestito con il capitano D’Ovidio l’arsenale di Camerino per creare una falsa pista rossa. Un ruolo fondamentale nell’operazione lo avrebbe avuto Paglia, che aveva “sparato” il ritrovamento sui giornali del gruppo Monti (l’inchiesta sarà archiviata nel gennaio 1989). È incriminato nell'aprile 1981 per la scomparsa del dossier Sid sullo scandalo dei petroli, il cosiddetto Mi-fo-biali, sul finanziamento li­bico al fondatore del NPP, Foligni tramite il capo del Sid, Miceli. Lui tenta di scari­care la colpa su Maletti ma sarebbe stato lui a cedere il dossier a Pecorelli che lo usa per attaccare l’ex nu­mero due del Sid. In commissione P2 Spiazzi lo accusa di aver orchestrato l'operazione Rosa dei venti per li­quidarlo politicamente, perché ambienti romani avevano deciso di scaricarlo dalla struttura di sicurezza, non ritenendolo più affidabile. Rincuorati dalla sua emarginazione e impotenza, molti trovano il coraggio di attaccare Labruna. Il numero due del Mar, Gaetano Orlando lo accusa di aver ucciso il generale Ciglieri, morto in un improbabile incidente stra­dale il 27 aprile 1969. Di Biaggio, vittima del primo depistaggio sulla strage di Peteano, riferisce al giu­dice Casson che Labruna era stato con il generale Mingarelli protagonista delle pressioni per indurlo a con­fessare il falso. E' indagato per aver organizzato con Miceli e Maletti una serie di at­tentati antimissini nel 1971-72 e per cospirazione politica per la P2. L’esplo­sione del caso Gladio gli offre l’occasione di tornare alla ribalta da protagonista: “Tonino” riven­dica un anno di lavoro a manomettere le bobine Sifar prima di restituirle alla commissione di inchie­sta. A gestire l'operazione sarebbe stato il sottosegretario alla Difesa, Cossiga. Gli omissis riguar­dano tre parti: Gladio, la struttura dei Carabinieri in caso di guerra e fatti personali e privati. Tolti nel 1991 gli omissis sul Piano Solo, non ricompaiono i materiali sui primi due argomenti. Labruna sostiene di averli tagliati lui dalle bobine, 8 mila metri in tutto, dal settembre 1969 al 30 aprile 1970, lavorando su in­dicazione di Alessi, presidente della commissione parlamentare, e di Henke, il capo del Sid, che prima di indicare i testi dei tagli, ne avrebbero conferito con Cossiga. Se­gnala ai pe­riti i punti dove più evidenti sono le manomissioni: qualche clic scappato, salti logici, rumori di fondo da ri­passare con speciali apparecchiature per mostrare linee di discontinuità. Le sue rivelazioni sono usate per attaccare il presidente della Repubblica Cossiga. Rincuorato dal successo, decide di collaborare con i magi­strati che indagano sulle stragi (Piazza Fontana, Piazza della Loggia, Italicus) met­tendo a disposizione il suo formidabile archivio e rinfrescando vecchie piste con la sua viva memoria. Le sue disavventure giudi­ziarie non sono però concluse. Nell'inchiesta bis per i depistaggi sulla strage di Bolo­gna i suoi atti sono rin­viati, nell’agosto 1994, a Roma, sede competente per l’attentato alla Costituzione. Per i tagli effettuati sulle sue registrazioni sul golpe Borghese e dintorni, è invece incriminato il suo diretto superiore, il generale Romagnosi.
[xlviii] Cristano De Eccher è il responsabile triveneto di Avanguardia Nazionale. Iscritto all’Università di Padova frequenta la libreria di Freda e ne diventa amico. Lo invita a tenere conferenze a Trento, lo ospita nel castello di famiglia di Collavino e partecipa al primo comitato pro-Freda. In seguito si sparge la voce, sdegnosamente smentita dallo stesso Freda che era lui il depositario dei timer per cui Freda è accusato della strage di Piazza Fontana. La voce compare nel memoriale Pomar, un ingegnere nucleare, riparato in Spagna dopo il mandato di cattura per il golpe Borghese, ed è rilanciata senza successo dai pentiti Izzo e Calore nel pro­cesso di Bari per la strage di Milano. Le nuove inchieste su piazza Fontana e gli attentati ai treni in Cala­bria di AN ripropongono l’ipotesi che De Eccher e li avrebbe maliziosamente fatti scomparire proprio per incastrare Freda su mandato di Delle Chiaie. Nel memoriale Pomar (del 1977) De Eccher è indicato come compo­nente di una rete di potere occulta composta da Delle Chiaie, Merlino, Signorelli, Freda e Ventura, la cel­lula ve­neta, e gli ufficiali dei carabinieri Santoro, Pignatelli e Molino. È arrestato per il fallito attentato a Gardolo del giugno 1973 contro l’ auto di uno studente di Lotta continua e scarcerato dopo un mese. Quando durante una perquisizione gli agenti di polizia trovano quaranta pile utilizzabili per confezionare ordigni a tempo, la madre li rassicura beffarda: servono a fare giocare i figli del colonnello Santoro, amico di famiglia. Arrestato come organizzatore di AN nel no­vembre 1975 De Eccher è condannato a due anni.
[xlix] Il veronese Marcello Soffiati, morto nel 1988, è al tempo stesso militante di Ordine nuovo, collaboratore della Cia e massone. Denunciato nel 1966 con il mantovano Roberto Besutti, il veronese Elio Massagrande e il veneziano Marco Morin (un gladia­tore poi apprezzatissimo perito balistico) per raccolta e detenzione abusiva di armi da guerra riporta una condanna irrisoria (90 giorni) perché passa la loro versione difensiva: erano collezionisti. (anche di cande­lotti di dinamite). Nel 1972 accompagna in Spagna un camerata di Trieste, Gabriele Forziati, coinvolto nell’inchiesta per la mancata strage alla scuola slovena. Detenuto per la Rosa dei Venti, nel no­vembre 1975 Soffiati scrive al colonnello Spiazzi, suo referente come informatore (fonte Eolo), minacciando che se i giudici non si fossero decisi a scarcerarlo avrebbe sfilato il Rosario, accusando il figlio di un giudice veronese di aver partecipato a una sparatoria ed altri reati politici ma conferma il suo impegno d’onore agli organi­smi segreti rappresentati da Spiazzi e per i quali Soffiati aveva lavorato “in funzione antisovversiva”, frequentando tra l’altro “ambienti contrari” per raccogliere informazioni. Nel corso di una perquisizione gli è sequestrata una mappa della caserma americana di Camp Darby. Il pentito Digilio lo ac­cusa di essere inserito nella rete informativa americana nel Nord Est e di aver portato a Brescia l’esplosivo per la strage.
[l] Roberto Raho, nato a Treviso nel 1952, è considerato l’alter ego di Fachini sul piano politico e militare. Organizza l’evasione di Freda dal soggiorno obbligato di Catanzaro. Responsabile della struttura parami­litare veneta di CLA partecipa anche all’attività pubblica: Aleandri lo accusa di avergli fornito una borsa con dieci chili di esplosivo speciale e poi di aver procurato l’esplosivo per l’attentato alla villa dell’ono­re­vole Anselmi. Ospita per nove mesi, dal marzo al dicembre 1978 a Treviso Gilberto Cavallini e lo accom­pa­gna spesso a Roma . Sarebbe stato al corrente del progetto di attentato contro il giudice Stiz, che aveva per primo portato alla luce le attività terroristiche della cellula nera veneta e avrebbe anche partecipato ai pedinamenti. È arrestato subito dopo la sparatoria di Padova nella quale viene ferito e catturato Vale­rio Fioravanti. Imputato al processo ON bis e a quello per la strage di Bologna per costituzione di banda ar­mata e associazione sovversiva, è latitante. A Bologna, dove il pm aveva chiesto una condanna a dieci anni, se la cava con un’insufficienza di prove. Nell’estate 1997 è arrestato per favoreggiamento di Delfo Zorzi nell’inchiesta per la strage di Piazza Fontana.
[li] La strage Editori riuniti, p. 205
[lii] Amico intimo di Vinciguerra, lavoravano nella stessa agenzia investigativa, viene descritto dall’autore della strage di Peteano – in “Ergastolo per la libertà” - come un esemplare tipico del doppiogiochismo neofascista: «Fu Cesare Turco a prestarmi 100mila lire per recarmi in Sppagna e fu l'ultima volta che ebbi modo di parlarci, dopo non ci saremmo più incontrati. Anche con lui ci conoscevamo da almeno dieci anni, nel corso dei quali avevamo condiviso la quotidiana attività politica in Friuli. Dopo era andato all' università di Roma e aveva cominciato a frequentare i PS, gli Zorzi, i Fachini, aveva imparato a ingannare, a fingere e a diffamare. Era andato in Spagna e aveva conosciuto Stefano Delle Chiaie, al quale aveva chiesto di iscriversi ad AN, ma era tornato dicendone peste e corna. Ci salutammo alla stazione Termini e mi disse che da quel giorno avrebbe accettato solo i consigli di Fachini e di Zorzi, uno lavorava per il SID, l' altro per il ministero degli Interni». Anche Cicuttini si era appoggiato a lui nel tragitto di fuga verso la Spagna (e sarà perciò condannato per favoreggiamento nel processo per la strage di Peteano). A suo modo fedele all’amico, nei primi mesi del ‘73 aveva informato Vinciguerra che la Finanza aveva inviato una nota al Sid e agli Affari riservati in cui gli era attribuita la responsabilità di Peteano e di Ronchi. In altra occasione, nei primi mesu del ‘74 gli indica Zorzi come persona legata ad un altissimo funzionario del Viminale. La sera prima del blitz di via Sartorio si incontra con Fachini.
[liii] Ordinovista triestino, aiuta Gabriele Forziati, ricercato dal giudice Stiz, a scappare in Spagna. E’ a sua volta indagato e prosciolto per la bomba alla scuola slovena. Nel settembre 1982 è arrestato con Maggi per l’inchiesta su ordine nuovo veneto e un traffico di armi
[liv] Manlio Portolan è il responsabile di ON a Trieste ma risulterà poi anche candidato a Gladio. Nel marzo 1970 è invitato alla prima riunione di bilancio dei rautiani sul rientro nel Msi. Avrebbe partecipato all'organizzazione di attentati ai treni contro la visita di Tito in Italia nel marzo 1971: Vinciguerra riferisce che, alcuni giorni dopo la campagna, nella sede mestrina di On, gli avrebbe illustrato le modalità di preparazione e di posizionamento degli ordigni per procurare il taglio delle traversine e la rottura dei binari. Da una sua confidenza a Gabriele Forziati, un altro ordinovista coinvolto nelle trame nere, nasce la voce sulla responsabilità di Zorzi e Siciliano per la bomba alla scuola slovena di Trieste, dove lavorava l' ex moglie di Forziati, un attentato minore che ora è ritenuto preparatorio della strage di Milano.
[lv] Ordinovista mestrino, è tra i quadri rautiani convocato al primo attivo nazionale dopo la confluenza nel Msi. Con i giudici ammette di aver mantenuto contatti con gli ambienti ordinovisti veneziani ma anche con alte gerarchie militari.
[lvi] Aldo Trinco era ancora minorenne all’epoca di piazza Fontana. Componente del gruppo di AR, è impiegato nella libreria Ezzelino. Arrestato il 13 aprile 1971 per associazione sovversiva con Freda e Ventura e colpito a maggio da un nuovo mandato di cattura ma a luglio escono tutti e tre  in libertà provvisoria. Nell'aprile ‘73  è arrestato per il lancio di molotov alla sinagoga di Padova. L’assalto segue di pochi giorni l'assemblea nella sede del Fronte monarchico giovanile di Padova con esponenti di An, On, Olp per lanciare iniziative in difesa di Freda. Vinciguerra lo accusa di aver funzionato da agente di collegamento con Fachini per la fuga in Spagna di Carlo Ciccutini e di avergli perciò confidato le proprie responsabilità per Peteano pochi mesi dopo il fatto (e lui ne avrebbe informato il Sid). Trinco a sua volta  gli avrebbe rivelato il ruolo del gruppo padovano per la strage di Milano. In un interrogatorio dell’85 Trinco ammette i rapporti con Vinciguerra ma smentisce le confidenze compromettenti: lo aveva anzi richiamato alla priorità di un'azione metapolitica, riferendosi espressamente al pensiero di Evola e di Guenon.
[lvii] Gianadelio Maletti, già numero 2 del Sid, protagonista di innumerevoli misteri di Italia, è passato alla storia come capo del famigerato ufficio D – difesa interna del Sid – in pratica il numero due del servizio segreto, protagonista di un durissimo scontro di potere con il suo diretto superiore, il generale Vito Micelli. Figlio di un eroe della guerra d’Africa, Maletti è addetto militare in Grecia all’epoca del golpe. Entra al Sid dopo la strage di piazza Fontana ma si impegnerà ad assicurare assistenza a molti degli indagati, da Pozzan a Giannettini. Lo stretto rapporto con il capitano Labruna (vedi nota n. 39) gli sarà fatale: dall’arretso nel ‘76 per il favoreggiamento per la strage di Milano alla condanna, nel marzo 1996,  a 14 anni di carcere per il dossier “Mi.fo.biali”. E’ rifugiato da quindici anni in Sudafrica, dove ha assunto la cittadinanza.

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