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La grande lezione di Brescia: un processo non può darti la verità su un fatto

Le motivazioni della sentenza per la strage di Brescia confermano la grande lezione dell'avvocato che mi ha fatto vincere tutte le cause che ho dovuto affrontare nel corso della mia attività giornalistica, il mai abbastanza compianto Tommaso Sorrentino: i grandi processi si vincono (e si perdono) sul rito, non nel merito. E così una Corte composta da magistrati civili (nel senso di "non militarizzati") di fronte all'evidente schizofrenia nell'acquisizione delle prove legata a problemi procedurali e all'inattendibilità complessiva dei pentiti non può che fermarsi e affermare un concetto fondamentale per la nostra civiltà giuridica:«Le attese di chi pretende di ricevere dal processo l'accertamento della verità su un determinato avvenimento non può che restare delusa, potendo al più il processo ricostruire una verità processuale per ogni imputato del medesimo reato, a seconda degli elementi utilizzabili nei suoi confronti. In sostanza il processo penale non serve a stabilire la verità su un accadimento (costituente evidentemente reato), ma solo a stabilire se nei confronti di un determinato soggetto, in base alle regole processuali vigenti all'epoca del procedimento quell'avvenimento si sia realizzato e lo abbia visti coinvolto al punto da potersene attribuire la responsabilità».



«Ecco perché la Strage resta senza colpevoli»


IL VERDETTO. In 435 pagine le valutazioni che hanno portato all'assoluzione di novembre. Per i giudici della corte d'assise di Brescia non ci sono prove sufficienti a carico dei 5 imputati e i due collaboratori sono del tutto inattendibili
Wilma Petenzi (Bresciaoggi) 17/02/2011

Brescia. Dichiarazioni dei collaboratori assolutamente inattendibili, nessuna prova concreta, troppe bombe e nessun riferimento riconducibile alla strage di Brescia nemmeno nelle veline della Fonte Tritone.
È questo, in estrema sintesi, il contenuto delle motivazioni della sentenza di assoluzione del processo sulla strage di piazza della Loggia. È questo il motivo che ha spinto i giudici della corte d'assise ad assolvere, con forma dubitativa. Delfo Zorzi (accusato di aver procurato l'esplosivo), Carlo Maria Maggi (considerato il regista), Maurizio Tramonte (accusato di aver partecipato alla riunione organizzativa della strage), Francesco Delfino (accusato di non aver fatto nulla per impedire l'attentato). Per Pino Rauti, quinto imputato nel processo, la stessa accusa aveva chiesto l'assoluzione. Le motivazioni della sentenza sulla strage del 28 maggio 1974, costata la vita di otto persone, e il ferimento di altre 103, sono state depositate l'altra sera, al termine dei 90 giorni richiesti dalla corte. Le argomentazioni, firmate dal presidente della corte d'assise Enrico Fischetti, estese dal giudice a latere Antonio Minervini, riempiono 435 pagine.
LA SENTENZA, che ha raccolto le reazioni negative delle massime autorità cittadine e dei rappresentanti legali delle parti civili che non premia una inchiesta durata sedici anni tendente a dimostrare la responsabilità di Ordine Nuovo con la collaborazione dei servizi segreti deviati, spiega fin dalle prime pagine i motivi della decisione. I giudici, in sostanza, hanno dovuto fare i conti con dichiarazioni che non hanno potuto essere acquisite al processo mancando il consenso di tutti gli imputati, così come non è stata consentita l'acquisizione integrale dei precedenti procedimenti sia sulla strage di Brescia che di piazza Fontana. Con la conseguenza che «i risultati, in termini di ricostruzione del fatto - scrivono i giudici - appaiono potenzialmente schizofrenici».
«Le attese di chi pretende di ricevere dal processo l'accertamento della verità - si legge nelle motivazioni - su un determinato avvenimento non può che restare delusa, potendo al più il processo ricostruire una verità processuale per ogni imputato del medesimo reato, a seconda degli elementi utilizzabili nei suoi confronti. In sostanza il processo penale non serve a stabilire la verità su un accadimento (costituente evidentemente reato), ma solo a stabilire se nei confronti di un determinato soggetto, in base alle regole processuali vigenti all'epoca del procedimento quell'avvenimento si sia realizzato e lo abbia visti coinvolto al punto da potersene attribuire la responsabilità».
La sentenza è motivata partendo dall'analisi della colonna portante dell'accusa: Carlo Digilio, collaboratore e coimputato di strage, morto nel 2005. Digilio è stato valorizzato dall'accusa che non ha potuto fare affidamento sulle dichiarazioni rese da Tramonte perchè inutilizzabili nei confronti degli altri imputati, ma la scelta, benchè necessaria, non è stata vincente. I giudici hanno concluso per l'assoluta inattendibilità sia di Digilio che di Maurizio Tramonte.
Non sono state trovate tracce di prove, per i giudici, nemmeno nelle veline del Sid, gli appunti presi dal maresciallo Fulvio Felli che nel '74 era il referente di Maurizio Tramonte, informatore del servizio segreto con il nome in codice di «Fonte Tritone». Per i giudici il contenuto delle veline non può costituire fonte di responsabilità per gli imputati. E per i giudici sono troppe le bombe: quattro che prenderebbero strade diverse. Ora la palla passa alla procura e alle parti civili: ci sono 45 giorni di tempo per chiedere l'appello.

1 commento:

  1. Un'altra strage di stato con manovalanza fascista impunita, ma conosciamo tutti la verità politica!

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