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A proposito del tirannicidio: dalla tragedia di Moro alla farsa di Berlusconi

Nelle scorse settimane, nel fuoco della polemica intorno a Cesare Battisti, mi è capitato di definire l'omicidio Moro un tirannicidio. Poiché mi continuano a rimbalzare improperi (vedi "Andrea" sul blog di Alessandra Colla) è forse il caso di chiarire i termini della questione. Io non ho mai inteso definire "tiranno" Aldo Moro: la mia, la nostra opposizione  frontale al progetto brigatista si fondava proprio sulla convinzione che lo Stato fosse senza cuore, che il dominio fosse un dispositivo e non il prodotto di un'ipertrofia del "soggetto forte". Quello era, invece, proprio dal punto di vista degli autori, il delitto politico per eccellenza
 Checché ne pensi qualche amico affezionato io non ho adeguati strumenti teorici e dottrinari, avendo compiuto studi filosofici disordinati e saltuari e quindi ricorro a chi recentemente ha saputo, con bella sintesi, definire perfettamente  questa contrapposizione, all'interno della prospettiva rivoluzionaria: 

Fin da piccoli abbiamo imparato che gli albori della modernità sono stati attraversati da uno scontro molto aspro all'interno della prospettiva rivoluzionaria. Il tirannicidio da una parte, il potere costituente e il diritto di resistenza dall'altra.
Due modi assolutamente contrapposti di intendere il potere e di praticare la trasformazione: nel primo caso il potere ha un valore divino, è un oggetto, da prendere o da conquistare, da abbattere (fisicamente) o da sostituire; nel secondo caso il potere è un rapporto e dunque si tratta di agire dentro la molteplicità e la contingenza di questa tensione, non c'è mai un'ultima parola, semmai ci si trova sempre «nel mezzo» di un processo costituente che continuamente riapre la dinamica normativa e costituzionale. Mistificare la natura relazionale del potere, mettere al bando o eclissare la potenza costituente (rivoluzionaria) che definisce gli ordinamenti democratici moderni è da sempre il compito dello Stato e della sovranità.
Questa alternativa, assolutamente decisiva tra la fine del XVI e il XVII secolo, si è ripresentata più e più volte, anche nella nostra recente storia nazionale, con tratti drammatici. Ed è marxianamente che possiamo affermare che ciò che nel passato ha avuto le caratteristiche della tragedia oggi si riqualifica attraverso le vesti della farsa. 
Il taglio di Francesco Raparelli è un po' troppo negriano per i miei gusti, ma come prima approssimazione va più che bene. E' notevole poi l'assoluta attualità del riferimento. Il testo risale a 13 mesi fa, all'epoca del ferimento di Berlusconi a piazza Duomo, ma il ragionamento funziona ancora perfettamente:
Farsesco il dibattito politico che si è determinato in questi giorni al seguito del ferimento di Silvio Berlusconi.
Da una parte chi insiste, al seguito del successo del No B-Day, sul carattere mafioso e dispotico del potere berlusconiano: e di fronte al tiranno e allo stragista il popolo non insorge, figurarsi, piuttosto si tinge di viola e chiede prigioni e magistratura. Dall'altra la maggioranza, convinta che il clima d'odio nei confronti del premier sia il brodo di coltura dove nuove mani possono armarsi, sferra il suo attacco “cinese” al web e ai social network e, guarda caso, al diritto di manifestare e fare cortei. D'altronde era stata proprio la Gelmini ‒ vicina a Berlusconi al momento dei fatti in piazza Duomo ‒ a mettere sullo stesso piano il gesto di Tartaglia e le cariche subite dagli studenti a Roma e a Torino venerdì 11 e a Milano sabato 12. Stesso clima, stesso odio, stesso disordine, poco importa chi fa cosa e come lo fa, con quale discorso, a partire da quali pretese.
E quindi Maroni passa all'attacco e dice che ci vuole un decreto legge per regolamentare o impedire tanto i cortei, quanto l'uso del web. De Corato, in consonanza con la Gelmini, condanna centri sociali e studenti, tutti, Corriere della sera in testa, chiedono la distensione del clima politico. Quali sono i confini di questa distensione non ci è ancora dato sapere. Le parole di Chicchitto e il disappunto di Fini ieri in parlamento ci confermano che lo scontro istituzionale in Italia è tutt'altro che sopito.
La questione, però, è un'altra: è possibile che l'asperità dello scontro istituzionale e dei suoi corollari farseschi in “salsa tirannicida” siano una potente dissimulazione e neutralizzazione del conflitto sociale in questo paese e dentro la crisi economica globale? Raccogliendo pazientemente i fatti di questi giorni il sospetto si fa via via più persistente. Soprattutto se ci ricordiamo che le cariche di venerdì contro la manifestazione nazionale degli studenti e dei precari sono state determinate dal divieto di manifestare imposto dal nuovo protocollo, proposto da Alemanno e dal prefetto e siglato da Cisl, Uil, Ugl, Pdl e La destra. Non stupisce allora che Alemanno, dopo le prime dichiarazioni di Maroni, si sia sentito precursore e avanguardia di un processo politico che vuole mettere al bando tanto il conflitto, quanto, con esso, la democrazia.
Impressionante, no?

3 commenti:

  1. Purtroppo, caro Tassinari, tutto ciò non chiarisce nulla. La nebbia, fatta entrare per decenni nella testa, non si alza nemmeno con il vento. Siete stati soreliani (da sinistra) senza, peraltro, avere mai letto Sorel.

    Molto cordialmente.

    Andrea

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  2. A me serviva soltanto chiarire che io non ho mai pensato che in Italia esiste il Tiranno. Né negli anni Settanta. Né oggi. Per il resto hai ragione: eravamo soreliani senza capirlo (e aggiungerebbe Maurice Bignami anche un po' fascisti rossi...)

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  3. Mi fa piacere, ma non si capiva affatto: si era indotti a pensare il contrario.
    Il fatto poi che il post-sessantotto clandestino e terrorista si sia di fatto ricongiunto idealmente ai partigiani rossi descritti da Pansa (come nel caso di Maurice Bignami, bolognese, figlio di un partigiano comunista libertino e bohémien, probabilmente colpevole di crimini atroci e rivoluzionari, poi fuggito, come tanti a Bologna, in Cecoslovacchia) dovrebbe almeno significare che il comunismo fu l'ultima filosofia della storia che sul morire, ormai estenuata, si nutrì della radicalizzazione di una generazione che ne aveva ben compreso la natura escatologica.
    Atroce fu il rifiuto di guardare la storia comunista e la storia dell'Urss.
    La responsabilità dell'operaismo, luogo di congiunzione della storia comunista (Tronti) e del socialismo di sinistra (Panzieri, Negri) è enorme, purtroppo, come il tentativo di rifondare Marx con il Marx dei "Grundrisse". Purtroppo la sinistra vive sempre di nuovi inizi, mai della sua morte e dell'elaborazione del suo lutto.
    Fascisti rossi furono, soprattutto, i partigiani comunisti: il "socialismo delle armi" che avevano in comune con i "socialisti nazionali" di Salò...

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