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Il segreto della strage di Brescia/5: il giorno che Zani me lo raccontò

Dopo qualche giorno di pausa entra nel vivo il feuilleton sul segreto della strage di Brescia.


Quando scatta l’operazione giudi­zia­ria per il gruppo di fuoco composto dagli ex detenuti milanesi, agli inizi del 1994, Zani è detenuto a Spoleto: no­nostante l’irrile­vanza delle accuse rispetto alla sua posizione giudi­ziaria (Zani ha goduto del beneficio della continua­zione tra Ordine nero, Nar e omicidio Men­nucci e quindi paghe­rebbe la rapina con uno o due mesi di carcere da sommare a due erga­stoli e più di trent’anni di reclusione) i magi­strati ordi­nano l’isola­mento. Anche l’arresto della mo­glie ri­vela accanimento, una forma di pressione per in­durlo a colla­bo­rare e a rivelare il nome dell'autore della strage di Brescia: i reati, a quindici anni dei fatti, sono destinati alla prescrizione e poi la Cogolli non è scappata neanche per la con­danna definitiva per i Nar (banda ar­mata e concorso in rapina) quando aveva ri­sparmiato il carcere solo per un sopravvenuto condono e la con­cessione del cu­mulo della pena per la precedente condanna per Terza posizione. Il capitano Giraudo ci prova comun­que: la invita a convincere Zani a raccontare quello che sa sulle stragi. La risposta di “Jeanne” è sdegnata: “Se solo sa­pessi che mio ma­rito ne sa qualcosa, lo lascerei il giorno stesso”.
Anche dopo la scarcerazione la Procura non si arrende e sospende i collo­qui tra i due coimputati. Le cose non vanno comunque mica male per Zani: lavora nella tipo­grafia del car­cere per conto di una casa edi­trice d’area ecologi­sta, che gli dovrebbe anche garantire l’accesso al “lavoro esterno”. A fine giugno si laurea brillantemente in scienze politiche e per la prima volta dopo undici anni, grazie al­l’ostinazione del Consiglio di Facoltà che si ri­fiuta di discutere la tesi in carcere, “esce”, sotto nutrita scorta. Ha completato il per­corso di osservazione e, con il sostegno del diret­tore e degli operatori sociali, può accedere ai benefici della legge Gozzini. Il giudice di sorveglianza gli concede la prima li­cenza premio per la laurea ma qualche giorno prima del permesso arriva la maz­zata: un improv­viso trasferimento al su­percarcere di Carinola, nel Casertano, provvedi­mento che in­terrompe l’iter della riabilitazione, spostando la competenza all’ufficio di sorveglianza di Santa Maria Ca­pua Vetere. La ri­chiesta - filtrano in­discrezioni dal Ministero: è l'epoca del primo governo Berlusconi - è opera della Procura di Bologna. Zani non ci sta e comincia lo sciopero della fame ad oltranza: o mi ri­portate a Spoleto - chiede - o la faccio finita. Solo la massiccia mobili­tazione di nu­merosi parlamen­tari, dal verde Ronchi al vicepresidente del Senato Maceratini, inter­rompe il gioco al massacro. Comun­que, pubblicata la tesi, Zani è ammesso al lavoro esterno. In un uf­fi­cetto messo a disposizione a Spoleto da un’organizza­zione cattolica fa il gra­fico edi­toriale per la maggiore casa editrice del New Age, impegnatissimo nella diffusione del pensiero biore­gio­nalista. Quando ottiene la libertà si trasferisce a Cesena, sede della casa editrice. Il rapporto con la Cogolli, che aveva superato tante prove durissime, non regge al logorio della vita quotidiana e si trova una nuova e più giovane compagna.
Passano gli anni e io resto in contatto “amichevole” con Zani, come tante altre mie “fonti”. Firmo anche, per qualche anno, come direttore responsabile un mensile ecologista di cui è animatore (e ci becchiamo anche una bella citazione per danni da un’industria agroalimentare altamente inquinante). Arriviamo così all’estate del 2004, quando, nel quadro del più ampio progetto di ricerca sulla destra radicale “60 anni e li dimostra”, finanziata dalla Fondazione Banco di Napoli, decido di produrre un video, “I colori del nero” che tenti di raccontare alcune sfaccettature di quel mondo. Non potendo lavorare, come mio solito, per accumulo di materiali (avrei messo capo a una sorta di “Sentieri”, una soap in quattromila puntate) né avendo una particolare fantasia e cultura del giornalismo per immagini decido di applicare un paradigma letterario: le vocali di Rimbaud che diventano colori per descrivere la realtà. La figura retorica che sottende l’idea (lo slittamento dei campi sensoriali) si chiama sinestesia. Ovviamente il verde dell’ecologia lo affido a Zani. L’intervista si svolge, senza grande fantasia, nel giardino pubblico più grande di Cesena e poi in collina, nei pressi di un piccolo cimitero.
Fabrizio non lo sa ma il video sta prendendo, senza che io me ne sia ancora reso conto, una traiettoria unitaria del fascismo come religione della morte. Lui ci mette molto di suo, restituendo un’immagine cupa del mondo a venire, con tante Chernobyl e un futuro di catastrofe immanente dietro la prima curva dello spazio tempo. Descrizione che fa a cazzotti con l’incanto degli spazi aperti e dell’incanto bucolico della collina romagnola. Ovviamente nelle pause di registrazione – l’operatore ha fatto scuola di cinema ed è assai pignolo sui preparativi – cazzeggiamo. Con Zani, come con altri che dall’ambiente neofascista si sono variamente distaccati (per tornare a casa, per passare all’estrema sinistra) finisce sempre che siano loro a rinfacciarmi, paradossalmente, l’eccesso di frequentazioni di un “cattivo ambiente”. Tocca così a me dargli notizie fresche di questo e quell’altro amico di cui ha perso le tracce (“ah, sì, quello è morto, mi dispiace”) e ottenere in cambio informazioni “storiche”, per me sempre preziose. Lo informo così che in contemporanea al video sto lavorando a un libro sullo spontaneismo armato di destra che nell’impianto deve qualcosa alla sua lettura di quegli anni: il conflitto cioè tra la spinta libertaria e sovversiva di detenuti “convertiti” al nuovo verbo rivoluzionario uniti a giovani “energumeni” e le grandi manovre dei “gruppi” extraparlamentari storici subalterni e funzionali alle trame del potere democristiano e atlantista. Quando gli spiego che intendo concludere il libro con la morte di Pierluigi Pagliai (“Sarà stato anche un cattivo soggetto, se sono vere le accuse di partecipazione al narcotraffico e a torture di oppositori in Bolivia, ma bisognerà pur raccontare che è stato vittima di un’esecuzione sommaria”) mi offre una chicca preziosa, un autentico scoop: “Ma lo sai che è stato lui l’autore della strage di Brescia”. Non gli chiedo nulla: ho imparato con gli anni che il silenzio può servire più di cento domande. So che la strage di Brescia è stata una storia che gli ha avvelenato l’esistenza e gli è anche pesata sul piano umano. Se ha qualche cosa da aggiungere e lo vuole fare io sto là. Ma la cosa finisce con quel semplice cazzotto allo stomaco. Una notizia esplosiva, è il caso di dire, ma non verificabile, anzi con un aspetto deontologicamente odioso. Un morto non si può difendere. Ed è una vecchia prassi malavitosa caricare a chi non c’è più il peso di crimini che potrebbero essere messi in conto ai vivi.
In fondo ha ragione “Marzio” su Vivamafarka: dall’antica esperienza militante ho conservato qualche traccia di mentalità “coatta”. Così tra la certezza che un’accusa incontestabile (e senza riscontri) è una cosa brutta e il dubbio che Zani non sia un testimone asettico ma parte in causa e diretto interessato alla vicenda giudiziaria   (Pagliai era militante della “Fenice”, il gruppo responsabile della mancata strage al treno dell’aprile 1973 mentre le indagini si erano orientate verso Ordine nero, la banda di cui facevano parte Zani e Ferri) decido di non scriverne niente. E mi perdo un grande scoop. (5-continua)

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