Una storia (non inutile) di ingiustizia dietro le ragioni di un sì
(umt) Alessandro Smerilli è uno dei rari collaboratori superstiti di questo blog e ci incrociamo spesso anche su Facebook. Ha avuto modo di seguire gli interventi sulle mie oscillazioni elettorali in vista del referendum sulla giustizia (tra il sì per la sostanza della separazione delle carriere e il no per le implicazioni politiche del voto). Lui invece non ha dubbi e me lo ha spiegato talmente bene da chiedergli il permesso di rendere note le sue ragioni ...
Sono favorevolissimo alla separazione delle carriere. Per fatto personale. Ho subito da innocente una condanna penale, mite ma pur sempre una condanna, e non l'ho mai mandata giù. Essere condannati innocenti è una cosa che non passa. Ricordo che in aula, in attesa della sentenza, un anziano avvocato capitatomi casualmente a fianco, a me che ero ragionevolmente convinto del buon esito del chiarimento dei fatti peraltro chiarissimi, sussurrò con un viso che esprimeva perplessità “il giudice dovrebbe avere la forza di ribaltare la ricostruzione del pubblico ministero”. Da come si stringeva nelle spalle capii che lo riteneva improbabile. Ebbe ragione. Il pm e il giudice si davano del tu e trattavano con gentilezza gli avvocati della difesa dando loro del lei.
In seguito il pubblico ministero che aveva chiesto e ottenuto la mia condanna si stancò di fare il pubblico ministero e si mise a fare il giudice. Nel tribunale della stessa città. Lo so, oggi non potrebbe più farlo. Comunque lui lo fece e lo avrei ritrovato con la sua brava toga a giudicarmi se fossi incappato in qualche altra disavventura giudiziaria. Per fortuna è andato in pensione prima che l’eventualità potesse verificarsi. Tuttavia rimango favorevolissimo alla separazione tra magistrati inquirenti e magistrati giudicanti, compresi i loro consigli superiori e voterò sì al referendum. E manderò al diavolo quelli che in buona o in malafede cianceranno di condizionamenti o subordinazione dei pm all’esecutivo.
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PS. La storiella che ho appena raccontato è vecchissima,
risale al 1976. Si riferiva a un’aggressione di tre anni prima, nel 1973, (è la
mia versione, ma è quella vera) su cui
la Procura stava istruendo un processo per “rissa”. Passò
un anno da quel fatto e Il 28 maggio 1974 esplose il cestino dei rifiuti di
piazza della Loggia a Brescia. Seguì la sparatoria di pian del Rascino nella
quale rimase sul terreno uno dei capi di Ordine nero, Giancarlo Esposti.
Un altro dei capi del gruppo terroristico, quello che aveva organizzato la permanenza di Esposti in Abruzzo, fu convocato da un capitano dei carabinieri che si chiamava Giancarlo D’Ovidio ed era il braccio destro dell’allora colonnello Gianadelio Maletti, capo dell’ufficio D del Sid, il servizio segreto militare, per i meriti guadagnati nell’apprestamento del finto arsenale di Camerino.
Il capitano del Sid casualmente era figlio del Procuratore
capo della repubblica del luogo. Convinse il capo di Ordine nero a fuggire
prospettandogli un imminente mandato di cattura per reati gravissimi connessi
alla strage di Brescia. In realtà il Sid aveva interesse a sopire e troncare le
indagini sulla strage inventandosi semmai
un colpevole tra i balordi locali, come difatti avvenne. Qualcuno di
loro finì ammazzato in carcere e sul suo assassinio molti anni dopo Franco
Freda, il “priore” dell’eversione nera, si lasciò sfuggire alcune ammissioni significative
Il mandato di arresto rivelato in anticipo dall’agente del Sid al capo di Ordine nero fu effettivamente spiccato ma non per reati connessi alla strage bensì con il pretesto meschino della “𝙧𝙞𝙨𝙨𝙖” dell'anno prima. Il terrorista che nel frattempo era fuggito all’estero si sentì preso in giro e fece giungere agli inquirenti di Rieti che indagavano su pian del Rascino, tramite una perquisizione pilotata nello studio del suo avvocato, che era casualmente un ispettore federale del Msi, una lettera autografa (priva di busta e di timbro di spedizione) in cui per la prima volta, sia pure con linguaggio allusivo e vagamente ricattatorio vennero allo scoperto i legami suoi e dunque di Ordine nero con la linea di comando del Sid che portava direttamente al capo dell’ufficio D, Gianadelio Maletti. Del quale D’Ovidio rimase fedelissimo fino alla fine. Fu il 𝙥𝙧𝙞𝙢𝙤 𝙥𝙖𝙨𝙨𝙤 di un percorso estenuante che portò dopo molti decenni al raggiungimento della cosiddetta verità giudiziaria sulla strage di Brescia conseguita con la riapertura del processo per il ritrovamento delle informative di Tramonte, manco a dirlo, al Sid.
Una lettera agli atti
Almeno la mia “rissa” è servita a qualcosa ma non mi basta,
voglio la separazione delle carriere e due CSM distinti.





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