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Bruno Di Luia story ovvero la continuità del tipo umano squadrista


di Giacinto Reale 

Ho “conosciuto” Bruno Di Luia una cinquantina di anni fa, alla prima lettura de “La strage di Stato”, dove lui e il fratello Serafino erano sprezzantemente definiti (credo di ben ricordare, il libro chissà dove è finito) “netturbini romani” –e non era neppure vero, anche se la cosa mi incuriosì non poco- , con l’aggravante di essere pericolosi neofascisti agli ordini di Stefano Delle Chiaie.
Negli anni successivi, dopo averne visto una foto su un giornale, mi sono divertito a cercarlo in una serie infinita di film (in massima parte “poliziotteschi”), nei quali la sua bella faccia da “duro” e l’atleticità del giocatore di rugby gli consentivano di fare la sua figura. Spesso insieme ad altri Avanguardisti, tra i quali quel Tonino Fiore che era stato “mito” della mia giovinezza barese.

 
Poi, finalmente, qualche anno fa, al termine di un lungo girovagare per l’Italia, per motivi professionali, ho avuto modo di conoscerlo di persona, a Roma, prima alle commemorazioni di Acca Larentia, e poi ai funerali di Delle Chiaie, laddove il suo “Presente” segnava il momento culminante delle cerimonie.
Senza che nessuno ci avesse presentato, in quelle occasioni ci siamo scambiati un istintivo, cordiale (si può dire “cameratesco” ?) saluto, accompagnato, da parte sua, da un sorriso che non so definire diversamente che “alla Belmondo”, per la somiglianza fisica e di atteggiamenti che mi è sempre parso di riscontrare tra il “fascista d’azione” romano e l’attore francese.
La stessa cosa mi era accaduta con Teodoro Buontempo, a fianco del quale mi ero trovato in un paio di occasioni, nella prima fila di –pacifici- cortei. Dopo la prima, ogni volta che mi vedeva, senza sapere chi fossi, mi diceva: “Che fai? Perché non passi a trovarmi in Federazione?”
Sarei tentato di dire che, pur nella diversità di caratteri, temperamenti, esperienze, tra “simili” c’è una sorta di istintivo “riconoscimento”, per ciò che unisce, aldilà delle contingenze.
Certo, “Brunetto”, come affettuosamente lo chiamano amici e camerati, è, in misura imparagonabile alla mia, come ho detto, un “fascista d’azione”, come amavano definirsi gli uomini dello squadrismo, in voluta contrapposizione ai “fascisti di seminario”, impietosa definizione destinata ai meno “irruenti” da Farinacci al Congresso di Roma del novembre del 1921.
E’ curioso come la lettura di questo libro mi confermi nella convinzione che ci sia, nel tempo, e pure a distanza di tanti anni, un “tipo” umano che si può definire “fascista”.....che se forse non è nemmeno dominante (io, p es, mi ci riconosco, ma con qualche limite), è certamente quello più caratteristico.....e, cmq, veramente “unico”.

Non sono un appassionato di biografie di “uomini di mano” dell’altra parte, ma quelle che ho letto mi hanno sempre mostrato tipi seri, ai limiti della tetraggine, convinti di compiere un dovere, verso il Partito e il proletariato (mondiale) che in niente cedono alla fantasia e all’improvvisazione.....per non dire alla fascistissima goliardia vera e propria (Lyttelton p es ha parlato di azioni squadriste che “assomigliano ad un’estensione di quei fenomeni di sospensione dei normali freni disciplinari che erano propri del carnevale studentesco, della festa della matricola”).

Essenziali in questo idealtipo ”nero” sono l’indifferenza ai rischi (leggere, nella quarta di copertina delle ventuno carcerazioni politiche di Di Luia è un duro colpo alla personale autostima di chi è stato, in anni lontani, modesto attivista di periferia), il coraggio fisico, il disprezzo del pericolo, la fedeltà al Capo che si è scelto, e –nei casi estremi- la noncuranza di fronte alla morte: “Andate a cagare, siete solo dei vigliacchi. Viva il Duce! Femm dumà prest! (Fate solamente presto!) saranno le ultime parole di Franco Colombo, l’ex squadrista, Comandante della “Muti” in RSI, di fronte al plotone di esecuzione.

Vi sono poi una serie di altri piccoli caratteri distintivi che, anch’essi, si tramandano “istintivamente” nel tempo. Vi faccio due esempi (ma altri ce ne sarebbero), in un racconto parallelo tra le pagine di Secly e quelle di “Diario di uno squadrista fascista” di Mario Piazzesi e di “Squadrismo” di Roberto Farinacci, due classici della letteratura di quello squadrismo che, nella definizione defeliciana, resta il “vero” fascismo:

-IL GUSTO DELLA “NARRAZIONE”:

(Secli): ”a serata finita.....arrivava il momento di Brunetto.....deve aver ripetuto così spesso quella parte, che è diventato meglio di una rivista di cabaret.
Claudio e Bruno sono stati due bravi rugbysti, insieme hanno fatto dei viaggi infiniti, trasformati tutti in avventurosi episodi, e ogni volta che Claudio si preparava a raccontare.....si percepiva la gioia nella quale si stava catapultando tramite quei racconti dei quali è tesoriere di memoria.....Bruno pungolava ancora e ancora, chiedendo altri ricordi, perché non si arrivasse mai alla fine di quel fascio di luce che lo proiettava, protagonista assoluto della serata”

(Piazzesi): “poiché l’Avanti ci ha indicato “dei sanguinari demoni scatenati, ebbri di strage e di sangue”, nessuna meraviglia se si passa tronfi, si metta un’aria di superiorità con quelli delle altre squadre, e al caffè del Biffi e del Gambrinus alla sera si debbano ripetere sino a noia, le varie fasi dei conflitti.
Pollione e Renzaccio ne hanno fatto una vera e propria speculazione, e siccome l’industria è redditizia, ogni giorno ti inventano di sana pianta nuovi particolari, e arrivano a poco a poco, a fare delle loro gesta un interminabile fumoso romanzo di appendice, che esce in redditizie giornaliere puntate, a base di laute cene”.

IL NUMERO NON CONTA

(Secli): “era un giorno di primavera, la nostra squadra aveva giocato in trasferta nei pressi di Padova.....stavamo tornando....ma di fronte al nostro treno, sulla banchina, si stava svolgendo una manifestazione con sventolio di bandiere rosse ed energumeni in eschimo.
E’ bastata la prima strattonata della carrozza, il primo movimento del treno, a far scattare Brunetto in piedi e andare verso il finestrino, non ce la faceva più a stare in silenzio, doveva per forza dire qualcosa. Tirandosi con metà corpo fuori dal finestrino, verso la banchina colma di manifestanti barbuti, alzando la voce fino ad urlare, ha detto: “Dite a tutti che il camerata Bruno di Luia sta partendo per Roma”. E, con il braccio teso: “Saluto al duce!”
.....(di fronte ad un inizio di reazione dei manifestanti) “a questo punto, Bruno che per incoscienza e coraggio non ha paura di niente, è saltato giù dal treno.....e ha trascinato un paio di noi a saltare giù con lui in quel momento. Nell’averci visto così atletici da saltare con quella determinazione, si sono tutti fermati, credo perché avranno pensato che avremmo potuto essere armati, non so, solo tre pazzi potevano scendere contro così tanti avversari, saranno pericolosi, avranno pensato. Il capo-treno ha intuito a volo la concitazione e il pericolo del momento e ha pensato di salvarci, ha dato verde al treno, ci ha sbattuti proprio di peso dentro il vagone, e ha fatto partire il convoglio”.

(Farinacci): “dopo qualche giorno giungono da Grotta d’Adda due fascisti, i quali, allarmati, mi raccontano che il Segretario è stato pugnalato e che i socialisti sono padroni del paese.
.....Non perdo tempo. Con l’automobile di Filippo Sperlari, accompagnato anche dal Comandante delle squadre Grisi, mi porto velocemente sul posto. La piazza è gremita. Non ci preoccupiamo di essere solo in tre: fermiamo l’automobile, discendiamo e ci scaraventiamo contro la folla menando nerbate all’impazzata. Ci prendono più per tre pazzi che per tre fascisti, ma il risultato è miracoloso: avviene il fuggi fuggi generale”.

L’impressione, comune, è che si tratti di situazioni e uomini e che appartengono al secolo scorso, in piena condivisione di miti letterari che hanno plasmato intere generazioni. “Troppo Salgari” rimproverava il padre al diciassettenne Piazzesi, squadrista de “La Disperata” fiorentina, che gli raccontava le sue avventure. E non esagero se dico che il segno dello scrittore asserragliato in Corso Casale, c’è anche in questo libro.
Come quando, novello Yanez, Bunetto se ne va solo soletto in Calabria, a risolvere di persona il problema insorto con un boss locale, ma trasferito nella Capitale, il cui fratello aveva “massaggiato” dopo essere stato aggredito in seguito a un diverbio stradale.
La promessa di vendetta e minacciose ronde di uomini armati nei pressi di casa lo convincono ad una trasferta per un colloquio chiarificatore con il “boss dei boss”. Finisce che quattro macchine cariche di uomini lo riaccompagnano a Roma, e lì......il resto lo trovate nel libro

Luigi Seclì, Bruno di Luia il nero, Amazon 2021, pagg. 238, euro 13,52)

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