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Robbie Robertson, il generale Lee e “Gone with the wind”. La storia vista dalla parte sbagliata



La notte che misero in ginocchio il vecchio sud, e le campane suonavano / 
La notte che misero in ginocchio il vecchio sud, e la gente cantava”.
Demolire le statue mentali del politicamente corretto è oggi impresa assai ardua, mancando un Pasolini, un Flaiano, insomma una di quelle voci autorevoli che pure avevamo, ed altrove non resistendo che pochi avamposti (il Bret Eston Ellis di “Bianco” e poco altro). 
Da tempo la sinistra, non solo quella radicale, ha riposto in soffitta la riappropriazione di radici, storie popolari, identità nazionali, col timore di essere troppo eurocentrica ed acritica verso la cultura dei bianchi, il canone. 
Non è stato sempre così, perfino tra i radicali neri americani. 
Christopher Lasch ricorda che formidabile strumento per la formazione di tanti intellettuali di colore sia stato lo studio di pilastri della cultura bianca occidentale. 
"Gli schiavisti temevano che l'accesso alla grande cultura euro-americana avrebbe dato agli schiavi il gusto della libertà. Il caso di Frederick Douglass (o quello di W.E.B. DuBois, di Langston Hughes, Richard Wright, Ralph Ellison, Harold Cruse ed altri intellettuali neri) dimostra che quelle paure non erano ingiustificate. Douglass, nella sua autobiografia, ricorda di aver cominciato a studiare l'arte della retorica dopo aver letto di uno schiavo che aveva perorato la causa della sua libertà con tanta eloquenza da persuadere il padrone. Di conseguenza si era immerso nella lettura dei maestri riconosciuti dell'oratoria inglese del diciassettesimo secolo: Pitt, Sheridan, Burke e Fox. "La lettura di quei discorsi - scrive - migliorò molto le mie limitate capacità di linguaggio e mi diede la possibilità di dar voce a molti pensieri interessanti che in precedenza erano balenati nella mia anima ma si erano spenti per difetto di articolazione". Oggi quegli stessi discorsi sarebbero considerati oggetto di uno studio inappropriato per i neri, in quanto parte di un odioso canone oppressivo (anche se in effetti dal canone sono stati esclusi da molto tempo) la cui perpetuazione serve a puntellare l'imperialismo culturale dei maschi bianchi" (Christopher Lasch, La ribellione delle elite, 1995) 
Ci ha molto colpito, nelle ultime ore, Alessandro Portelli che su Il manifesto dice di rimpiangere di non avere una gru per andare a smantellare tutti i blocchi di travertino che celebrano a Roma le imprese del fascismo, per poi sostenere che vede con estremo favore la furia iconoclasta di chi protesta contro il persistente razzismo prendendo di mira le statue celebrative di personaggi della storia coloniale e dello schiavismo - cita in particolate quella del generale Robert E. Lee - disseminate su e giù per gli Stati Uniti. 
Ci chiediamo cosa sia accaduto al grande studioso che conoscevamo, quello che tanti anni fa in un bellissimo pezzo "di formazione" sulle medesime pagine asseriva non vi potesse essere l'"Altra America", quella che tutti amavamo, quella di Dylan e della beat generation, senza l’odiata America “ufficiale”, conservatrice, bellicista, reazionaria, ecc... 
Imperdonabile ci pare soprattutto che Portelli, profondo conoscitore della cultura americana e dei suoi poeti e trovatori, abbia dimenticato, a proposito del Generale Lee, il testo di quella canzone di The Band che ne parla, dove emerge che fu figura assai più complessa di ciò che oggi si addita. 
"Arrivai da Toronto, nel Delta del Mississippi e scoprii che mi piaceva il modo di parlare della gente, il modo di muoversi. Mi piaceva stare in un posto dove il ritmo si poteva sentire nell'aria. Ho pensato: "Non c'è da stupirsi che il rock'n'roll sia stato inventato qui. Tutto è così musicale... e dovevo entrare in questo mondo, come uno straniero freddo, freddo in senso letterale, dal Canada... e proprio perché non davo nulla per scontato, mi è venuto di scrivere la canzone. Questi vecchi dicevano "Sì, ma non ti preoccupare Robbie. Un giorno o l'altro il Sud risorgerà.". Non ho pensato che fosse uno scherzo. Ho pensato che fosse davvero commovente." (Robbie Robertson, da un'intervista radiofonica, 1988) 
“The night they drove old dixie down” (1969) è una canzone tra le più commoventi della storia della musica popolare americana. Ed è pregna di quel romanticismo sulla causa del sud che aveva permeato tanti anni prima il film “Gone with the wind”. 
“Dissi a Levon che desideravo scrivere un testo sulla guerra civile dal punto di vista di una famiglia del sud. “Nel testo non metterci Abraham Lincoln” fu il suo unico avvertimento. “Non gli andrebbe giù”. Gli chiesi di accompagnarmi in macchina alla biblioteca di Woodstock per fare qualche ricerca sulla Confederazione (…) Quando immaginai la storia di Virgil Caine e della sua famiglia in quel contesto storico, la canzone prese vita. Anche se mi fermavo a pensare, la passerò liscia con un pezzo del genere?” (Robbie Robertson, Testimony, 2019) 
I versi sono concentrati a proiettarci nella vicenda di Caine, un povero contadino bianco della parte confederata del Tennessee, poco più che ventenne, sopravvissuto alla guerra. Dentro c’è il ricordo di Robert E. Lee ma soprattutto la memoria del fratello dello stesso Caine. 
V’è una sua strofa della canzone che è dedicata proprio alla sua morte in guerra, "diciott'anni, fiero e impavido / ma uno yankee l'ha spedito nella tomba". 
Il punto di vista adottato è volutamente quello dei confederati, del sud, della “parte sbagliata”, ma non è un abbaglio e neppure una scelta casuale. Robertson e compagni hanno in mente anche un’altra guerra, quella dei loro anni, il Vietnam. Anche lì l’età media di feriti e morti era 19 anni. 
Anche se in effetti, “The night they drove old dixie down” “non è una canzone sulla Guerra civile quanto sul modo in cui ogni americano ha una propria visione di quell’evento dentro di sé” (Greil Marcus, Mystery Train). Una canzone che rende possibile superare gli ostacoli sulla strada dell’immedesimazione con l’altrui visione di una vicenda storica complessa. 
Nel brano fa capolino, dicevamo, anche il generale Lee, ancora oggi un idolo nel sud. Combattè la guerra dalla parte della sua gente e del blocco liberomercatista e agrario contro il nord del capitalismo industriale protezionista ed emancipazionista ma non credeva personalmente nella schiavitù e nemmeno nella secessione dall'Unione. 
Come nota il critico Peter Viney, Robert E. Lee espresse questo sentimento in una lettera del 1856 in cui scrisse che la schiavitù era un male, ma aggiunse che l’emancipazione degli schiavi sarebbe dovuta scaturire da cambiamenti graduali più che da un conflitto. 
Durante la guerra, Lee liberò parecchi schiavi della sua famiglia giungendo finanche a pensare che la guerra fosse lo strumento di Dio per porre fine alla schiavitù. Ma soprattutto, alla fine del conflitto, fu unanimemente elogiato per aver ordinato alle sue truppe di arrendersi una volta per tutte, evitando così una prolungata “guerra di guerriglia” che sarebbe potuta andare avanti per mesi e anni. 
Joan Baez reinterpretò la canzone di The Band ma, giunta alla strofa su Lee, aggiunse un "il": il generale Lee diventò un battello a vapore del Mississippi col medesimo nome (“Il Robert E. Lee”). Quel “il” non è naturalmente né negli spartiti ufficiali né nella versione originale in studio di The Band. Fu una concessione della Baez al politicamente corretto di allora, un modo per non incorrere in noie col proprio pubblico. 
In realtà, fu un travisamento del senso delle cose che Robbie e Levon, non proprio dei conservatori ma uomini “di sinistra”, incarnazione della cultura democratica più autentica e profonda, volevano venisse fuori dalla canzone. 
“Robbie e io abbiamo lavorato a "The Night They Drove Old Dixie Down" a Woodstock. Ricordo di averlo portato in biblioteca per poter fare ricerche sulla storia e la geografia dell'epoca e far uscire il generale Robert E. Lee con il dovuto rispetto” (Levon Helm, This Wheel's On Fire, 1993.) 
Ma al di là del giudizio su Lee, la canzone è anche un inno antimilitarista che fu cantato da molti di quella generazione, compresa la strofa sul generale confederato, ed è davvero curioso che oggi i figli e nipoti di costoro e perfino un fine intellettuale come Portelli se la prendano con la statua di Lee. 
Come è davvero surreale l’attacco sferrato in questi giorni ad una pellicola come “Via col vento”, che adattava per il cinema un romanzo della scrittrice di Atlanta Margareth Mitchell. 
Il film, diretto da Victor Fleming, quello di “Capitani coraggiosi”, “Joe il pilota” e “Il mago di Oz”, viene oggi giudicato razzista e comunque portatore di valori sbagliati. 
Forse si dimentica che Hattie McDaniel per la parte di Mammy fu la prima nera a vincere un Oscar mentre Clarke Gable minacciò perfino di non partecipare alla cerimonia di premiazione se non avessero permesso a Hattie di esserci, visto che nel 1940 (e fino agli anni ’60), negli Usa della democrazia contro i fascismi e poi i comunismi, erano ancora in vigore alcune norme del recente passato segregazionista. 
Ma soprattutto si è persa traccia di quanto ricorda Viney parlando della canzone di The Band e del suo nesso con il film: 
“(…) It was said that the impact of the film Gone With The Wind with its graphic depiction of the emotional and physical horrors of war, was a major factor in delaying the US entry into the Second World War. Popular art can change politics and therefore history. We're in the same territory.” (Peter Viney, The Night They Drove Old Dixie Down). 
[“(…) Si è detto che l'impatto del film Gone With The Wind con la sua rappresentazione grafica degli orrori emotivi e fisici della guerra, è stato un fattore importante nel ritardare l'ingresso degli Stati Uniti nella seconda guerra mondiale. L'arte popolare può cambiare la politica e quindi la storia. Siamo nello stesso territorio”]. 
Sta di fatto che la protesta contro il film da parte dello scrittore e sceneggiatore afroamericano John Ridley ha determinato la scelta della Hbo di ritirare la pellicola dal suo catalogo riservandosi di riproporla allegando ad essa una spiega, sotto forma di "una discussione del contesto storico". 
E torniamo alla sinistra del 2020 ed ai corifei del politicamente corretto, che difendono a spada tratta l’operazione, non censoria, dicono – certo, nessuno vuole apparire censorio nel 2020 -, ma di mera contestualizzazione. 
Qui, innanzitutto, opera in tutta evidenza la pretesa che su alcune questioni debbano essere ascoltati ed avere voce in capitolo solo quelli che quelle vicende le hanno vissute e sofferte, dunque determinate minoranze, tutti gli altri zitti, e non v’è chi non veda quanto questa pretesa sia piuttosto ricattatoria e portatrice di una concezione autistica, dove le diverse componenti di una società non parlano più tra loro ma ognuna si esprime su sé stessa e il proprio vissuto (il famoso "partire da sé", che diventa un restare a sé), in un mosaico tribale di sostanziale incomunicabilità. Non solo, essa appare una presa per i fondelli per quelle stesse minoranze che si vorrebbe risarcire. 
Tu, John Ridley, autore nero di successo, ti lamenti per quel film, io multinazionale ti assecondo perché sei nero (non in quanto autore bravo, notare il razzismo de facto), lo ritiro per poi rimetterlo in visione con "note a commento", così mi metto dalla parte dei buoni, mi sciacquo la coscienza senza grande sforzo, mentre i neri che non fanno i film (ma non solo loro) continuano ad essere accoppati per strada. A naso, diremmo che MLK non sarebbe proprio d'accordissimo. A naso. 
Senza contare che quella sulle statue da abbattere, sui nomi delle strade da cambiare, sui film e sui libri che dovrebbero essere spiegati, contiene di fondo una vera perversione. Non siamo noi che, con gli strumenti che abbiamo, principalmente la conoscenza della storia e dell'evoluzione o involuzione della morale e della cultura, dobbiamo sforzarci di capire il passato e trarne ciò che di buono può ancora offrirci ma è il passato che deve adeguarsi al nostro modo di vedere il mondo. Questo il "ragionamento". Se ci si pensa, nel mentre si camuffa da critica all'eurocentrismo, è invece profondamente colonialista, nella misura in cui può giungere ad essere applicato anche ai passati-presenti di popolazioni che consideriamo meno evolute di quelle occidentali o di isole dello stesso occidente che sono rimaste meno permeabili ai processi di modernizzazione. 
Insomma, tutto il contrario dello sguardo di profonda pietas con cui Robbie Robertson - figlio di un ebreo e di un'indiana Mohawk – coi i suoi compagni marchiò le sue migliori canzoni dell’epoca, in ossequio ad una idea di democrazia, americana e “populista” (nel senso dato al termine da C. Lasch), che rispettava il passato e la grandezza di un paese, nel nome della riappropriazione, facendovi trovare uno spazio ed un momento di riscatto per Robert E. Lee come per il common man Virgil Caine e tanti altri che potrebbero essere i nipoti più di Caine che di Lee: donne ed uomini espulsi dal mondo del lavoro, ladri, campagnoli armati di sola Bibbia, emigranti in giro per un’America non sempre accogliente, portando però sempre con sé un sentimento per la terra e le radici.
Mario Colella

Questa la replica di Sandro Portelli sulla mia pagina FacebooK:
Il Sud risorgerà" significa esattamente quello che significa: restaureremo certo non la schiavitù ma la supremazia bianca. Anche Robbie Robertson si può sbagliare. Se all'audace collega Colella questo pare commovente, ne ha tutto il diritto. Comunque: non mi risulta che nessuno stia bruciando in piazza Gone with the Wind (che nel mio articolo ho definito un capolavoro), ma che un'azienda privata stia ripensando alle modalità della sua messa in onda. A proposito: è stata o no una iconoclastica violazione della storia quando hanno rifatto il doppiaggio italiano eliminando il linguaggio "zì badrone" di Mamie, che almeno nell'originale non c'era? Eppure anche quel doppiaggio fa parte della nostra storia e cultura. Perché l'hanno eliminato? perché ritraducono Huckleberry Finn,,. per la stessa ragione?


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