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31 maggio 1972: una bomba "nera" fa strage di carabinieri

«Nei primi anni Settanta - racconta il senatore Pellegrini, già presidente della Commissione Stragi -  gli strateghi della tensione abbandonano l’opzione militare. Ma i loro soldati, la manovalanza delle reti clandestine, continuano ad aspettare una nuova chiamata alle armi e nell’attesa si mantengono attivi. Quando però qualcuno comincia a capire che la chiamata non ci sarà più, reagisce e uccide. È quel che accade nella campagna di Peteano, vicino Gorizia, dove tre carabinieri, richiamati sul posto da una telefonata anonima, muoiono nell’esplosione di una 500 imbottita di tritolo. Una trappola. Per una dozzina di anni le indagini e i procedimenti giudiziari ignorano i veri colpevoli".

" L’Arma riserva a sé le indagini - ricorda Mimmo Franzinelli - e taglia fuori sia la polizia sia i servizi segreti. L’indomani giunge da Milano il generale Palumbo, che sottrae l’inchiesta a Gorizia per affidarla al suo uomo di fiducia, il colonnello Dino Mingarelli, comandante della Legione di Udine. Mingarelli ricusa la collaborazione della questura, imbocca la pista della sinistra extraparlamentare e individua i colpevoli in alcuni militanti di Lotta continua: strategia investigativa priva di riscontri e affondata in istruttoria. Sfumata la matrice politica, il volenteroso ufficiale imbastisce quella comune e dopo alcuni mesi arresta sei malavitosi – altro teorema travolto dalle risultanze processuali.
Lotta continua sottovaluta decsiamente il fatto
I depistaggi sono agevolati dal perito balistico Marco Morin, ordinovista doc, che sostituisce l’esplosivo dell’eccidio con “innocua” dinamite di provenienza cecoslovacca. È il consueto copione inscenato dopo ogni strage: occultamento delle prove, ideazione di piste false, favoreggiamento e fuga dei colpevoli, maratona giudiziaria dagli esiti insoddisfacenti".
Soltanto nel 1984 la responsabilità dell’attentato viene confessata da Vincenzo Vinciguerra, un militante di Ordine Nuovo che, dopo essere stato latitante prima in Spagna e poi in Argentina essendosi spostato al seguito di Delle Chiaie, si è costituito nel 1979 ed è già in carcere per il dirottamento aereo di Ronchi de' Legionari. Da detenuto, dunque, Vinciguerra confessa spontaneamente l’attentato di Peteano, senza ripudiare il suo passato, rivendicando anzi con orgoglio la propria qualità di soldato politico. È processato col suo complice Carlo Cicuttini, ex segretario di una sezione missina della Valle del Natisone: al loro fianco siedono i depistatori, ovvero il sullodato Mingarelli (nel frattempo promosso generale), il colonnello dei carabinieri Antonino Chirico e alcuni loro collaboratori, cui i giudici contestano la falsificazione delle prove onde “assicurare l’impunità ai responsabili della strage”.
Il 25 giugno 1987 la Corte d’assise di Venezia infligge l’ergastolo ai due esecutori e pene dai tre ai dieci anni agli ufficiali dei carabinieri.  Vinciguerra spiega la sanguinosa imboscata di Peteano come “atto di guerra che, se il regime politico non fosse intervenuto per occultarne la matrice fascista, avrebbe potuto interrompere il processo di identificazione fra  neofascismo e istituzioni militari, in particolare i carabinieri”; in sostanza gli attentatori volevano dimostrare ai vertici dell’Arma che i veri fascisti non si lasciano strumentalizzare e colpiscono gli infidi “protettori”. Motivazioni fumose e di dubbia efficacia sul piano pratico, poiché a pagare sono un brigadiere e tre carabinieri.

IL DISPOSITIVO VINCIGUERRA

L’attentato di Peteano è uno dei rari casi in cui lo stragismo vede condannati sia il livello degli esecutori sia quello dei depistatori, con sentenza definitiva.
Del resto, a mio avviso, è proprio questo il nodo da cui si dipana il dispositivo Vinciguerra. Per analizzarlo io partirei da una recente intervista (novembre 2019) con Raffaella Fanelli, per "Estreme conseguenze". A domanda sulla strage di Peteano risponde: Era il 1972. Le indagini portarono all’incriminazione di sei innocenti. Non potevo tacere. Mi consegnai alle forze dell’ordine assumendomi la responsabilità dell’attentato". In realtà ha taciuto per dodici anni e ha confessato quando già gli innocenti se l'erano cavata da soli. La sua "assunzione di responsabilità" è, a mio giudizio, la modalità scelta in quella che ritiene ancora la sua battaglia politica da avanguardista: difendere l'onore della sua organizzazione, ingiustamente accusata di stragi. Per avere credibilità si carica il peso di una accusa di strage. Quale giudice potrà negare veridicità all'unico neofascista reo confesso del più atroce dei delitti politici?
In questa prima fase è ancora convinto di poter trascinare su questo terreno i suoi camerati. L'autobiografia del 1989 "Ergastolo per la libertà" costituisce il punto di svolta. E' il suo messaggio nella bottiglia. Il testo è ricco infatti di messaggi allusivi, di riferimenti comprensibili a chi era "nel mazzo di carte": implacabile contro i suoi vecchi camerati della rete ordinovista veneta compromessa con i network atlantici, si impegna in una distinzione tra chi ha avuto rapporti con gli apparati di sicurezza in Italia (che liquida come "neofascisti atlantici di servizi") e chi invece lo ha fatto all'estero (in Spagna, Cile e Bolivia, Avanguardia, a cui riconosce la dignità di una scelta tattica funzionale a un progetto nazionalrivoluzionario).
Il suo appello cade nel vuoto e così varca il Rubicone e comincia la sua collaborazione giudiziaria. Una collaborazione anomala, che non porterà a nessuna condanna, perché le sue sono in gran parte notizie de relato. Una collaborazione ispirata al mantra di Buscetta: come i corleonesi avevano tradito Cosa Nostra e non lui, gli infami erano i camerati al soldo degli americani e non lui, l'unico rimasto fedele agli ideali del fascismo rivoluzionario. Anche la colossale reticenza sui tempi della confessione dimostra che per comprendere il suo dispositivo più che le scienze politiche e l'antropologia criminale servono alcune categorie psicoanalitiche: la rimozione, la proiezione, il senso di colpa.
Poiché lui ha sicuramente beneficiato dei favori dei Carabinieri, che hanno accusato innocenti per garantirgli un cono d'ombra, è toccato anche a tutti i suoi sodali. Poiché ha goduto di questi favori deve espiare e l'unica modalità è rinunciare a qualsiasi beneficio. Per cui resta blindato da oramai 41 anni. Qualcuno si spingerà a dire che, come altri detenuti di lunghissimo corso avrà anche paura del "mondo di fuori", ma io non mi spingo a tanto e mi fermo qui.

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