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11 febbraio 1979: vince la rivoluzione iraniana. Tutto il potere a Khomeini

L'11 febbraio 1979, con la fuga del primo ministro Bakhtiar per il disimpegno dell'esercito, il consiglio rivoluzionario guidato dall'Ayatollah Khomeini prende il potere in Iran. Il testo che segue, che sintetizza con fervore le principali vicende della rivoluzione iraniana, è opera di Carlo Terracciano e costituisce parte di un suo più ricco contributo "I giardini di Allah", pubblicato nel volume Risguardo IV, un almanacco edito in occasione del ventennale delle Edizioni di AR. Ci sembra una coincidenza assolutamente significativa che l'11 febbraio sia anche il compleanno dell'Editore Franco "Giorgio" Freda
Quando il 30 gennaio del 1979 e.v., dopo la fuga ignominiosa di uno scià che non seppe cadere in piedi ma abbandonò gli uomini che volevano salvargli il trono dall’ira popolare, il governo fantoccio del rinnegato Bakhtiyàr cedeva alla volontà della nazione e riapriva l’aeroporto di Teheran al ritorno di Khomeini, iniziava per l’Iran, l’antica «terra degli Arii», una esaltante avventura.
Questo popolo che si differenzia dagli arabi confinanti e per la specificità sciita della sua religione e per l’appartenenza etno-storica alla grande famiglia indo-europea, si incamminava verso il suo destino di sacrificio. Proprio come un 30 gennaio di tanti anni prima altri uomini avevano preso nelle proprie mani il destino della patria oppressa e dell’intera Europa. Una comunione storica che appare ancor più evidente se solo si pensi che cosa rappresentò quella rivoluzione nazionale anche per il mondo islamico di allora, rappresentato dal Gran Muftì di Gerusalemme nelle divisioni S.S. mussulmane come nell’attesa dei liberatori antinglesi nel nordafrica. E non a caso già allora le potenze occidentali colonialiste, Gran Bretagna e U.S.A. in testa, imposero alla recalcitrante Persia lo scià Reza Pahlavi per stroncare i sentimenti filo-Asse della popolazione, come avevano abbattuto il governo iracheno di Raschid Ali.
Non a caso, ancora, gli stessi nemici e i loro servi prezzolati nel mondo lanciano al governo islamico di Teheran l’«accusa» di fascismo, di sterminare le minoranze, di antisemitismo ecc… ecc… Anche la guerra delle parole ha i suoi fronti, le sue vittorie e le sue sconfitte; accettare, da parte iraniana, la terminologia e le interpretazioni storielle dell’avversario sarebbe non solo autolesionistico ma oggettivamente una forma di collaborazionismo con il nemico.
«Non sono morti quelli che furono uccisi nel sentiero di Dio, questo dev’essere il tuo pensiero. Al contrario: essi vivono nel seno del loro Signore, non mancano di nulla» (Corano, La gente di Imràn, III, 169).
Quando il 1° febbraio del ’79 l’Ayatollà Khomeini scese dal ciclo di Teheran tra i milioni di seguaci in delirio, i quali avevano sfidato l’ennesimo coprifuoco per accoglierlo dopo quindici anni di esilio, si concluse una lunga fase rivoluzionaria, di persecuzioni e di massacri del regime, cominciata nel lontano giugno del ’63 con 15.000 vittime(!) quando il regime tàghuti dello scià imprigionò e poi costrinse all’esilio Khomeini, dapprima in Turchia e quindi in Iraq e Francia. Passò un decennio e mezzo di silenzio, di preparazione in patria e fuori, di studi e meditazioni, per giungere ai giorni gloriosi del ’78. Le prime vittime si erano avute nella città santa di Qom dove l’allora ventenne Khomeini aveva seguito l’Ayatollah Haieri, poi a Tabriz, Esfahan e quindi in tutto l’Iran. Dopo tanti anni un nuovo bagno di sangue (anche con la misteriosa morte in Iraq dell’amato figlio Mustafà), fino ad arrivare al «venerdì nero» di Teheran, quell’8 settembre (potenza dei ricorsi storici!) quando il mondo inorridito assistè al massacro premeditato di migliaia e migliaia di cittadini inermi falciati dal piombo di soldati, poliziotti, membri della famigerata Savak. I corpi insanguinati di uomini, donne, bambini ricoprirono letteralmente a strati la piazza Zàle, oggi ribattezzata in loro memoria Meidsn-e-Shohada (Piazza dei Martiri). Ma quando la rivoluzione è radicata nel popolo neanche le armi più sofisticate e la più aperta bestialità possono fermarla e già l’il novembre dello stesso anno nel giorno di Ashurà del mese di Moharram — giorno sacro agli sciiti che ricordano con processioni e pubbliche autoflagellazioni il lutto per la morte del terzo Imam Husayn nipote del Profeta, caduto a Karbela sull’Eufrate nel 680 e.v. (10 Moharram del 61 dell’Egira) — venti milioni di iraniani sfidavano il regime filo-americano al grido di «Allah akbar» occupando le strade e le piazze del paese intero.
Ad ottobre c’era stata la profanazione della moschea di Karman e l’insurrezione popolare di Hamedàn con il rogo della sede del partito di governo, il Rastàkhiz. A dicembre ci sarà l’occupazione dell’università, centro della resistenza islamica. Ma oramai sono gli ultimi colpi di coda di un regime morente: le feroci dittature plutocratiche affondano le mani nel sangue innocente quando sentono prossima la fine.
Oramai l’Iran sembrava un immenso carnaio: da Shiraz a Tabriz, a Mashad, Sanandag, Qazvin e in cento altre città e villaggi i combattenti della fede cadevano a centinaia. Ma ormai il giorno della liberazione era vicino e neanche l’estremo tentativo del rinnegato Shapur Bakhtiyàr poteva arrestare il corso della storia. Dal ritorno il 1° febbraio della Guida dei Credenti in seno al suo popolo, fino agli scontri e occupazioni dell’11 febbraio, la rivoluzione islamica trionfava (21-22 Bahman del 1357 dell’Egira). Era la «Decina di Fajr» (il passaggio dalle tenebre alla luce), la cesura di due epoche, i dieci giorni che sconvolgeranno il mondo futuro.
Ma non cessava per questo il martirio sia individuale che collettivo tra attentati e aggressioni imperialiste, fino ad arrivare all’invasione militare del regime ba’asista ateo di Bagdad nella «guerra imposta» che dura oramai da quattro anni. Tra i primi martiri ricordiamo le morti violente del presidente della Repubblica Rajai, del primo ministro Bahonar, degli Ayatollah Dastgheib, Madani e Mutaharri. Fino ad arrivare al 28 giugno 1981, quando nell’esplosione della sede del Partito della Repubblica Islamica furono martirizzati 72 fra i più alti dirigenti dell’Iran. Tutti questi delitti direttamente o indirettamente portavano la firma dei sedicenti Mojaheddin del popolo, l’organizzazione terroristica marxista agli ordini dell’imperialismo internazionale. Né si dimentichino quegli uomini di pensiero che già hanno sacrificato la vita in Iraq come l’Ayatollah M. S. Bagher e sua sorella, o gli esecutori di Sadat in Egitto, assassinati dopo un processo sommario e varie torture: Khaled Islamboli e i suoi quattro compagni.
La lotta contro il terrorismo interno, contro i nemici della rivoluzione talvolta camuffati da sostenitori e capi (è il caso di Bani-Sadr) è stata dura e ancor prosegue. Dai succitati Mojaheddin che sparavano alla gente per le vie di Teheran alla setta religiosa Bahài (i cui stretti legami con il neo-colonialismo e con il sionismo internazionale sono ampiamente documentati), fino all’eliminazione del partito comunista filo-russo Tudeh, senza seguito popolare ma pericolosissimo.
La propaganda occidentale e filo-americana che nei giorni della rivoluzione accusa Khomeini di fare il gioco dei comunisti e della Russia, per ingannare le credule destre reazionarie e conservarne! d’Europa e d’America, ha taciuto ancora una volta sbugiardata quando il nuovo Iran nazionale e rivoluzionario ha smascherato la congiura comunista del Tudeh sul proprio territorio. Ha taciuto di fronte alle schiaccianti confessioni autocritiche di colpevolezza spontaneamente fatte dal segretario stesso del partito comunista Nuroddin Kianuri, da Beh Azin e dalla dirigenza tutta: spionaggio e connivenza con l’Urss fin dall’origine, introduzione di armi, cospirazione segreta, infiltrazione nell’esercito ecc.
Nel frattempo si svolgeva la lotta per la liquidazione delle strutture del vecchio regime e, in particolare, l’occupazione dell’ambasciata americana, il «covo di spie» da cui partivano tutti i fili cospirativi per la controrivoluzione capitalista. Dal 4 novembre ’79 i giovani studenti rivoluzionari dell’Iran appoggiati dalle masse popolari tennero in scacco per ben 444 giorni l’arroganza della più armata potenza del mondo, nonostante il fallito blitz nel deserto di Tabas voluto da Carter e nel quale sembrò veramente che un intervento non umano avesse confuso e disperso gli invasori che si uccidevano tra loro.

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