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Con Guarente a Potenza vince finalmente il popolo



Riceviamo e volentieri pubblichiamo questa riflessione di Pio Belmonte, membro della Direzione nazionale di Fratelli d'Italia

Nella storia di Potenza, città napoleonica e risorgimentale quante altre mai in Lucania, la borghesia ha sempre assunto un ruolo centrale. Si tratta di una borghesia istruita, impiegatizia, notabili e professionisti che hanno sempre venduto volentieri le terre avite ai forestieri per occupare i ruoli più qualificanti delle professioni liberali e della dirigenza pubblica. A Potenza c'è una storica loggia massonica, fulgidi esempi di “eroi liberali”, eventi di singolare modernità come l'erezione dell'Albero della Libertà dei Giacobini; le sue cronache vantano - persino - la tragedia premonitrice di un vescovo giansenista (massone anche lui) trucidato di notte da ignoti villani. Mai era capitato, in questa città il cui pane quotidiano è l'intrigo negli uffici e la fortuna degli incarichi pubblici, che il sindaco provenisse da altro recinto che non fosse quello privilegiato della borghesia. Fino ad oggi, quando, anche nel capoluogo di questa bellissima e misteriosa terra che è la Basilicata (persino il suo nome, contrapposto al più romano e popolare “Lucania”, è oggetto di scontro tra gli esponenti “risorgimentali”, “liberali” e quelli più “popolari”, “identitari” degli intellettuali potentini), si sono espresse in tutta la loro forza le contraddizioni tipiche della politica in Occidente: da un lato, i ceti delle rendite di posizione, dal centro storico e dai quartieri residenziali. Dall'altro, le forze piccolo borghesi e operaie dei quertieri poveri e delle contrade. Due mondi che non comunicano tra loro, dilaniate da una tradizionale distanza che assomiglia tremendamente, per chi ci vive, più a un disagio per l'appartenenza comune che a una vera e propria divisione di casta: persino il Santo Protettore, San Gerardo, era fino a pochi anni fa il santo della gente rustica delle contrade. La borghesia, che non partecipava a quella festa, coltivava una quotidiana nostalgia per le mete esotiche, le grandi città lontane dove s'era studiato o s'erano mandati a studiare i rampolli, luoghi moderni senza puzzo di fucagna né tristi campi di terra nera, dove le feste sono party o festicciole, ma in nesssun caso processioni o messinscene folkloristiche. Poi, un bel giorno, questo equilibrio va in frantumi: per reagire al disagio postmoderno dello sradicamento, molti figli di quella stessa borghesia recuperano la partecipazione alla festa patronale, e lo fanno nella maniera più teatrale possibile; la città, fino a ieri senza identità poiché popolata per lo più di forestieri immigrativi durante il boom economico, si ritrova a celebrare l'antico dialetto, gli antichi piatti, gli antichi usi, l'icona di un'identità estinta da decenni e, di sana pianta, reinventata. E così nasce (o forse rinasce, ammesso che ci sia mai stata) un'identità potentina, un fenomeno che confligge mortalmente con l'identità sua tradizionale di città borghese, indifferente, “città dell'apparenza”, liberalconservatrice, pavida e conformista. Potenza gradualmente, dopo gli anni 2000, comincia a svegliarsi città del conflitto: bottegaia, dialettale, proletaria, bastarda: i quartieri poveri (come Bucaletto, cittadella di prefabbricati di Eternit che sta lì dal sisma del 1980) ribollono di una rabbia tutta politica, attizzata da un sano spirito di contestazione verso i “signori”; le contrade iniziano - zitte zitte - a votare il candidato “sbagliato” (nel 2014,
inaspettata marea di voti per De Luca, candidato di destra e primo sindaco non di centrosinistra della città). Dopo decenni, in cui il proletariato e la piccola borghesia della città si erano abituati a negoziare alla spicciolata i propri diritti nelle anticamere del potere (affidandosi alle relazioni corte con gli esponenti del ceto dominante, che nel capoluogo ha sempre distribuito a piene mani prebende, favori, lavoro, appalti, concessioni, consulenze, festini), finalmente gli “ultimi”, complici forse le ristrettezze della crisi, hanno inziato a mordicchiare la mano che fino a ieri gli allungava le briciole. Per poi morderla apertamente, con rabbia: quando a Potenza il centrosinistra perde la prima volta alle comunali del 2014 (la sconfitta del 1999 con Fierro era stata presto risolta cooptando i centristi nell'Ulivo, ndb), è uno shock per il sistema che governava col pugno di ferro la Regione Basilicata. Di lì in poi è una frana continua: Potenza tradirà i notabili del “sistema Basilicata” (un cocktail micidiale tra Partito Democratico, radical-chic di provincia, ecologisti per sentito dire, eco-mafie, alti papaveri degli uffici regionali, lobby del cemento, cordate per occupare la sanità e gli appalti, boss delle consulenze e relative truppe...) prima alle elezioni politiche, poi a quelle regionali e, infine, alle comunali 2019 del capoluogo. Al termine di questo percorso storico va contestualizzata da vittoria del giovanissimo sindaco Mario Guarente: una città spaccata (soli 200 voti) tra conservazione degli algoritmi di sempre e rivoluzione di tutto. Destra e sinistra non c'entrano che in parte. Mario Guarente è il primo sindaco dai quartieri popolari, il primo sindaco senza santi in paradiso, il primo sindaco della nuova età della nostra politica, quella contemporanea in cui si fronteggiano, da un lato, i privilegiati (cocciuti liberisti sempre più privi del sostegno delle masse) e, dall'altro lato, gli “ultimi”, quelli senza i soldi - né i diritti - che altrove abbondano, quelli che - secondo qualcuno - non devono votare perché non hanno studiato e, casomai, devono pagare una tassa in più perché, con le loro carrette da pezzenti, inquinano pure.

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