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6 marzo 1978: Franco Anselmi, il primo caduto dei Nar in combattimento

Il 6 marzo di quaranta anni fa venne ucciso a tradimento Franco Anselmi, in una rapina in armeria. Fu il primo caduto dei Nar.
Nella prima edizione di Fascisteria Ugo Maria Tassinari, fondatore di questo blog cosi ne raccontava la storia.


Seguiamo questo lungo filo rosso di sangue partendo proprio da Franco Anselmi, ucciso a 22 anni, mentre scappava dopo l’assalto all’armeria Centofanti. Era considerato il vecchio del gruppo. Proveniente dalla Magliana, Anselmi ha un lungo curriculum di attivista e squadrista. Amico di Mantakas, è al suo fianco quando i compagni lo ammazzano davanti alla sezione del Msi di Prati. L’anniversario dell’omicidio sarà una data di culto: il giorno della vendetta, della caccia al rosso (ovvero di capelloni, drogati, finocchi e “zellosi”). Il memorial day diventerà poi il 7 gennaio, data del massacro di Acca Larentia. Anselmi non ne avrà il tempo ma i suoi 28 febbraio, per vendicare l’amico, se li è fatti tutti alla grande. Da quella mattina maledetta in via Risorgimento, comunque, non si separerà mai dal passamontagna intriso del sangue di Mikis. A scuola al Liceo Privato Tozzi è compagno di banco di Valerio: ha due anni in più ma li ha persi perché dopo un pestaggio è rimasto tre mesi in coma e ha dovuto fare una lunga riabilitazione, portandosi dietro un abbassamento della vista, che gli frutterà l’affettuoso nomignolo dell’orbo di Urbino, l’università dove è iscritto. Fioravanti spiegherà che la frustrazione accumulata per i continui rinvii del processo contro il responsabile della menomazione (figlio di un notabile dc) scatenerà l’escalation militare del gruppo. Il primo anniversario Anselmi lo celebra con i Fioravanti e Alibrandi, accoltellando due compagni del Tacito. Partecipa al raid di Sezze, nel maggio 1976, quando il deputato missino Saccucci e i suoi guardaspalle per sfuggire alla contestazione antifascista si allontanano sparando dalle auto e uccidono un giovane comunista. Dopo la distruzione del MSI di Monte Mario partecipa al presidio e con Valerio e un altro camerata spara sui compagni del Fermi: uno è colpito tre volte. Frequenta le sezioni di Monteverde e della Montagnola, dove spicca la figura di Dario Pedretti, responsabile dei Volontari nazionali, ed è tra i componenti del primo gruppo di fuoco di quelli che dopo la sua morte, Francesca Mambro chiamerà Nuclei armati rivoluzionari, i NAR. Partecipa agli attacchi ai giornali, le prime azioni di guerriglia urbana della banda: alla redazione romana del Corriere della sera con una molotov colpisce un custode, scatenando il più feroce dileggio.
I morti di Acca Larentia offrono altro sangue al suo passamontagna, ma Franco non sa che il prossimo sarà il suo. Avrà appena il tempo di “onorare la memoria” di Miki, ammazzando il 28 febbraio 1978 un poveraccio che non ci azzeccava niente, poi la fine. Per il terzo Mantakas–day la banda decide il salto di qualità: questa volta per la vendetta ci vuole il morto. Ci hanno già provato nel pomeriggio, sparando su un gruppo di compagni al Portuense. Tre i feriti: uno si è salvato solo perché è finito il caricatore. Ci riprovano la sera, dopo il solito appuntamento al Fungo dell’E.U.R.. Partono in otto: i Fioravanti, Anselmi, Alibrandi, Pedretti e tre personaggi minori, Massimo Rodolfo, Paolo Cordaro, Francesco Bianco. Il bersaglio: i compagni del Don Bosco, a Cinecittà. Le tre auto puntano su una palazzina occupata a via Calpurnio Fiamma: secondo una voce dal carcere è la base rossa dei killer di Acca Larentia. Grande è la delusione nel commando quando scoprono che la polizia ha appena sgomberato l’edificio. Che fare, allora? Semplice: un bel tiro al bersaglio agli “zellosi” di don Bosco, piazza dei compagni nel ghetto di Roma sud. Il gruppo di fuoco è composto da Anselmi e dai Fioravanti. Sparano su un gruppetto intorno a una panchina. Cristiano va a segno ma gli si inceppa la pistola, una scacciacani calibro 6 modificata artigianalmente. Franco colpisce un altro che cade a terra e Valerio, che non è ancora riuscito a fare fuoco per un difetto del revolver, non si perde d’animo.
Si mette a cavalcioni del secondo ferito e da distanza ravvicinata gli spara due colpi alla testa che lo uccidono. Quindici anni dopo racconterà in televisione il suo primo omicidio, ma Minoli quella volta non si è documentato bene e così quando Valerio, peccando di omissione, ammette che la sua vittima aveva avuto il tempo di guardarla negli occhi e di capire che con Acca Larentia non c’entrava, l’intervistatore non gli chiede conto della feroce determinazione criminale contro un innocente. L’attentato è ripetutamente rivendicato ma la stampa – puntando sui piccoli precedenti di Roberto Scialabba, un ladro politicizzatosi in carcere – preferisce parlare di un regolamento di conti tra spacciatori. Solo Lotta continua rivendica la militanza della vittima e la matrice fascista del delitto. Dopo la caccia grossa, che è andata bene nonostante la qualità disastrosa dell’armamento – due pistole difettose su tre – la banda si pone il problema di evitare rischi inutili: gli “zellosi” del Don Bosco non erano armati e non hanno reagito ma la prossima volta si potrebbe non avere la stessa fortuna. I giovani guerrieri sono persone semplici: loro girano armati sempre e quindi pensano che anche i compagni lo facciano. Non riuscendo a procurarsi armi decenti sul mercato clandestino, decidono di andarsele a prendere dove ce ne sono in abbondanza, in armeria. Il colpo è organizzato in quattro giorni, sotto casa. La sera del 5 si rapinano le auto, sulla Laurentina, il pomeriggio del 6 si passa all’azione in via Ramazzini a Monteverde Nuovo. Poco dopo le 16 Valerio e Franco entrano a volto scoperto nell’armeria Centofanti, tengono sotto tiro i titolari, due fratelli, e sottraggono undici pistole e due canne per pistola. Fuori, con compiti di copertura restano Cristiano e Alibrandi. Quando entra un cliente, quest’ultimo lo segue e dà man forte ai due. Anselmi si attarda a rapinare i beni personali dei presenti, per accreditare la pista dei tossici, si “ingarella” a discutete con uno che non vuole mollare una catenina ricordo di famiglia, alla fine gliela lascia ed è così l’ultimo a uscire. L’armiere Daniele Centofanti, l’uomo della discussione, gli spara alla schiena: Cristiano è già in macchina, Valerio è appena salito a bordo con la borsa delle armi, Anselmi cade sulla porta del negozio e anche Alibrandi è ferito. L’autista, Francesco Bianco, terrorizzato tenta di partire: alla fine, nell’orgasmo della fuga, lascerà un’impronta digitale a bordo. Cristiano e Valerio gli puntano la pistola alla nuca e lo costringono a tornare indietro. Sparano all’impazzata per scendere dall’auto senza danni e portare in salvo Franco ma appena lo toccano si accorgono che è inutile. Ancora spari per evitare sorprese e la fuga. [Questa versione dei fatti è quella offerta da Valerio Fioravanti in "A mano armata" di Giovanni Bianconi. Nel "Piombo e la celtica" di Nicola Rao Francesco Bianco respinge le accuse di vigliaccheria che attribuisce al malanimo di "Giusva", ndb]
Pochi minuti dopo un secondo inutile tentativo di soccorso, da parte di Dimitri accorso in moto con un camerata appena saputo della sparatoria. Il giorno dopo cominciano le minacce a Centofanti. Valerio telefona “C’è la tua 44 magnum che ti aspetta”. L’8 è fatto ritrovare a un giornalista dell’Ansa un volantino del Direttivo rivoluzionario in “onore e gloria” del camerata Anselmi: “ha concluso nell’unica maniera possibile una vita dedicata all’anticomunismo militante. Si distingueva per la sua lealtà, per il suo coraggio, per la sua generosità. Condanniamo Danilo Centofanti alla pena di morte per aver colpito alle spalle Franco (...) Onore al camerata Franco Anselmi. Siamo pronti a seguirti. Tremino i codardi, i corrotti, le spie”. Nella prima categoria è da inserire anche Paolo Cordaro, che ha partecipato ai sopralluoghi, ha fornito le armi prelevandole dalla collezione del padre, e avrebbe dovuto portare via dal luogo della rapina uno dei partecipanti ma, terrorizzato, molla Alibrandi ferito – costringendolo a fuggire a piedi – se ne scappa e dà così, ingloriosamente, l’addio alle armi [A sua volta Paolo Cordaro avrà un tragico destino: morto annegato in mare, probabilmente in un attacco di pirati al suo yacht, ndb].
Un “coccodrillo” meno ampolloso del volantino lo pronuncerà in uno dei tanti processi Valerio, dieci anni dopo: “Mi legai a Franco in maniera molto particolare perché era un ragazzo che a me piaceva moltissimo. In termini romantici era sicuramente uno dei migliori, uno dei ragazzi più generosi. Non c’era niente di spirituale né di intellettuale: era semplicemente un ragazzo dal cuore d’oro (...) la classica persona che pur avendo già pagato molto, quando c’era da ripartire ripartiva; che pur avendo già avuto conseguenze gravissime per il suo impegno politico non era rifluito nel privato, non aveva paura. E’ questo che ti colpisce”. Del commando fa parte l’intero gruppo di fuoco del Don Bosco, tranne Pedretti, eppure l’armiere è convinto di riconoscerlo tra i rapinatori, prima in foto, poi di persona, ma la mancanza di riscontri porterà al proscioglimento. Dell’assoluta inattendibilità dei testimoni di fatti di sangue dà prova anche il proprietario della Taunus rapinata, che riconosce in foto sia Anselmi sia Bianco. Lo smentirà Cristiano Fioravanti: erano stati lui e Bianco a rapinarla. I funerali diventano una manifestazione di massa. I Fioravanti non vi partecipano per evitare le foto della Digos ma se li fanno raccontare dei camerati: “Era bellissimo, c’erano almeno mille persone. C’era pure un sacco di polizia, ma nessuno si curava di dare il proprio volto, non abbiamo avuto paura. Avevamo le bandiere, abbiamo gridato gli slogan”

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