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18 febbraio 1960: nasce a Roma Marcello De Angelis


Oggi è il compleanno di Marcello De Angelis, nato a Roma il 18 febbraio 1960. Wikipedia lo definisce come un politico, giornalista e cantautore. In effetti risponde a tutte e tre le definizioni ma per me resta uno dei principali sherpa che mi ha aiutato significativamente nella prima, difficile fase di esplorazione dell'arcipelago nero. Del peso della sua testimonianza c'è abbondante traccia nella prima edizione di Fascisteria e così ho deciso di pubblicare un abbondante stralcio sulla sua ricostruzione storica di Terza Posizione. Una cosa che serve ancora oggi, 40 anni dopo, visto i deliri che girano.


È sbagliato ridurre gli esiti di una vicenda complessa, ricca di lacrime e sangue, ma anche di vi­talità e di entusiasmo, come quella di TP all’incongruenza dei leader che hanno seminato vento, alla spirale sui­cida di quanti hanno trasformato le parole in atti (relativamente pochi, dal punto di vista statistico) avendone la vita distrutta, al tentativo sostanzialmente fallito di una sparuta minoranza impegnata nel­l’ol­trepassamento dell’esperienza neofascista. Della ricchezza dei tipi umani presenti nel gruppo rende conto in qualche modo la vicenda dei militanti del­l’Aurelio, a partire dai due leader, Corrado Bisini e Claudio Lombardi, arrestati pochi giorni dopo il blitz del 23 settembre 1980 (erano an­che loro ricercati) mentre in tipografia andavano a ritirare volantini “contro la repressione”. 

La militanza in Tp: il fattore umano

“Claudio e Corrado sono persone – racconta Marcello De Angelis – di cui ho sempre ammirato la profonda bontà, generosità, dedi­zione: il tipo che non vedi mai al­zare la voce né litigare con nessuno, neanche quando è provocato. In una situa­zione di scontro di piazza hanno sem­pre reagito in modo giusto, se qualcuno li prendeva per andare a fare botte, loro ci andavano, ma mai all’interno della comunità, anche se avevano su­bito un’ingiustizia paurosa. Fanno pensare al mili­tante cattolico, per la bontà di fondo che non fa parte della tipologia fascista. In un ambiente come l’Eur prevaleva un atteg­giamento da cervi, i maschi nel branco che stanno sem­pre a misurarsi, a mettere a posto i su­bal­terni, si sentiva la tensione nel­l’aria, sensazione che si percepisce ancora in certi ex fascisti. È un comportamento sociale, se un amico ti insulta tu reagisci, se ti ha fatto un torto devi farci a botte per­ché in pubblico non è accettabile che ti mettano i piedi in testa, altrimenti la tua posizione nel branco è automaticamente messa in discus­sione. Loro non partecipavano affatto a questa logica, non ave­vano – come di molti di noi – amici solo all’interno dell’am­biente. Facevano poli­tica a tempo pieno, ma tutte le amicizie le ave­vano al di fuori, e dal momento che vivevano in quar­tieri popolari molte delle per­sone che frequentavano erano compagni e compagne. Non avevano asso­lutamente niente in comune con la tipo­logia fascista anche se aderivano a livello pu­ramente ideale al no­stro discorso e ci credevano profonda­mente“. De Angelis insiste molto sul carattere comunitario e “formativo” della militanza in TP: “Quando ci stava un gruppone, o andava in un bar un missino riconosceva subito noi di TP, per i discorsi, i compor­ta­menti, i vestiti, persino dal taglio dei capelli. A parte quelli effettivamente nati politica­mente con TP, rinascemmo noi che avevamo iniziato l’esperienza po­litica in un magma caotico, in cui non si trovava assolutamente niente, e ci eravamo perciò co­struiti da soli attraverso due o tre anni di sbandamento. La gente si avvicinava, però non riusciva a tenere il passo con l’attività o a costruire legami umani perché il grosso eravamo noi “nuovi” che spingevamo da sotto, con i nostri di­ciott’anni. Eravamo totalmente omologati: ci frequentavamo ogni giorno dalla mattina alla sera, ci scambiavamo vestiti e dischi, anda­vamo ai concerti e a cinema insieme mentre i più grandi che stavano all’università, non avevano fatto politica per anni, venivano dal Fronte Stu­dentesco ed erano tornati perché le tematiche erano le stesse, non si trovavano bene, e se ne andavano. Agli inizi è stata vicina la fusione con il gruppo di Signo­relli ma le due anime non sono riuscite a convivere. O meglio erano due corpi, la divi­sione non era ideologica ma umana, una que­stione generazionale determinata dall’esperienza. Chi era stato qualche anno in più nel Msi, aveva una mentalità diversa, nei rapporti con le donne, nel gusto per la musica. Noi l’ab­biamo veramente cre­ata li per li un’umanità nuova che purtroppo non è durata. Abbiamo avuto lo stesso problema del fa­scismo, il tempo. Le basi c’erano, se avessimo avuto la possi­bilità di man­tenere il gruppo per dieci anni avremmo formato degli uomini nuovi, con le palle, mentre invece sono usciti fuori dei ragazzini molto generosi. Per la maggior parte hanno fatto due anni di politica e quattro anni di carcere, così sono crollati. E quelli che non sono voluti crollare sono usciti di te­sta”. 
La ricostruzione “storica” di De Angelis – per un evidente meccanismo di distorsione del ricordo in situa­zioni di forte coinvolgimento emotivo – va presa con le pinze: molti dei ragazzini che formarono il gruppo dirigente di Tp avevano maturato diverse esperienze militanti, sia pure in tenera età. Il vice di Dimitri nella Legione, Enzo Piso, uno dei più impegnati a trattenere i militanti dal varcare il cri­nale della lotta armata, aveva bazzicato, da ragazzino, Ordine nuovo. Giancarlo Laganà, per un breve pe­riodo responsabile romano, affittuario dei locali della redazione, una denuncia con Sordi e Procopio per associazione a de­linquere, aveva militato a lungo nel Fronte. Anche lui una tempra di combattente, ma di tutt’altro genere. 

Uno di sinistra: Giancarlo Laganà

“Era un bastian contrario – spiega De Angelis – sempre contro per partito preso. Lui riu­sciva a far litigare tutti. In una riunione di dieci per­sone dopo dieci minuti si crea­vano la destra e la sinistra per colpa sua. Era un perseguitato, perché a Monteverde i fascisti erano cin­que: i Laganà, i Fioravanti e Alibrandi. Aveva giustamente maturato la sindrome del ghetto: andavano a prendere lui sotto casa una volta la settimana perché gli altri sparavano. Quando non ci riuscivano lo aspettavano a scuola. Aveva comunque una fortuna disgustosa”. 
Una fortuna che non gli impedisce di essere ferito seriamente, nel corso di una rissa, nel lu­glio 1980, a un concerto di musica celtica a Villa Torlonia. Sode­rini gli attribuirà la partecipazione a uno de­gli attentati incendiari del Commando di lotta e vittoria contro le case dei compagni in pri­mavera, rappresaglie decise dopo analoghi attacchi ai danni di militanti di Tp. Un’accusa calunniosa: perché con i “compagni” Laganà voleva dialo­gare e fare la guerra ai missini a tutti i costi. Perucci proverà a tirarlo in mezzo come ispiratore di due attentati: quelli compiuti a Monteverde e Portuense (quartiere limitrofo) sarebbero state rappresaglie per il suo feri­mento ma i “botti” precedono la rissa di qualche mese. 
“Era fissato – racconta De Ange­lis – che dovevamo fare il partito rivoluzionario, un soggetto inaudito, specializzato nel rendersi antipa­tico a tutti ma con spunti geniali. Nel 1977, lui che era riconoscibilis­simo, andò all’univer­sità occupata e parlò in assemblea facendo litigare autonomi e Pci. Non era una provo­cazione, disse quello che pensava veramente. A noi non l’aveva detto perché l'avremmo messo in camicia di forza. Per noi an­dare all’università significava farsi crocifig­gere. Lui invece andò e disse: “Compagni, noi siamo d’accordo che la gestione degli operai deve essere di­retta, non bisogna passare per il sindacato ma bisogna ne­gare la delega. A scuola come in fabbrica. E così siamo contro il parlamento e i partiti, perché i meccanismi sono gli stessi”. Chiaramente gli auto­nomi erano d’accordo, men­tre quelli del Pci si misero a protestare e lui riuscì a seminare zizzania pure lì”.

Laganà aveva un problema “familiare”: lui era di “sinistra”, mentre il fratello rautiano era di “destra”, delle edizioni Europa. “Noi ci dicevamo – ricorda De Angelis – contro tutti i partiti, però ave­vamo rapporti personali con i missini mentre lui era per lo scontro fisico: dovevamo andare a sprangarli. Della sua li­nea politica erano infatuati parecchi ragazzini arrivati da poco, una forte minoranza. Al­cuni militanti erano stati picchiati di brutto dai missini mentre vendevano il giornale in una piazza “loro” e noi an­dammo a fare un’“imbruttita”, ci presentammo un’ottantina “armati” di tutto punto. Strada facendo scoppiarono discussioni pesanti. Noi avevamo chiuso l’esperienza politica con la destra, però avevamo problemi umani. Da ragazzini eravamo stati svezzati da attivisti che stavano ancora nella sezione che stavamo per attaccare perciò volevamo a tutti i costi evitare lo scontro. Non avrei avuto pro­blema a farlo coi missini di Benevento ma con quelli dei Parioli avevo giocato a pal­lone da piccolo. In­vece Laganà e i suoi sostenevano che quella era l’occasione attesa per tanto tempo di tagliare defini­ti­vamente col sangue il legame con il Msi. Poi prevalse la logica strate­gica di evi­tare lo scontro, decisione più che saggia”.

Io e il mio amico Mottironi

La stessa “passione” per i compagni era condivisa dal suo miglior amico, Fa­bri­zio Mottironi, detto il “roscio” (per il colore dei capelli). Il padre aveva fatto il parà a Salò, a 16 anni, presentandosi direttamente dai tedeschi, storia comune a molti altri dirigenti: il padre fece imparare a memoria a Fiore la Carta di Verona. E an­che nel giro lottarmatista si scherzava sui “Nar figli dei Far”. Dal padre, giornalista dell’agenzia AGA, Mottironi aveva ereditato le posizioni politiche da sinistra socializzatrice. Con una compli­cazione: l’influenza sessantottina della sorella, ex di Potop. Anche lui aveva cominciato a mi­litare da bambino, a dodici anni, frequentando il giro di Lotta di Popolo perché un dirigente, Enzo Ci­rillo, oggi redattore di Repubblica, lavorava con il pa­dre. Era poi passato per il Fronte della Gioventù: “Io lo avevo conosciuto – racconta De Angelis – quando frequentava via Migiurtina, una sezione aperta al Trieste Salario giusto per essere attaccata dalla mattina alla sera. Fabrizio aveva i capelli lunghi, rossi e apparteneva alla generazione di quelli che sembravano di sinistra, per gusti e abbigliamento. Qu­ando giravamo insieme al Trieste Salario eravamo portati ad esempio: con molti compagni avevamo un dialogo, con qualcuno un’autentica amicizia. Al tempo stesso lui era il capo dell’odiatis­simo e fortissimo CRQT [Comitato Rivoluzionario Quartiere Trieste] di TP. Fabrizio era poco più di un bam­bino ma a 16 anni aveva già una personalità estremamente carismatica, che poi ha perso. Era un attivi­sta esasperato, 24 ore su 24 pensava solo a quello. Aveva la collezione di Po­top, e i giornali di Linea proletaria e dei marxisti leninisti. Mi portava a casa e faceva i dia­grammi delle situazioni dei compagni con tutte le distin­zioni tra linea nera e linea rossa. Aveva tutti i classici, Che, Mao, i manuali della Feltrinelli: era il suo hobby“. Coltivando la loro passione, Mottironi e De Angelis trascorrono assieme le vacanze in una “comune” ed hanno così modo di fare i conti con il “mito dei compagni”: ­“Qui c’erano dei compagni che erano decisamente diversi da quelli che conoscevo io. Non avevano mai incontrato un fascista in vita loro. Io ero accettato dai compagni a scuola, che mi con­sideravano un com­pagno che sbagliava. Questi invece non immaginavano neanche che ci fosse un uni­verso al di fuori del­l’essere compagni. I “locali” erano simpaticissimi, sempre “fatti”, o di “canne” o di vino e poi c’e­rano le ragazzette che venivano da Modena, da Bologna, ricche, gran “fiche”, molto libere di costume. Io come al solito non “battetti”. Mottironi venne “rapito” la sera stessa che arri­vammo da una ragazza, appena lo vide bambino con i capelloni rossi. Noi restammo delusi perché tutta la banda nostra, che aveva capelli lunghi, barbe, atteggiamenti tendenzialmente bolsce­vichi, aveva un’imma­gine mitolo­gica dei compagni, anche perché ci andavamo d’accordo [il tempo fa velo sulla memoria: De Angelis di­mentica che un gruppo di compagni del quartiere Trieste organizzarono un devastante atten­tato dinami­tardo contro casa Mottironi, strage mancata che innescò una faida sanguinosa, il nucleo operativo di TP rispose gambizzando Ugolini, ritenuto militante dei Nuclei per il contropotere territo­riale]; ci sembrava che si godessero di più la vita, fossero più liberi nei costumi sessuali, avessero un’e­sperienza sociale più ricca dalla nostra. L’idea di farci una “canna” ogni tanto non ci spaventava, vole­vamo divertirci”. “Noi sentivamo perennemente Radio Onda Rossa, telefonavamo per chiedere Stalin­grado, quella di “La croce uncinata lo sa, d’ora in poi troverà Stalin­grado in ogni città”. Noi eravamo dei fanatici degli Stormy Six, di Manfredi. “Ma chi ha detto che non c’è” era stupenda [e ac­cenna il motivo]: “sta nel mitra lucidato, nella fine dello Stato, nella gioia, nella rabbia, sta nel rom­pere la gabbia“. Da piangere per quanto era bella. Di Lolli li avevamo tutti, poi ce n’era un altro, con la voce debole, era un militante, lo comprammo a metà io e Fa­brizio perché non avevamo una lira mai. Dovemmo andare in un negozio di dischi enorme e avevano una copia sola e nessuno lo conosceva. Fa­brizio lo aveva ascoltato dalle sorelle. Poi Gianco, che faceva una canzone stupenda che mi fa­ceva piangere, “Un amore che non hai e forse non hai avuto mai“, bellis­sima e lui era un compagno proletario del cazzo ed era innamorato di una femminista ricca che non se lo ca­cava proprio e poi ce n’era un’altra che piaceva molto a Fabrizio e secondo me era una stronzata che di­ceva [e canta]: “mangia insieme a noi ma non c’è un granché, siedi dove vuoi, un minestrone c’è, il formag­gio è là, bere non ce n’è”, una cosa del genere e Fabrizio diceva sempre ‘Vedi, questo è quello che a noi manca, invece i compagni hanno questa dimensione comunitaria’. Invece andammo nella comune e fummo molto depressi perché questi passavano il tempo a dire “ma certo, voi romani come siete strani, state sempre a ridere, avete sempre voglia di scherzare”. Erano dei tristi, stavano sempre lì col pro­blema, lei che pensa che io sono possessivo. Gli uomini si “facevano” le canne e piangevano perché “Lei sta con me solo per scopare”. Noi eravamo abituati alle donne che dicevano “tu sei uno stronzo, stai con me solo per scopare” e invece ti compagni dicevano lo stesso delle donne e allora il suo amico andava a parlare con la ragazza, “Ma dai, lui dice che stai con lui solo per sco­pare” e lei seccata “ma no, non sto solo per scopare ma a me stanno sul cazzo le smancerie”. Noi stavamo sempre a cazzeggiare perché era il nostro stile di vita e invece ci siamo resi conto che questi avevano sempre tanti problemi. Quando ce l’a­vevano detto i compagni amici nostri di Roma non lo avevamo capito. Le donne avevano i problemi, gli uomini avevano i problemi, uno aveva il problema di non averne. Alluci­nante. Erano pazzi come cavalli i compagni. Così ritornammo molto rinfrancati dalla vacanza“.

Dieci anni dopo


Dieci anni dopo Marcello De Angelis si è trovato di nuovo a vivere con i “compagni”, nel carcere penale di Rebibbia, dopo la rottura con gli ex leader di TP per la scelta di rientrare in Italia e scontare la condanna per associazione sovversiva subita per Tp. L’unico quadro intermedio condannato solo per il reato politico senza nessun fatto materiale (attentati o rapine): gli altri, da Mottironi a Laganà da Piso a Buffa, tutti assolti, dopo quattro anni e mezzo di carcere. E De Angelis ha fi­nito per fraternizzare soprat­tutto con i “compagni”. Lo ha raccontato nell’intervista televisiva con l’ex br Maurizio Jannelli. “Una volta, al passeggio, mi fermarono due camerati: “Marcè, ma come fai a stare sempre con i compagni? Non parlano mai di fica”. E invece lui ha continuato a far batteria con Maurice Bignami, il comandante di Prima Linea (che ha scoperto in carcere che aveva ragione Berlinguer: quello di PL era “fascismo rosso”) e con Antonio Contena, il leader di Barbagia rossa. Poi una bella espe­rienza di teatro (una compagnia di “comuni” tranne Ciro Lai) e infine la libertà, col lavoro come grafico all’Italia settima­nale (per la quale scrive anche di politica estera). E il ritorno all’impegno politico: si avvicina all’a­rea avanguardista, è tra gli animatori della Spina nel fianco, a cui collabora Bignami, mette su una banda rock, i 270 bis, (l’articolo del codice penale che punisce l’associazione sovversiva con finalità di terrorismo) che al vecchio repertorio accompagna nuovi hit – come Spara sulle posse – ap­plauditissimi alle feste del Fronte, nei cui paraggi finisce per approdare. Anima un comi­tato per la liberazione ai detenuti politici che scatena la furia degli “autonomi” romani e raccoglie migliaia di firme per l’amnistia. È uno degli organizzatori della campagna elettorale di Ro­berta Angelilli, la segre­taria romana del FdG, la rautiana che arriverà trionfalmente a Strasburgo sbaragliando la concorrenza di candidati miliardari e del favoritissimo Francesco Caroleo Grimaldi, l’uomo di Fini, arrestato per il caso Amato come difensore di Signorelli. Partecipa alle inizia­tive della corrente sociale di Alemanno, i giovani rautiani che restano in AN per impedirne la deriva con­serva­trice e reazionaria. Quando, il 2 dicembre 1995, la destra porta in piazza centomila persone per chiedere le elezioni subito, è alla testa di un nutrito spezzone di corteo militante, migliaia di giovani came­rati che sono lì, dietro gli striscioni di Oltre linea. Qualche decina i militanti, di nuovo due capi e mezzo: lui ed Enzo Piso a coordinare il movimento che ha rotto i giochi quasi chiusi per la liquidazione del Fronte della Gioventù, Mottironi che si affaccia alle inizia­tive, si lascia corteggiare ma ancora resi­ste a scendere in campo per un clamoroso revival di tutti in­sieme appassionatamente. De Angelis nel­l’inverno ‘96 ha alternato i concerti della sua band agli incontri in mezza Italia, per presentare Area, la rivista patinata della corrente di Alemanno e Storace di cui è designato come direttore politico. Anche Di­mitri e Lucci Chiarissi hanno preso la tessera di AN, ma mantengono un profilo più basso. Piso e De Ange­lis no, quin­dici anni dopo la storia gli ha dato un’altra possibilità e possono, faccia al sole, pensare an­cora che “il domani gli appartiene”.

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