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Alain de Benoist: ma quale scontro di civiltà, la jihad è una guerra interna all'Islam

Il filosofo e ideologo della “Nouvelle Droite": «Invocare i disagi sociali nelle banlieu è una spiegazione di comodo», il trattato commerciale Usa-Ue è una «minaccia». E il jobs act alla francese risponde a una «logica del profitto preoccupata di accumulare illimitatamente capitale»

di Matteo Luca Andriola per l'inkiesta



Ed ecco che l'Europa davanti si trova davanti a nuove crisi e a nuovi dilemmi. Può questa, come attore, affrontare sfide quali la crisi finanziaria, le novità della globalizzazione come il Trattato transatlantico, le nuove regole del mercato del lavoro o lo stesso terrorismo islamico? È davanti ad uno “scontro di civiltà”? Il pericolo è l'Islam o il radicalismo islamico? E perché è in fermento? «Quanto sta accadendo in Medio Oriente è il risultato delle guerre intraprese dal 1991 contro l'Iraq baathista di Saddam Hussein, che hanno mietuto centinaia di migliaia di vittime e facilitato la destabilizzazione generale della regione», spiega a Linkiesta.it Alain de Benoist, filosofo e ideologo detta cosiddetta “Nouvelle Droite”. «La stupida offensiva occidentale in Libia ha portato anche alla guerra civile e al caos, dove l'afflusso di “rifugiati” in Europa è uno dei più evidenti risultati, oltre alla nascita dello Stato islamico. Che questi si rivolta principalmente contro l'Europa non mi sorprende. Noi facciamo la guerra a loro, loro fanno la guerra a noi. È così semplice».

Prima New York, Madrid e Londra, a novembre Parigi, ora Bruxelles. Da una parte aumenta l'islamofobia dall'altra chi parla di “scontro di civiltà”: l'Occidente è in guerra contro l'Islam?

Guardi, gli attentati a New York, Madrid e Londra non hanno alcuna connessione con quelli a Bruxelles e a Parigi. Gli attori e il contesto sono diversi. L'Islam e l'Occidente non sono in guerra e non hanno nulla di omogeneo: i sunniti sono prima in guerra con gli sciiti e gli interessi europei non coincidono con quelli americani.
Lo «scontro di civiltà» è una formula «culturalista» che ignora la logica politica di tali conflitti, che spesso avvengono entro la stessa civiltà. Il jihadismo non va visto come proseguo dell'espansionismo islamico, ma è un conflitto fra due immaginari diversi che lavorano per lo sradicamento e la mondializzazione, facendola apparire così spesso una mentalità che si rivolta contro la modernità stessa (i jihadisti sono, malgrado tutto, essi stessi moderni). Non dimentichiamo però che quelli che combattono il Daesh in Iraq e in Siria sono anch'essi musulmani! L'Iran, in guerra contro lo jihadismo, è musulmano! L'islamofobia che assicura che l'Islam e lo jihadsmo sono la stessa cosa, dice esattamente la stessa cosa dei sostenitori del Daesh. Ecco perché l'islamofobia fa comodo allo jihadismo. Si pensa che questo spingerà tutti i musulmani ad unirsi a loro. Gli islamofobi, da questo punto di vista, sono gli utili idioti dello jihadismo.

L'opinione pubblica è rimasta colpita perché gli attentatori non erano “immigrati clandestini”, ma perfettamente integrati, istruiti ecc. anche se il jihadismo fa proseliti nelle banlieu. Va messo in discussione il modello d'integrazione occidentale?

L'ondata di attentati è ovviamente legata al problema dell'immigrazione, dato che coinvolge giovani immigrati di origine nordafricana con la nazionalità francese o belga, il cui profilo è simile: ex criminali passati allo jihadismo dopo una «radicalizzazione» in carcere. Invocare i disagi sociali nelle banlieu è una spiegazione di comodo, che noi chiamiamo «culture de l'excuse». Gli attentatori avevano una buona educazione, svolgevano mestieri stabili. Dobbiamo invece considerare la crisi identitaria che li investe, fattori psicologici come il risentimento, la volontà di combattere, la voglia di diventare famosi, ecc. Siamo davanti al fallimento delle «politiche di integrazione» dei governi che pensavano di risolvere il tutto distribuendo borse di studio e buone parole «politicamente corrette». La Francia è rimasta cieca alle comunità a causa del suo giacobinismo (che integra gli individui a scapito dalle comunità d'origine). Pensava che modelli differenti potevano armonizzarsi spontaneamente entro lo stesso spazio sociale. Quando si rese conto che era impossibile era troppo tardi.

Quale dovrebbe essere il ruolo dell'Europa visto che ambisce a essere uno Stato e un attore internazionale?

Per essere un «attore internazionale» l'Europa dovrebbe parlare con una sola voce, avere una politica indipendente, consapevole della sua identità entro un contesto multipolare. Invece avviene il contrario: la costruzione europea è partita dall'economia, non dalla politica e dalla cultura. Si è immaginato che la «cittadinanza economica» avrebbe portato a quella politica, ma non è così. Si assiste all'espropriazione graduale delle sovranità statali, senza crearne una europea. L'UE non ha mai voluto creare una potenza europea, ma solo un'Europa-mercato. Intanto i segnali sono preoccupanti: continua la crisi dell'euro, il «no» al referendum danese del 3 dicembre, grandi migrazioni, rabbia sociale, agricoltori sull'orlo della rivolta, peggioramento delle prospettive finanziarie, esplosione del debito, aumento dei populismi «conservatori» ed euroscettici e la possibile secessione della Gran Bretagna che creerebbe un precedente.

L'UE sta cadendo a pezzi davanti ai nostri occhi sotto l'impatto degli eventi. Aggiungiamo una situazione finanziaria preoccupante che, per alcuni economisti, potrebbe evolversi in una crisi peggiore di quella del 2008, una recessione generale sotto forma di crollo del mercato obbligazionario e di una crisi di insolvenza causata dall'esplosione dei debiti accumulati, che conferma che siamo su una polveriera e che la dinamica di accumulazione del capitale funziona su basi fittizie e precarie.

Lei ha scritto Le Traité transatlantique et autre menaces (ed. it. Il Trattato transatlantico, Arianna, 2015). Perché è una "minaccia"? Non vede opportunità nel commercio fra europei e Stati Uniti?

Guardi, oggi 2,7miliardi di dollari in beni e servizi sono già oggetto di negoziazioni quotidiane tra i due continenti. Il Trattato, che mira a creare una nuova zona di libero scambio fra UE e USA, un mercato di oltre 800milioni di consumatori, è una minaccia per due motivi. Primariamente per la rimozione delle «barriere non tariffarie», tutte quelle norme (sanitarie, sociali, ambientali, ecc.) che i negoziatori ritengono dannosi per il libero commercio. Se l'obbiettivo è l'allineamento al «massimo livello di liberalizzazione esistente», è probabile che la "convergenza" avverrà allineando le norme europee a quelle americane, con gli USA che impongono all'UE le loro regole commerciali. Inoltre l'istituzione della «protezione degli investimenti» consentirebbe alle multinazionali di trascinare davanti a tribunali ad hoc Stati la cui legislazione potrebbe interferire ai loro interessi o ai loro profitti. La disputa verrebbe arbitrata su base discrezionale (in base al diritto degli Stati Uniti) da giudici o esperti privati, l'ammontare dei danni sarebbe potenzialmente illimitata, e il giudizio sarebbe soggetta ad alcun appello. Alle multinazionali verrebbe dato uno status giuridico pari a quello di Stati o Nazioni, che vedrebbero così rimuovere le ultime parti della loro sovranità.

il Ministro del Lavoro Myriam El Khomri introduce in Francia la Loi Travail, molto simile al Jobs Act di Renzi, che modifica le leggi del mercato del lavoro. Lei che ne pensa?

Che è semplicemente un abominio. Con la scusa di “semplificare” il Codice del lavoro, si amplia la precarietà e si invertono le conquiste sociali che i lavoratori avevano ottenuto in oltre un secolo di lotte sociali. I punti principali sono chiari: ridurre della spesa sociale, abbassare i salari reali e le pensioni, ridurre i sussidi di disoccupazione e il Welfare, facilitare i licenziamenti, decentrare la contrattazione collettiva, moltiplicare le esenzioni dalle leggi, elimiare virtuale del salario minimo, ecc. Misure prese da Valls e Holland per soddisfare la Commissione europea e gli industriali, che vogliono flessibilità e si lamentano del costo del lavoro, una logica del profitto preoccupata di accumulare illimitatamente capitale, facendo lavorare di più guadagnando di meno, non abbassando la disoccupazione ma moltiplicando i «lavoratori poveri», a cui va aggiunta una politica di austerità che lede il potere d'acquisto e la domanda. Non so se la legge sarà definitivamente adottata (il 31 marzo più di un milione di persone hanno già dimostrato contro di esso in piazza). Quel che è certo è che con questo tipo di iniziativa, il governo del Ps conferma di aver abbandonato ogni forma di socialismo in favore di un «social-liberalismo» sempre meno sociale che ora rappresenta l'ala sinistra del dispositivo politico del Capitale.

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