Header Ads


Consigli di lettura: Gli skinheads e i mass-media fra cinema e fumetto

di Matteo Luca Andriola
Il 1992-93 fu un periodo particolare per la “fascisteria” italiana. I mass-media, di fronte ad alcuni episodi di intolleranza etnica in Europa (l’incendio di Rostock in Germania) e ad una prima ondata migratoria magrebina e slava (è da poco crollato il muro di Berlino e nei Balcani c’è il mattatoio etnico), scoprono il fenomeno skinheads nella sua accezione di destra, i “naziskin”. È il periodo del Fronte nazionale di Franco Freda – che proporrà la difesa della stirpe –, del Movimento politico occidentale, di Meridiano zero e dei primi network skinhead, come Base autonoma, Azione skinheads e il Veneto fronte skinheads, quando la procura di Milano darà il via all’Operazione Runa contro «L’Uomo libero» di Sergio Gozzoli, testata della destra radicale additata a network “naziskin”, mentre riviste come «Avanguardia» e «Orion» criticheranno diversi aspetti delle teste rasate. Usciranno poi centinaia di inchieste (alcune buone altre approssimative) e diversi saggi. Insomma, l’argomento interessò molto l’opinione pubblica.
Noi ci occuperemo brevemente, parlando dell’Italia, della percezione del nostro cinema e del fumetto. Nel primo caso, però, l’Italia da il peggio di sé, sfornando nel 1992 un filmaccio vergognoso e “pecoreccio”, offensivo non solo per gli skin, ma per l’intelligenza del pubblico stesso, ovvero Teste rasate, di Claudio Fragasso, con Gianmarco Tognazzi e Giulio Base, dove compaiono sequenze comiche, come quando il protagonista, un ventunenne svogliato e figlio di un'infermiera che fa i doppi turni per mantenere se stessa e quell'unico figlio che la riempie solo di preoccupazioni e che – dopo aver cambiato ben sette scuole, e di lavoro non se ne parla – viene ritratto mentre legge, fumandosi una canna, il libro Teoria dell'Individuo assoluto di Julius Evola, un saggio che lo stesso filosofo sconsigliò vivamente di leggere ai suoi discepoli, tanto era complesso. Il capo tribù nazi, alias Giulio Base, discetta di "libertà-volontà-potenza", categorie filosofiche evoliane che sono comprensibili solo alla luce dell'idealismo post-kantiano e che evidentemente non sono alla portata non solo del militante medio, ma tantomeno del regista di questo film che va solo visto per farsi quattro risate, qual’ora non diano alla Tv film di De Sica e Boldi.
Ma è il fumetto il caso più interessante: cavalcando gli eventi fra il 1992-1993 e la reazione di una parte della stampa al fenomeno skinheads, la Sergio Bonelli Editore decide di dire la sua, e lo fa in agosto, quando di solito i lettori cercano solo di rilassarsi e non vogliono troppi impegni. Non lo farà tirando in ballo Tex, Zagor, Mister No (ex G.I. che aveva combattuto i veri nazisti, non i loro nipotini), l’archeologo Martin Mystére, Nick Raider (agente della squadra omicidi della polizia di New York), o Nathan Never (serie di fantascienza ambientata in un futuro tecnocratico tipo “Nuovo Ordine Mondiale”, con megalopoli costruite su livelli sovrapposti, dove le multinazionali dettano l’agenda politica, dove la polizia non conta più nulla e i privati costituiscono Agenzie Private di Sicurezza e Vigilanza), ma il fumetto che in quei primi anni ’90 spadroneggiava, al fianco di Tex, nelle edicole per numero di copie vendute: Dylan Dog, l’Indagatore dell’Incubo, pubblicato per la prima volta nell’ottobre 1986 e che in quegli anni venderà ben 520.000 copie mensili, arrivando a superare il milione fra inediti e ristampe, superando, nel giugno 1992, con l’albo n. 69, Caccia alle streghe, il primato di Tex Willer (all’epoca Tex, n. 381: 370.000 copie contro 360.000!). 
Prima di “recensire” l’albo, dobbiamo fare una piccola premessa: Dylan Dog, creato dallo scrittore Tiziano Sclavi, ha però il difetto di essere ultra-politically correct! Il personaggio, ex poliziotto di Scotland Yard che, dopo aver perso la propria ragazza, ex militante dell’Ira, ed esser divenuto alcolista, apre un’agenzia investigativa molto particolare, in Craven Road n. 7, che si occupa di casi paranormali. Bel fumetto dove però – a differenza di Tex – il politically correct, purtroppo si spreca, ed è analizzandolo che capiamo come la Bonelli si accosta agli skins: Dylan è vegetariano (ancora non c’erano i vegani!), animalista e femminista; non tocca un goccio d’alcool; fa sempre l’amore protetto e si innamora di tutte le ragazze, pur cambiando tipa in ogni numero; pur avendo una pistola (una Bodeo del 1911) non la porta mai, dato che è pacifista, non-violento e se la fa tirare dal suo assistente, Groucho, un sosia dell’omonimo Marx, stesse battute demenziali, ma spesso sottopagato (scusami Dylan: questo non è molto di sinistra!). Non solo: nei fascicoli di Dylan Dog, il motto basilare è Le freack c’est chic!, visto che solitamente i mostri non sono “cattivi”, ma lo è la società che li ha prodotti, coi suoi borghesi molto caricaturali, una Londra dove i tossici sono tali per colpa della società, ma rimangono nobili, non scippando, non gettando siringhe infette e non elemosinando. Un fumetto bellissimo, se non fosse per questi stereotipi “alla Sinistra Ecologia e Libertà”, elencati da Claudio Paglieri, giornalista de «Il Secolo XIX», nel suo Mi chiamo Dog, Dylan Dog. L’eccessivo politically correct,

«… vale anche per le minoranze etniche: per esempio i negri, anzi i neri, sono tutti stupendi e generosi, e anche quelli che vivono di espedienti, rapine e omicidi hanno un loro codice d’onore (nel numero 76 salvano la vita a Dylan perché giorni prima aveva comprato degli accendini da uno di loro). Nel numero 138 il politically correct è talmente esagerato da risultare fastidioso: il protagonista è infatti un negro grande grosso e tontolone, che viene accusato ingiustamente per l’omicidio commesso da un sosia; il poveretto è talmente buono, generoso e passa il tempo a curare gattini ciechi e orfanelli mutilati, eppure contro di lui si scaglia l’intera società occidentale: viene torturato dai poliziotti bianchi (tutti violenti e corrotti), angariato dal tribunale da un avvocato nazista e un giudice del Ku Klux Klan, condannato contro ogni regola di elementare buon senso da una giuria di wasp e infine massacrato di botte in carcere. Quando finalmente il sosia viene scoperto, il negrone può essere riabilitato; come evitare, però, che un suo «fratello» possa rivelarsi cattivo? Semplice: il sosia era un perfido bianco camuffato con il lucido da scarpe!»[1]

In quegli anni, con Tiziano Sclavi ospitato più volte alle feste di Liberazione di Rifondazione comunista, l’albo verrà usato dalla casa editrice in campagne pubblicitarie ultra-progressiste.[2] Capiamo perché, nel n. 83, agosto 1993, quello che a noi interessa e che farà scalpore, intitolato Docktor Terror, l’approccio con gli skin non è “capiamo!”, ma “condanniamo a priori”. In copertina un vecchio medico nazista incartapecorito, col viso arcigno e malvagio, con in mano dei bisturi. Sullo sfondo un ritratto di Hitler e, in basso, Dylan Dog pestato a sangue dagli skin. Nel fascicolo, cavalcando il successo mediatico di Maus di Art Spiegelman (vincitore dello Special Award del Premio Pulitzer), apparso a puntate su Linus nel 1991, poi ristampato da Einaudi nel 2000 – dove il cartoonist narra le vicende dei genitori, Vladek e Anja Spiegelman, due ebrei nella Polonia degli anni ’30, le persecuzioni e l’internamento ad Auschwitz, una storia narrata a fumetti dove gli ebrei diventano topi (dove l’incipit iniziale è la frase del leader nazionalsocialista Hitler «Gli ebrei sono indubbiamente una razza, ma non sono umani»), i tedeschi i gatti, i polacchi suini, i francesi rane e gli anglo-americani dei cani – Sclavi parla del fenomeno skinhead, e a guidarli c’è il vecchio Dr. Terror, che appare negli incubi di una giovane ebrea, che si scopre, infine, una vecchia deportata di Auschwitz, mentre l’antagonista di Dylan è un vecchio medico dei lager nazisti. Surreale la scena in cui Dylan, pestato a sangue dagli skin, è alla ricerca del dialogo con loro e, dopo averle buscate nell’indifferenza di tutti, si sente vincitore! 
Ma la cosa che colpisce dell’albo è la presenza, nel parlamento, di Lord Grimmel, un deputato che ha le fattezze di Umberto Bossi, leader della Lega Nord, in un periodo in cui il leghismo (come oggi con Matteo Salvini) è additato a fenomeno populista di destra (in un periodo in cui se la giocavano col Msi-Destra nazionale di Gianfranco Fini, questi cavalcando l’onda di Tangentopoli a Sud, mentre Bossi al Nord) che nel fumetto non solo difenderà gli skin chiedendone l’impunità, ma addirittura proporrà “leggi razziali”. Un «fatto casuale», un «equivoco», diranno gli autori, subito sommersi dalle lettere di protesta e da possibili querele, che arriveranno a modificar le fattezze somatiche del deputato ultraconservatore. E i lettori militanti? Interessante la testimonianza di Stefano Cordari (1º settembre 2015), uno dei contatti di Facebook che spesso interagiscono sulla mia bacheca e su quella di Ugo Maria Tassinari e di Giuseppe Parente, oggi educatore, militante d’area e all’epoca testimone di quegli eventi, un lettore deluso da quell’albo di «Dylan Dog»:

 «So che da quell'albo alcuni iniziarono a non comprare più Dylan Dog in quanto non amarono questa deriva politica. Non era gente di destra che se la prese, era gente che colse l'onda della strumentalizzazione bieca che, a tutti gli effetti, era evidente. […] Era da anni che non si toccavano temi politici in seno al mondo giovanile e finché il mondo skinhead rimaneva allo Stadio a Milano (i primi articoli sugli Skins erano relativi all'Inter ed alle Colonne di San Lorenzo) se ne occupavano in pochi e come mera subcultura di nicchia. L'inizio del fenomeno migratorio in Europa, o il suo incremento al di là di nazioni come Francia e Gran Bretagna che lo vivevano da tempo, o la questione sempiterna tedesca, fece il resto. In Italia, come sempre, il peggior giornalismo andò in fibrillazione in quanto poteva agitare spettri del passato sopiti e legami inesistenti con gli oramai morenti reduci della Wehrmacht in alcuni paesi o, molto più difficilmente, con i reduci della RSI, in Italia».



[1] C. Paglieri, Mi chiamo Dog, Dylan Dog. Vita e imprese di un playboy fifone, Venezia, Marsilio, 1998, pp. 43, 44.
[2] In quegli anni la testata a fumetti «Dylan Dog» risulterà fortemente schierata a sinistra, cosa non sempre gradita dai lettori. Facendo suoi dei valori antitetici a quelli che andavano per la maggiore negli anni ’80, quando il fumetto nasce, il fumetto sembra apparire di rottura. Quando negli anni ’90 tornano di moda il volontariato, l’impegno, la lotta alla corruzione, il primato della politica (paradossalmente in una fase dove prevarrà il potere della magistratura e, poco per volta, quello della finanza), Dylan Dog viene promosso a fenomeno di costume, e la sua immagine sfruttata (alla pari di Lupo Alberto, Diabolik e molti altri fumetti), sia dalla Sergio Bonelli Editore che dai mass-media, come testimonial per tante battaglie progressiste e di «educazione civica», come la lotta all’Aids e all’uso del preservativo, contro la fame nel mondo (qualche anno dopo il Partito radicale), contro l’abbandono degli animali in autostrada, le stragi del sabato sera, per la ricostruzione post-alluvionale e, in tempi recenti, contro il “femminicidio” e la violenza sulle donne (con l’Astorina che userà Lady Eva Kant, la consorte di Diabolik: lui le donne non le picchia!). La goccia che farà traboccare il vaso, portando molti lettori a criticare la Bonelli, è per aver concesso l’uso dell’immagine dell’Indagatore dell’Incubo per il concerto organizzato il 1º maggio 1997: «Non venitemi a dire che quel concerto non aveva nessun significato politico o che era un semplice raduno di giovani patiti di musica rock», protesta un lettore deluso nel Dylan Dog Horror Club, la rubrica postale, nel n. 132, 

Nessun commento:

Powered by Blogger.