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Per finire, si spera con Anna LB e il suo canto di una ragazza fascista di altri tempi

Giusto due righe di legenda. Il primo testo è la lettera scritta da Anna Lamberti-Bocconi a "Femminismo a sud", il blog che ha scatenato la polemica sulla sua performance a Roma, nell'atelier occupato dai disobbedienti romani, la seconda lo stralcio di un'intervista a Nazione indiana in cui ricostruisce il rapporto tra realtà storica e invenzione poetica.
Care tutte, cara Fikasicula. Eccomi qua. Salto la parte di autopresentazione, salto le premesse sui miei trent’anni di scrittura pubblicata, passo a parlare subito del mio poemetto, per chi avrà voglia di leggere. Cosa ho voluto fare. Cosa c’è dentro e cosa c’è dietro. Il poemetto si compone di cinque canti. Nel primo, quello che si trova su youtube, la ragazza fascista racconta la sua storia, che è la storia di una crescita sbagliata e sbandata, di un forte ribellismo indirizzato in maniera decisamente fallimentare, in anni molto duri e violenti. Pur narrando il dipanarsi di una parabola di vita, si vede però che il fuoco dell’obiettivo, l’indice dell’accusa è puntato fin da subito sull’istituzione familiare, tanto socialmente indiscutibile, vero tabù e paravento per tutti, quanto in realtà – e penso che lo sappiate bene anche voi – tremenda e stracolma di violenze fisiche e psicologiche protette e benedette fra le mura di casa. In effetti, tutta l’opera ha come ambientazione il neofascismo, ma come cuore la denuncia della “famiglia” quando non capisce, non sa dare, non sa spiegare il mondo e renderlo vivibile ai figli che ha generato.
L’altra chiave di lettura importantissima è quella esistenziale: la propria anima, l’io messo a nudo dai contrasti e dalle situazioni estreme. Nel tutto e nel nulla che si chiama esistere, nella resa dei conti che ci è chiesta ogni secondo, se guardiamo la vita dritta negli occhi, denudati di ogni sicurezza. E per me personalmente, questo denudamento è dato proprio dal mettermi a specchio con gli aspetti della vita più difficili e più lontani da me. Ora, come già nel mio romanzo precedente, “Rumeni”, si tratta, sì, di opere corali, ma l’io narrante, il protagonista, qui non sono i neofascisti e là non sono i giovani immigrati rumeni: in “Rumeni” è Anna, nel “Canto” è la Poetessa.
INTERVISTA
Antonio: Cara Anna, da pochi giorni ho letto il tuo Canto, letto d’un fiato, perché non mi pare che si presti a molte interruzioni, e mi ha molto colpito. E allora mi piacerebbe parlarne con te, qui in pubblico: una recensione- intervista con l’autrice: la prima domanda è quasi d’obbligo: c’è qualche elemento autobiografico nella storia, o meglio nelle storie, che compaiono in questo vero moderno poema epico?
Anna: Più di uno. Innanzitutto per l’io narrante: se riguardo al mio libro precedente, Rumeni, ci tenevo a specificare che la protagonista mi somigliava ma non ero del tutto io, qui devo ammettere che il personaggio della poetessa è proprio un autoritratto, fa le cose che faccio io, gira da sola a piedi a tutte le ore, guarda tutto, interroga tutto, si siede sulle panchine, con quella libertà tra l’eroico e il trasognato di chi non ha più niente da perdere. Poi c’è Milano, il mio scenario d’elezione, una città che più autobiografica di così non si può. Al dritto e al rovescio, dal 1961 a oggi.
Per quanto riguarda le storie, quella di Filippo e quella di Francesco sono tutte inventate, anche se, per Filippo quando parla dell’alpinismo, mi sono ispirata a un paio di ragazzi di gran valore miei amici, entrambi “cuori neri”, che fanno scalate in solitaria e vivono questa pratica come una disciplina di elevazione spirituale, una sorta di arte marziale occidentale [i due amici sono Maurizio Murelli e Omar Vecchio, ndb].
Invece la ragazza fascista ha degli agganci abbastanza puntuali con cose realmente avvenute. Era decenni che mi portavo dentro il ricordo vago ma rilevante di una ragazza un po’ più grande di me, la figlia di un collega di mio padre (per l’appunto, “un avvocato anni Sessanta”): un’adolescente difficile, prepotente, allo sbando per carattere, per famiglia, chi lo sa, che crescendo ha seguito davvero la parabola autodistruttiva che ho raccontato (anche se poi nel testo molte cose le ho aggiunte o le ho cambiate). Erano anni duri e io ero poco più che una bambina. Sai quando da piccoli si percepiscono delle cose ma senza capirle bene, e perciò rimangono nel mistero, si piantano a fianco della vita che passa, e acquisiscono persino un fascino, una teatralità laterale… Evidentemente questa immagine mi ha accompagnato in silenzio per tanti anni, e poi a un certo punto è venuto il momento di farla parlare.
Infine vorrei aggiungere che, dal punto di vista della mia autobiografia psichica, tutte le passioni perdenti, anche quelle non vissute in prima persona, fanno da travi portanti; e non chiedetemi il motivo, perché non lo so. So solo che – da tutta la vita – quel che colgo attorno a me di acceso, convinto, romantico, sbagliato, sbaragliato, morale, immorale, sacrificale, mi si installa subito in animo e non mi molla più, diventa mattoni.

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