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“La Trinacria non si tocca”. Il regionalismo dei non-conformi di Sicilia

di Fernando M. Adonia
Levata di scudi contro la proposta di togliere la Trinacria dalla bandiera siciliana. Ad avanzarla è stato Sandro Oliveri, capogruppo autonomista al consiglio comunale di Palermo e fervente cristianista dai tratti teocon.
Stando all’esponente mpa, la Trischelles siciliana richiamerebbe la paganità “in lampante antitesi con la cultura e l’essenza del Cristianesimo”. Per questo sarebbe stata indetta una raccolta di 10.000 firme per la promozione di un referendum d’iniziativa  popolare finalizzato alla “rimozione di essa dal gonfalone della Regione Siciliana”. La disapprovazione è generale.

Il dato su cui c’interessa riflettere è tutto nelle parole apparse nel blog del Comitato Giovanile Indipendentista che fa capo al Fronte Nazionale Siciliano, una delle tante sigle della galassia sicilianista: «perfino gruppi politicamente schierati in maniera abbastanza netta come i giovani di CasaPound sono intenzionati a partecipare alla protesta, nonostante sia nota la loro distanza da idee ‘localistiche’». Ebbene sì, le tartarughe di Ezra Pound, spesso animate da un fortissimo spirito “risorgimentale”, hanno rigettato la proposta nata dai cantieri del presidente Raffaele Lombardo, apostrofandola come ''iniziativa anti-siciliana''. Difficile non notare, spulciando tra le pagine dei blog della sezione palermitana di Cpi, ma anche delle altre realtà non-conformi siciliane, di quanto sia stata  presa sul serio a destra la difesa della bandiera sicula, una battaglia sostanzialmente regionalista e territoriale. Contraddizione? Affatto. Quelli di Patria e identità sono due valori e atteggiamenti da sempre cari alla cultura destrorsa. Idee che, per portar frutto, devono ancorarsi necessariamente ad un dimensione cittadina, regionale, nazionale ed europea. L’idea di patria o è centripeta o non è. Il frazionamento della dimensione identitaria è da stimare coma una defezione
politica, una malattia: l’impazzimento di una cellula.
Il localismo autoreferenziale, quello cioè campanilistico, è orbo; così come lo è il rigido nazionalismo uniformante. L’identità è una dimensione sinfonica, viva e plurale come “la Pastorale” di Beethoven. L’adagio musicale non può che essere appropriato, visto che l’amalgama dei popoli è sempre, o quasi, una ballata o un inno.  Sono dati questi che alla vigilia dei festeggiamenti per i centocinquantanni dell’Unità d’Italia non possono essere elusi, soprattutto in un momento in cui le distanze tra il Nord e il Sud del paese sembrano acuite, e non solo per motivi economici. L’Italia è una somma “d’italie”. C’è poco da fare. Lo spot Rai di quest’anno per il canone è puntuale (almeno questo concediamolo ai parrucconi di Viale Mazzini). La nazione italiana, e con essa la destra, dovrebbe risolvere un dissidio mai placato: armonizzare le “patrie”, cullarle in un unico adagio. Nazione e regioni, centralismo e federazioni: sono temi che potrebbero convivere senza grosse fratture e tensioni. Non a caso il motivo della riscoperta delle identità particolari era uno degli ingredienti di quel grande laboratorio ideale che fu la Nuova destra, e con essa i Campi Hobbit. Peccato però, che nell’incapacità di gestire un tema così complesso, l’immaginario politico-identitario si sia frazionato “cum ira” tra missini e leghisti, perdendo così il proprio potenziale esplosivo. Che dire: uno dei tanti rimpianti italioti.

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