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28 febbraio/3 - La morte di "Cremino" e la fine di Lotta popolare

(umt) La quarta vittima della catena di sangue che si inanella da Primavalle è Mario "Cremino" Zicchieri, un giovanissimo militante di Lotta popolare, ucciso da un commando della guerriglia rossa davanti alla sezione del Msi del Prenestino, che era uno dei capisaldi della frazione peronista diretta da Paolo Signorelli. Segue il giorno dopo un morto per sbaglio, in una immediata rappresaglia. Ma con la vita di "Cremino" si consuma anche il sogno ambizioso di un movimentismo missino capace di riportare il partito a una dimensione sociale e popolare. Il testo stavolta è tratto dal capitolo di Naufraghi (Immaginapoli, 2007) dedicato alle vicende di Lotta popolare. Qui si può leggere il primo e il secondo post dello "speciale 28 febbraio"
 Agli inizi del 1975, sotto l’incalzare della repressione, prende piede il più significativo tentativo di unificazione tra i gruppi della destra radicale, segnati da un elevato tasso di litigiosità interna e di diffidenza reciproca. Referente italiano del processo è un professore di filosofia, quarantenne, bello e trasgressivo, Paolo Signorelli, che concilia militanza pubblica (consigliere comunale a Roma e membro del comitato centrale del Msi) e solidarietà con i camerati che hanno guai con la giustizia. Dopo la messa al bando, il “professore” riprende i rapporti con Graziani e ricicla gli ordinovisti “coperti” nel suo circuito associativo “culturale”. Al tempo stesso si lega alla nascente frazione movimentista del Msi, Lotta popolare, radicata in una quindicina di sezioni della periferia romana, dal Prenestino al Portonaccio, che incanala la voglia di rialzare la testa di tanti militanti schiacciati tra il martello della piazza antifascista e l’incudine delle “toghe rosse”.
Gran parte dei giovani attivisti romani (compresi il segretario provinciale Teodoro Buontempo e il suo vice Paolo Sgrò) vivono con insofferenza la svolta perbenista di Almirante – che punta sulla “destra nazionale” – e reagiscono a quella che ritengono una perdita di identità, con un ritorno alle origini, un’accentuata attenzione ai problemi sociali (carovita e senzatetto). In una prima fase in Lotta popolare convivono due anime: chi, come Buontempo, non intende rompere la disciplina di partito e chi, invece, come Signorelli, il chirurgo miliardario Carlo Alberto Guida, presidente del Centro sportivo Fiamma e il segretario di piazza Bologna, Romolo Sabatini, si contrappone strategicamente alla deriva moderata. Il movimentismo favorisce l’afflusso di extraparlamentari senza gruppo o semplicemente “tornati a casa”: militanti duri, provati da anni di scontri di piazza. Il processo per il rogo di Primavalle (i due figli del segretario missino morti carbonizzati in un incendio appiccato da dissidenti di Potere operaio) è la prima verifica – tragica – per questa alchimia che intende rifondere, in un solo corpo, missini intransigenti, gruppettari messi al bando e riciclati, cani sciolti e disillusi.
Il successo dei primi giorni (controllo dell’aula, pestaggi nei dintorni di piazzale Clodio), rilassa la truppa: per il 28 febbraio l’ordine è di partecipare tutti all’udienza, disarmati. Ma i servizi d’ordine avversari – punti nell’orgoglio – proprio quel giorno hanno deciso di riprendersi la piazza. Così un centinaio di giovani assaltati da un’orda sovrastante trova riparo nel portone laterale del Tribunale aperto provvidenzialmente dai carabinieri. I “neri” assediati sono scortati a gruppi alla sezione più vicina ma i responsabili dell’ordine pubblico non presidiano piazza Risorgimento e così, mentre è in corso il secondo trasferimento, un commando “rosso” attacca a pistolettate i primi arrivati, ammassati nell’androne del palazzo, e uccide, con un colpo alla testa, lo studente greco Mikis Mantakas, attivista del Fuan. Seguono i consueti “giorni della rabbia”: per una settimana Prati è interdetto alle “zecche” (compagni e capelloni), ma molti sono insoddisfatti della qualità della rappresaglia. Invocano un raid armato in un quartiere proletario, per devastare i “covi rossi” e lasciare a terra i “compagni” intercettati o almeno provocare scontri durissimi. Nel corso di una discussione molto animata, qualche testa calda “mena” un dirigente nazionale giovanile contrario alla vendetta: Gianfranco Fini.
Il clima politico è sempre più militarizzato. In primavera sono numerose le vittime della violenza e la risposta statale, il varo della legge Reale che estende il ricorso alle armi da parte delle forze dell’ordine ucciderà negli anni decine di innocenti. Il 13 marzo a Milano una squadra del servizio d'ordine di Medicina di Avanguardia operaia massacra a sprangate sotto casa un attivista del Fdg, Sergio Ramelli, già costretto a ritirarsi da scuola. Morirà dopo 47 giorni di agonia. Il 16 aprile a Milano Antonio Braggion, aggredito con altri camerati da una squadra del Movimento lavoratori per il socialismo, reduci da una manifestazione per la casa, si difende sparando e uccide Claudio Varalli. Il giorno dopo, durante l’assalto alla federazione milanese del Msi, muore stritolato da un camion dei carabinieri Giannino Zibecchi, dei Comitati antifascisti. A Torino, al termine di una lite nelle case popolari occupate alla Falchera, un vigilante attivista della Cisnal uccide un dirigente di Lotta continua, Tonino Miccichè. Il 19 aprile a Firenze durante un corteo antifascista alcuni poliziotti in borghese aprono il fuoco uccidendo uno dei manifestanti, Rodolfo Boschi. E’ arrestato un quadro di Potere operaio, Francesco Panichi, rimasto ferito nella sparatoria: era convinto che ad attaccare il corteo fosse stata una “squadra” neofascista”. Il 25 maggio a piazza San Babila uno studente lavoratore, Alberto Brasili, è ucciso a coltellate. La notte tra il 16 e il 17 giugno una studentessa napoletana, Jolanda Palladino, è colpita da una molotov lanciata da un gruppo di militanti della sezione “Berta” del Msi contro il corteo d’auto che festeggia la vittoria elettorale delle sinistre. Morirà dopo pochi giorni di agonia.
Anche Lotta popolare finisce per avvitarsi sulla questione della forza. L’occasione, a fine ottobre, è la richiesta di rinvio a giudizio di Alvaro Lojacono (latitante) e Fabrizio Panzieri (detenuto), i due accusati per l’omicidio Mantakas. Un commando delle Formazioni comuniste armate, i fuoriusciti di Potere operaio che fonderanno la colonna romana delle Brigate rosse, decide l’immediata ritorsione: poiché uno dei testi di accusa è il segretario del msi Prenestino, Luigi D’Addio, sparano con un cannemozze contro i ragazzini che stazionano davanti alla sezione. Forse non volevano uccidere, ma un sedicenne morirà dissanguato per la rottura dell'arteria femorale.  Anni dopo alcuni “pentiti” accuseranno del delitto il brigatista Germano Maccari, il quarto uomo del caso Moro. Ma il braccio destro di Valerio Morucci, non ancora individuato per la sua presenza nella “prigione del popolo” di via Montalcini, se la cava per insufficienza di prove. Dal suo canto Lojacono, un altro fedelissimo di Morucci, è accusato di aver partecipato al sequestro la mattina del 16 marzo 1978 e sarà condannato per aver ucciso il giudice Tartaglione.

Mario Zicchieri, noto come “Cremino”, è un attivista di Lp: mentre i militanti esprimono la propria rabbia scontrandosi con la polizia i dirigenti battono i pugni sul tavolo del partito. Il secco no di Almirante alla rappresaglia segna lo strappo definitivo. Il giorno dopo a San Lorenzo, vicino alla sede di Lotta continua, è ucciso un passante che ha la sfortuna di somigliare a un leader del gruppo. Antonio Corrado sarà uno dei tanti morti per sbaglio in quegli anni feroci. La spaccatura col vertice si allarga: è interdetta ai capi la presenza ai funerali. Un breve saluto è concesso solo a Romualdi. Anche i fedelissimi di Almirante, da Fini a Gasparri, portano al braccio la fascia di lp. Un corteo folto e rabbioso punta su via Quattro fontane per occupare simbolicamente la direzione nazionale. La polizia blocca i dimostranti all’altezza del Viminale, ma gli scontri sono lunghi e violenti. La reazione del partito è decisa: espulsione immediata per i quadri, D’Addio, Sabatini e Sgrò; processo politico in comitato centrale per i dirigenti nazionali, Signorelli e Guida. L’unanime sentenza di espulsione chiuderà formalmente il contenzioso a maggio 1976, ma la vicenda di Lotta popolare si è già confusa, come poi nelle inchieste giudiziarie, nei grandi giochi in corso nell’ultradestra. (3-continua)

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