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Acca Larentia, il libro: la recensione di Adinolfi e una mia nota di metodo

Ho già avuto modo di scrivere parole di apprezzamento sul libro di Cutonilli e Valentinotti dedicato ad Acca Larentia. Ho anche cominciato febbrilmente la lettura ma mi sono fermato per un intoppo di metodo non da poco. Quando ho cominciato la mia ricerca "matta e disperatissima" sulla fascisteria una delle regole di ingaggio che mi ero dato è che non avrei utilizzato come fonti informative le mie conoscenze dirette. E questo spiega perché io abbia sempre parlato poco e di sfuggita delle vicende napoletane che ovviamente pur conosco approfonditamente... Sulla storia di Acca Larentia il problema si ripropone con forza: perché io ho avuto per alcuni anni intensi rapporti politici con l'area dei Comitati comunisti anche se non ne sono mai stato un militante. E quindi so per conoscenza diretta che una delle tesi fondative del lavoro di Cutonilli e Valentinotti è inesatta: non esiste una unicità organizzativa da Potere operaio ai Cocorì e dietro le varie sigle della guerriglia romana attive in quegli anni. Le scissioni, le liti, i contrasti organizzativi e personalistici erano assolutamente reali. E quindi mentre mi schiarisco le idee per capire come procedere vi propongo la recensione di Gabriele Adinolfi

Gli invitti non dimenticano di Gabriele Adinolfi

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“Uccidere un fascista non è reato”  Sembrava uno slogan ma era maledettamente vero. Alzi la mano chi ricorda un omicidio di camerati che abbia ottenuto giustizia. La strage di Primavalle si è trasformata in omicidio colposo. Nessuno ha pagato per l'assassinio di Mikis Mantakas benché uno degli sparatori, Fabrizio Panzieri, fosse stato catturato quella mattina stessa, immediatamente dopo aver gettato a terra la pistola ancora fumante. Successivamente sarebbe stato condannato a otto anni per “concorso morale in omicidio”... Ma il segretario nazionale del partito socialista di allora, Giacomo Mancini, lo sostenne a spada tratta e Panzieri riparò all'estero. Come Alvaro Lojacono, altro assassino di Mantakas, poi attivo in via Fani nel commando che rapì Moro annientandone la scorta.
Il commando che massacrò a colpi di spranghe il giovanissimo Sergio Ramelli subì condanne irrisorie. Francesco Cecchin e Paolo Di Nella sono rimasti senza giustizia.
E si trattava di assassini commessi da rossi; ebbero lo stesso trattamento di favore di coloro che, in divisa, uccisero dei giovani fascisti. La giustizia in Italia va così e soprattutto i fascisti hanno un peccato originale e sono morti di serie B.
Non si sa ancora chi abbia assassinato Mario Zicchieri; e se Stefano Recchioni, ucciso poche ore dopo sullo stesso posto dalle “forze dell'ordine” non ha avuto alcuna giustizia, mai  si è saputo chi abbia compiuto la strage di Acca Larentia stroncando le vite di Francesco Ciavatta e di Franco Bigonzetti.
Ma è veramente così?
Un'impunità sistematica e assoluta
Niente affatto, il libro-inchiesta realizzato dagli avvocati Valerio Cutonilli e Luca Valentinotti con la collaborazione di Beatrice Ricci, edito per la Trecento (187 pagine per 15 euro) ci dimostra letteralmente il contrario.
Gli autori, già impegnati in prima linea nel Comitato L'ora della Verità e in studi documentati sui depistaggi a proposito delle stragi di Ustica e Bologna, hanno compiuto un'opera rigorosa di ricostruzione basata  sulle carte processuali e sui verbali di polizia, integrata da alcune interviste.
Ne emerge una verità sconvolgente. Gli inquirenti hanno sempre saputo tutto ma hanno preferito assolvere o prosciogliere anziché pronunciare sentenze di condanna.
Giudici notori per condannare imputati di terrorismo sulla base di indizi labili o per “sentito dire” hanno volutamente tenuto in nessun conto testimonianze incrociate di pentiti perlaltro considerati  attendibili in tutti gli altri loro processi, né hanno dato peso agli indizi probanti, o alle relazioni di polizia e hanno assolto gli imputati o sentenziato strabilianti non luogo a procedere.
Si è giunti al punto di considerare irrilevante la singolare circostanza che accanto alla sezione di Acca Larentia vivesse, all'epoca, un tal Stefano De Maggi, attivo negli ambienti borderline di zona, che di lì a breve fu incaricato dalle BR d'addestrare al tiro gli aspiranti guerriglieri delle organizzazioni di cerniera tra partito armato e movimento. Che lo stesso De Maggi li allenasse al tiro mediante una skorpion in suo possesso, una skorpion che quasi certamente è la stessa che consumò la strage proprio accanto alla sua porta di casa, sembra non avere interessato  alcun inquirente.
Così come sembrano non interessare  tutte le confessioni di terroristi pentiti che, in assoluta concordanza con le analisi di polizia, attestano che la nebulosa di sigle armate operanti a Roma in quel '78 (Lapp, Fca, Nact) copriva un' organizzazione gerarchizzata e strategica che faceva capo al Cocori dell'area dell'autonomia e che era indirizzata dalle Brigate Rosse.
Un baratto illustre
Perché mai si è voluta assicurare l'impunità a chi a quel tempo uccise i fascisti? Certamente per il fatto che costoro non hanno santi in paradiso ma anche – ci suggeriscono Cutonilli e Valentinotti
con l'ausilio di altri loro colleghi e pure di qualche magistrato – per una sorta di baratto illustre.
La loro stagione di fuoco servì all'offensiva in cui si consumarono l'assalto a via Fani, il sequestro di Moro e la sua uccisione.
La verità sull'intreccio internazionale che si staglia sullo sfondo del caso Moro non può divenire verità giudiziaria perché si dovrebbe confessare l'inconfessabile, non solo sull'abdicazione dello Stato ma anche sul ruolo di potenze “alleate” (Francia, Inghilterra, Israele) che ci facevano la guerra. Si dovrebbe rimuovere per intero ogni dogma sulla strategia della tensione, sull'immacolatezza della sinistra “rivoluzionaria” e perfino sul ruolo subalterno, connivente con il potere, cui la vulgata dettata dal Pci ha relegato le destre estreme addebitando loro una funzione che invece spettò proprio alla sinistra radicale con le sue relazioni organiche con l'Internazionale Socialista, con Hypérion e con vari servizi dell'est e dell'ovest.
In cambio di un'amnistia mascherata e di qualche impunità – suggeriscono Valentinotti e Cutonilli -
i brigatisti provenienti dagli ambienti romani di Potere Operaio prima e di Autonomia Operaia poi, avrebbero accettato di sostenere ricostruzioni di comodo sia sulla composizione del commando di via Fani, sia sul luogo del sequestro, sia sul luogo e l'ora dell'esecuzione di Moro, sia, forse, sull'identità del suo uccisore materiale.
E su quell'altare, insieme alla verità inconfessabile, sarebbe stata sacrificata la giustizia per i fascisti mentre alcuni pluriomicidi, facenti parte della struttura armata che fungeva da cerniera tra movimento e Brigate Rosse, hanno ottenuto l'impunità così come tutti coloro – e sono tanti – che della stagione omicida furono più responsabili di chi premette il grilletto: giornalisti, intellettuali, docenti, artisti intrisi di miti “partigiani” che andavano propagandando e sostanziando.
E per quelli che non hanno potuto godere appieno dell'impunità ci sono state vie di fuga e  accoglienze in santuari come la Svezia, il Brasile o il Nicaragua.
Il che, sia chiaro, non varrebbe per tutti i rossi ma per coloro che sono rientrati nel pacchetto del baratto-Moro. Anche a sinistra ci sono imputati di seie A, di serie B e di serie C e si gode spesso di privilegi di classe.
Nessuno chiede di essere vendicato da un tribunale
Il libro-inchiesta è documentato, rigoroso, scorrevole e privo tanto di retorica lacrimosa quanto di animosità forcaiola.
Mario Tuti ebbe una volta a spiegare in televisione la scelta armata praticata dalla destra radicale: “Abbiamo voluto dimostrare che se uccidere un fascista non era reato era però pericoloso”.
Ed è per questo che, originariamente, nacquero i Nar, con il passamontagna di Franco Anselmi intriso quel 7 gennaio 1978 nel sangue di Stefano Recchioni sparso sul selciato.
Oggi nessuno dei fascisti di allora, qualsiasi scelta abbiano compiuto in seguito, chiede di essere vendicato da un tribunale.
“Ci basta la verità, ci basta guardare negli occhi i nostri assassini”, hanno ripetuto più volte i superstiti di allora.
Questo è lo spirito di Marco Lucchetti, ferito insieme a Mario Zicchieri e che ancora oggi ha le sequele di quei colpi di fucile a canne mozza negli arti.
Maurizio Lupini, il militante che scampato per miracolo ad Acca Larentia soccorse Franco e Francesco, non sembra pensarla diversamente. E vorrebbe che fossero di più e più rappresentativi i rossi disposti a parlare francamente con lui, con loro, con noi.
La serenità guerriera prevale sul rancore, me nessuno deve approfittarsene e men che meni prendersi gioco di essa.
“Il fascista è ingenuo, per natura. Ma vogliamo dimostrare che una cosa è l'essere ingenui, un'altra è il passare per fessi”. Questa potrebbe essere la filosofia di fondo che accompagna il libro-inchiesta Acca Larentia quello che non è mai stato detto.
Un libro straordinariamente documentato e di un'obiettività esemplare che coloro i quali si sbizzarriscono in ricostruzioni storiche sugli Anni di Piombo solitamente non conoscono.
Un libro magistrale. Da non mancare: se non altro per la nostra memoria e in onore di chi ha offerto il petto al piombo neopartigiano.
L'esempio degli invitti
In conclusione un paio di considerazioni mi paiono imperative.
La prima è che il mondo discriminato, aggredito, assediato, decimato, che fu quello della destra radicale della mia giovinezza, ha avuto l'incoscienza di tener botta, da solo, contro chi gli aveva mosso guerra. Chi lo voleva annientare, questo mondo marziano di fascisti, aveva mezzi, armi, numeri, sostegni, appoggi in sovrabbondanza. Godeva di soviet in magistratura, nel giornalismo, in polizia, di appoggi politici internazionali, di coperture di ogni natura e persino d'impunità quando operava contro di noi. I fascisti di contro non avevano null'altro che il coraggio, la foga, la determinazione; dovevano arrangiarsi da soli, improvvisare.  Così fecero, sia in politica sia in guerra civile.
Non avevano né potevano realisticamente perseguire altri obiettivi se non quello di non abbassare la testa, di non piegare le gambe.
Il mio mondo di marziani ha pagato caro, ma la testa non l'ha abbassata, alle intimidazioni e alle persecuzioni non si è arreso: ha pagato caro ma è invitto.
Basta paragonare a quelli di ogni ambiente avversario il suo stato di salute, il suo orgoglio della memoria, i suoi legami di sangue che si ripetono senza cessa, il suo perpetrarsi e moltiplicarsi nelle generazioni più giovani, per rendersi conto che noi non abbiamo perduto.
La seconda è che, calunniati sempre, privati ad aeternum di qualunque giustizia, abbiamo maturato un amore per la verità e per l'obiettività. Sicché ciò che di serio è emerso nelle ricostruzioni di quegli anni nella storia del nostro Paese lo si deve in grandissima parte al nostro ambiente militante il quale, con poche eccezioni eccellenti, è stato forse l'unico a non seguire criteri di costruzione “selettivi”, ovvero a non volere a tutti i costi tacere alcune responsabilità a scapito di altre, a non perseguire piste preconfezionate, a non esitare a modificare opinioni in corsa se, imbattendosi nei dati oggettivi,  doveva mutare radicalmente la direzione d'indagine.
Obiettività e rigore senza abbondonare le emozioni: l'ethos può contenere il pathos; solo gente discentrata deve abdicare all'uno o all'altro.
Un'alchimia è dunque riuscita, quella che garantisce la nostra specificità. L'essere al contempo una Parte che si tramanda, che si perpetua, nel rituale, nel ricordo e nell'identità – malgrado gli sforzi osceni e chiassosi dei carrieristi – e lo specchio del Tutto, della Nazione.
Non vogliamo che la nostra storia annulli, neghi o mutili la storia nazionale.
Per questo, a differenza da tutti gli altri, intendiamo raccontarla con obiettività e senza pregiudizi: anche in questo vogliamo essere esempio.
E questo libro è esemplare. Degno dello spirito superiore di chi ci ha aperto la strada scrivendo con il proprio sangue.

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