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L'infinita storia del processo alla Guardia nazionale padana - 2

La norma salva-Lega (l'introduzione in "sede extraparlamentare" in una norma di semplificazione legislativa dell'abolizione del reato di "associazione militare a scopi politici" che "amnistia" 36 militanti leghisti) ha scatenato le furie dipietriste. Noi siamo dell'idea, invece, che è più grave che - a prescindere dagli intoppi per valutare l'impunipilità di parlamentari nazionali ed europei - un'indagine preliminare duri 14 anni. E così riprendo da Fascisteria 1 la storia dell'inchiesta sulla Guardia nazionale padana e così tutti ci rendiamo conto che stiamo parlando di un'altra vita politica. Questa è la seconda parte. La prima la potete leggere qui.

Il referendum autogestito sull’indipendenza, il 25 maggio 1997, è l’occasione per un durissimo scontro con i Prefetti (Milano, Trento, Bologna e Mantova) che invitano i sindaci a revocare l’autorizzazione a installare i gazebo elettorali. Bossi – con uno dei suoi classici stop and go - minaccia il ritiro della delegazione leghista appena rientrata in Bicamerale: il referendum si svolge in un clima di grande tensione, a ridosso dell’assalto a San Marco. Lo sforzo organizzativo è imponente (con l’allestimento di 13mila seggi) e la partecipazione al voto scatena l’ennesima guerra delle cifre. Nelle zone di tradizionale insediamento (dalla valli pedemontane alla Bassa veneta) la partecipazione è massiccia (anche dei contrari, ma è un riconoscimento del radicamento leghista): nei paesi dei Serenissimi il voto è vissuto come plebiscito per la liberazione. A Conselve il gazebo è gestito dal segretario leghista Giuseppe Drago, indagato per l’Armata. Tra i votanti, la moglie e la prima figlia di Buson. Molti simpatizzanti non fanno gran differenza tra Padania e indipendentismo veneto. Quel che conta è rompere: con Roma, il fisco e i meridionali. Il successo del referendum risveglia l’inchiesta giudiziaria, in sonno da qualche mese. A giugno, un summit tra le sette procure che indagano sulla Lega (Verona, Venezia, Mantova, Brescia, Bergamo, Torino, Saluzzo) decide l’unificazione delle inchieste a Verona: le camicie verdi sono un’associazione militare collegata a un partito politico e perciò violano la legge Scelba del ’47, nata per disarmare i partigiani e “criminalizzare” il riarmo neofascista. La Lega contesta con decisione la competenza territoriale: se il parlamento sta a Mantova, il governo ha sede a Venezia, il partito a Milano, perché indaga Verona?. Alle confederazioni sindacali che promuovono una colossale manifestazione nazionale antisecessionista, Bossi risponde rilanciando il sindacato padano (Sin.Pa) ma con scarse adesioni. Sono più di cinquecentomila in piazza a Milano, 50mila a Venezia e Bossi ricicla uno sfortunato aforisma craxiano: “Tutti in gita”. Il capo del governo padano, Maroni, fa il superiore: “A nome del governo della Padania auguro una buona riuscita: la Padania è una terra democratica dove tutti hanno il diritto di manifestare liberamente il loro pensiero”. Nei giorni che precedono i cortei si registrano piccoli incidenti, tensione ai cancelli di Mirafiori, un’aggressione nel centro di Varese a due delegate Cgil, ma il 20 settembre tutto fila liscio. Il vescovo di Caserta, il friulano Nogaro, costante riferimento dei movimenti filo-immigrati, coglie le occasioni per denunciare il diffondersi nella Chiesa del Nord di un sentimento di superiorità verso il Sud e quindi di velate simpatie leghiste. Un altro vescovo “rosso”, Bettazzi di Ivrea, lo smentisce.
A ottobre scatta la seconda ondata, con 44 indagati, di livello medio alto tra cui Bossi, Borghesio, Flego, e i ministri padani Maroni, Gnutti, Speroni e Pagliarini. Bossi fa sapere: non andremo a deporre. E cita il martire del Lombardo-Veneto Scielzo: tiremm innanz. Disobbedisce solo Bernardino Bosio, presidente nazionale del Piemonte e sindaco di Acqui, che si fa 600 chilometri in auto per dichiarare la sua volontà di non rispondere all’interrogatorio. Ai giornalisti spiega che non ha mai partecipato alle attività della Guardia nazionale. Sette ore di viaggio per sette minuti di udienza. Se il sacrificio era determinato dalla volontà di guadagnare un po’ di visibilità sulla stampa è sfortunato. Perché il giorno dell’interrogatorio, il 5 novembre 1997, la procura di Busto fa scattare un blitz contro le camicie verdi con 40 perquisizioni e così Bosio si trova relegato al massimo in titoli di tre colonne di piede. Contro Papalia i parlamentari leghisti compatti si autodenunciano: noi tutti lavoriamo per l’indipendenza. In questo caso l’iniziativa dei magistrati anticipa quella leghista, le elezioni “politiche” padane del 26 ottobre 1997, con il solito strascico della guerra delle cifre. La Lega ci prova a spararla grossa, dichiarando sei milioni di voti, il “dottor Sottile” di Prodi, il sottosegretario Arturo Parisi li riduce a un decimo con un semplice calcolo. La Lega ha dichiarato 21.901 seggi (70mila persone impegnate nell’organizzazione e cento milioni di costi vivi) ma ne sono stati autorizzati soltanto 7.859 e realmente installati appena 6.441 e quindi calcolando un centinaio di voti a gazebo… L’inchiesta spacca la magistratura veneta: il pg di Venezia Mario Daniele, inaugurando l’anno giudiziario, esprime dubbi non solo nel merito ma sull’opportunità di affrontare una questione schiettamente politica sul piano penale. Il procuratore di Verona non recede: la Padania ha un governo, un parlamento, una gazzetta ufficiale, proprie strutture militari e indice elezioni; che cosa manca per affermare che così si mette in pericolo l’integrità dello Stato italiano? A fine gennaio 1998 Papalia chiede 41 rinvii a giudizio (e tre supplementi di indagini) per attentato all’integrità dello Stato e della Costituzione, associazione finalizzata a disgregare il sentimento nazionale, associazione militare con scopi politici: le camicie verdi costituiscono una struttura militare e poliziesca e non un semplice servizio d’ordine La requisitoria, 24 pagine, disegna l’organigramma dell’esercito padano, distinguendo la rete politica (Bossi è il condottiero; Speroni e Formentini i presidenti, Maroni, Borghezio, Pagliarini, Gnutti e Cavaliere i generali) e quella operativa (Marchini e Flego comandanti e diciassette responsabili provinciali). Anche in questo caso la scelta dei tempi è segnata da due coincidenze significative: pochi giorni prima il presidente Scalfaro ha graziato quattro terroristi altoatesini latitanti da 30 anni in Austria e condannati per l’articolo 241, qualche giorno dopo è in programma un convegno sul federalismo a Venezia, e Bossi è invitato come relatore dai promotori, il pg Daniele e il presidente della Regione, Galan. Il senatür ringrazia: così Papalia, che è “ispirato da D’Alema e Scalfaro”, porta acqua alla causa secessionista. E mette le mani avanti: “Confermo che la via maestra per noi è la gandhiana ma se a questo punto appare qualche movimento terroristico, sarebbe opera dei servizi segreti”. Contro il “processo politico” che vuole liquidare la Lega Bossi rilancia la “rivolta fiscale”, un’arma che già si è rivelata fallimentare. Piccoli imprenditori, professionisti e bottegai del Nord il fisco lo evadono alla grande, ma è un comportamento spontaneo, che afferisce la primaria sfera dell’economia e le dure leggi della sopravvivenza: realtà che dal loro gretto punto di vista nulla ci azzeccano con la politica.
La diffusione dei testi delle intercettazioni telefoniche, che contengono pesantissimi elementi a carico di Bossi, si trasforma in un boomerang per l’accusa, perché mettendo sotto controllo i telefoni di militanti non parlamentari sono state registrate conversazioni di un deputato, in palese violazione dell’articolo 68 della Costituzione. Pochi mesi prima la Camera si è pronunciata in favore dell’onorevole Parenti, coinvolta in un caso analogo: occorre la preventiva autorizzazione del Parlamento, anche se il telefono intercettato non è di diretta pertinenza dell’onorevole. Dopo un diverso parere della Giunta per le autorizzazioni, Violante per sanare la contraddizione porta la questione in aula e ristabilisce l’intangibilità del mandato parlamentare. Le conversazioni sono quindi inutilizzabili. Ammetterle, infatti, solo a carico dei non parlamentari introdurrebbe un’evidente e odiosa violazione del principio di uguaglianza dei cittadini davanti alla legge. Ad ogni buon conto le trascrizioni, inutilizzabili sul terreno giudiziario, producono effetti devastanti sul terreno politico, e non solo per il fianco prestato al vittimismo leghista. Certo è che testi rimasti segreti finché erano nei cassetti di Papalia ci mettono due giorni a passare dall’ufficio del gip alle prime pagine dei giornali. Con giusto merito. Perché sentire Bossi parlare di uso del mitragliatore – nonostante la notoria incontinenza verbale – fa effetto. Il suo interlocutore, il segretario provinciale veneziano Alberto Mazzonetto, si butta sulla negativa, invocando un’identità pacifista ma lo stesso Bossi lo smentisce con una mezza ammissione. Il clima giudiziario si fa pesante: proprio il 24 gennaio Bossi si è visto comminare la prima condanna per un discorso politico. Certo, c’era il precedente di quei 5 mesi presi per aver detto che “bisognava raddrizzare la schiena” a quel magistrato handicappato di Varese che si era permesso di indagare sui conti della Lega, ma un anno di carcere e 170 milioni di provvisionale in favore di AN bruciano. Per i giudici bergamaschi annunciare in un comizio “verremo a prendere i fascisti casa per casa” costituisce un’istigazione a delinquere (sentenza che sarà confermata in appello). Bossi fa il ganassa (“se la sentenza dovesse passare in giudicato sono pronto ad andare in galera e come me deve essere pronto tutto il gruppo dirigente leghista”) ma secondo il professor Miglio comincia ad aver paura. Anzi il clamoroso voto in favore di Previti – che scatena la reazione indignata della base giustizialista - non sarebbe il prodotto di un accordo sottobanco con il Cavaliere ma un segnale cifrato all’ala più oltranzista della magistratura italiana. Accompagnato da un’evidente strizzata d’occhio al centro-destra. Bossi propone l’intesa con il Polo se accetta l’elezione popolare dei pm. Un gruppo di leghisti occupa pPubblica poster protesta la prefettura di Bergamo e il segretario nazionale Calderoli cavalca le spinte più estremiste. Anche Bossi solletica i militanti più violenti: “Ci sono due vie, o ci si fa mettere in galera, e si sfrutta politicamente il fatto oppure…ma bisogna essere organizzati e in qualsiasi caso bisogna stare bene attenti a non perdere il controllo del popolo”. Sul terreno dei delitti d’opinione Bossi sceglie la sfida referendaria: annuncia una raffica di proposte ma parte dalla richiesta di abrogazione del vilipendio del tricolore, reato di cui è accusato per aver invitato, durante il corteo di Venezia, a infilare nel cesso la bandiera italiana che una signora aveva messo al balcone per contestare la sfilata leghista. Lo scopo politico dell’iniziativa è evidente: aizzare AN contro Forza Italia che è impegnata in un serrato corteggiamento del Carroccio per le amministrative di primavera. E i postfascisti, si sa, quando gli toccano la bandiera …  Questo scrupolo è durato poco.
Il “progetto strategico padano” che, senza farsi illusioni sulla reale volontà riformista del governo, guarda alla Scozia, si caratterizza sulla crescita dell’autonomia della società civile: cooperative di consumo, consorzi per la valorizzazione del “made in Padania”e boicottaggio dei prodotti italiani (compresi lotto e totocalcio), banche e società di investimenti padani, disobbedienza fiscale.  Quando la Bmw nega pubblicità alla Padania con una lettera provocatoria del direttore marketing (“sfortunatamente per Voi sono napoletano per cui è improbabile una nostra presenza sulle testate da Voi rappresentate”) Bossi non esita a ordinare il boicottaggio della casa automobilistica tedesca che prontamente si scusa: l’autore non è alle nostre dipendenze da un mese. Una polpetta avvelenata prima di andarsene. (2-fine)

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