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L'ex captivitate salus di Mario Tuti - 2

Non ho mai creduto nella lettera costituzionale sul carcere come rieducazione ma sicuramente nei fatti chi dal carcere ne esce trasformato. Un esempio è Mario Tuti, che dal carcere, dopo 35 anni, non è ancora fuori ma offre una straordinaria testimonianza. Pubblico qui, diviso in due parti, una sua testimonianza, ricca e intensa, offerta durante il convegno di un'associazione napoletana di volontariato in ambito carcerario, di forte ispirazione cattolica, Uomo nuovo. Questa è la seconda parte dell'intervento alleggerita di alcune parti di riflessione spirituale, di non stretto interesse dal mio punto di vista che è più attento alla questione sociale. 




L’epoca del nulla è in essere, nemmeno Marcuse arrivò ad immaginare l’attuale appiattimento dell’essenza stessa del mondo, l’inesistenza dell’essere umano, smaterializzato nella massa, dissolto nel mercato, dove si dice quello che il sistema vuole si dica, si pensa quello che il sistema vuole si pensi, si crede quello che il sistema vuole che si creda, si produce e si consuma quello che il sistema vuole per noi. Oggi, parafrasando Toni Negri, vi è alienazione senza fabbrica, l’uomo è schiavo salariato del benessere, posseduto da ciò che ha, ed ha perduto la sua libertà. Certo, in quest’Italia la libertà è sancita dalla Costituzione, ma si percepisce volatile come quelle memorie virtuali così facili da cancellare e manipolare... Perse le antiche tradizioni, distrutti i valori fondanti dell’Europa, come si può tendere all’infinito ed alla bellezza eterna senza perdersi? 
Viviamo una società finta, l’Italia delle veline e dei tronisti, dei facili guadagni e della miseria diffusa, di chi è fuggito bucandosi le vene, di quelli che giunsero da lontano e si persero...
Sono inutili le campagne pubblicitarie contro le droghe, il disagio, la camorra, l’usura… servono solo per mettere a posto qualche coscienza squallido-borghese, e a nascondere la tragica realtà che in questo mondo vuoto di valori i più deboli sono destinati all’annientamento.
Un vuoto di valori di cui mi rendo conto di avere la mia parte di responsabilità, quando con le nostre scelte di lotta abbiamo suscitato nei giovani non un giusto e doveroso rifiuto di quelle nostre azioni e di quelle ideologie violente, ma il rifiuto di ogni idealità. E allora vediamo questi giovani che, vittime delle mode e dei media, cercano di dimenticare il vuoto della loro vita svuotandosi col rumore dei rave o stordendosi con le droghe, cercando la soddisfazione di desideri pericolosi o illegali, giovani che cercano di sfuggire da se stessi non ritrovandosi mai più, o ritrovandosi inevitabilmente nel carcere.
Ma il carcere non è che lo specchio distorto della società esterna, ridotto ora ad una sorta di discarica dove relegare ed abbandonare masse sempre più grandi di disgraziati e dove, perse le antiche regole e solidarietà, si decade moralmente e fisicamente di miseria in miseria, senza che venga preso alcun serio impegno perché la detenzione non appaia solo come un decreto ineludibile del fato. (...)
Come reagire al carcere è il problema concreto di chi deve confrontarsi con esso, dall’interno o dall’esterno.
La maggioranza dei toccati finisce per soccombere: subisce l'abbrutimento, si adatta, vittima e complice al tempo stesso. È il destino che tocca all'ignorante, all’emarginato, al debole e al povero, a coloro insomma che erano stati predisposti all'errore e alla colpa già prima, nel mondo dell'economia e del successo, nell'arena della produzione-spettacolo. Que sto tipo di detenuto è l'immagine-strofinaccio del colpevole, usata per pulire la faccia sporca del finto innocente.
Le stesse Istituzioni pubbliche e molte organizzazioni di Volontariato, che pure profondono energie e risorse per programmi di rieducazione, formazione professionale ed inserimento sociale, debbono spesso accontentarsi dei risultati che vengono mostrati sulla carta - nei bilanci o nei giornali e in televisione - senza poter efficacemente operare, malgrado la buona volontà e l’impegno di tanti operatori, per cambiare il destino degli uomini e delle donne imprigionati, che anche uscendo dal carcere spesso restano condannati ad un futuro di recidive, di carcere, droga, emarginazione.
È necessario allora un risveglio del pensiero e delle coscienze. Va analizzato attentamente tutto, a partire dalla secolarizzazione, prima che sia troppo tardi.
L’attuale situazione delle carceri italiane, su cui non mancano le denunce e le statistiche, non induce all’ottimismo. Quasi settantamila detenuti, di cui oltre un terzo tossicodipendenti, e un altro terzo di cittadini extracomunitari, con un indice di recidività oltre il 70%: condizioni che di fatto rendono spesso inefficaci le stesse norme e le procedure trattamentali che dovrebbero accompagnare e sostenere i detenuti nel loro percorso di reinserimento sociale, affinché il carcere e la pena non siano più e solo strumento di punizione e di esclusione dalla società, ma possano portare a quella presa di coscienza da cui dipendono ogni volontà ed impegno per un nuovo percorso di vita.
Una presa di coscienza dei propri limiti e dei propri errori che è anche facile per chi, più che la “malavita” ha conosciuto solo una “vita mala”, fatta di abusi, droga, violenza, ignoranza, miseria materiale e morale, ma che da sola non può bastare se manca poi quella rete di relazioni personali, familiari e sociali in grado di dare sostegno e prospettive una volta fuori dal carcere, e impedire che proprio la ricerca di un appoggio, di un incontro possano inevitabilmente ricondurre ai vecchi modi di vita, ai vecchi comportamenti sbagliati ed autodistruttivi - e poi di nuovo al carcere, più disperati e devastati nel corpo e nella mente, con nuove e più gravi condanne, con situazioni sociali e familiari sempre più compromesse…
Ma nella dilacerazione e nell'angoscia di quest'uomo e di questo mondo imprigionato e sbarrato finisce con l'essere compromessa anche ogni autonoma possibilità del giudizio, della vo lontà, del sentire, del modo stesso in cui sono vissuti la quotidianità, gli affetti, la società, per cui non si hanno prospettive e certezze, non si hanno diritti e doveri, ma si può solo implorare favori o cercare complicità… E nessun serio impegno viene più nemmeno tentato per scongiurare quello che ormai si presenta come una sentenza inappellabile del fato - prima ancora che di un qualche tribunale umano, anche troppo umano coi suoi errori e gli orrori.
E proprio alla ricerca di un possibile sbocco, non solo per l’adempimento del dettame costituzionale sulla pena ma perché siano superate le vecchie e incapacitanti logiche di separazione ed esclusione del disagio, di possibilità negate e non consentite capacità nell’inutilità dei giorni e delle opere, occorre pensare ad percorsi alternativi al carcere, e ad una maniera diversa di vivere la detenzione. Perché il carcere e la pena non siano più e solo strumento di punizione e di esclusione dalla società ma possano portare a quella presa di coscienza da cui dipende ogni speranza di reinserimento e liberazione.
Emblematica su questo aspetto può essere la costatazione di come noi cosiddetti “prigionieri politici”, pur in genere colpevoli di reati estremamente gravi, abbiamo potuto facilmente intraprendere un percorso di reinserimento sociale proprio grazie al fatto che, terminata quella nefasta stagione di violenze motivate dall’ideologia, da una parte abbiamo trovato un ambiente sociale e personale pronto ad accoglierci e sostenerci di fronte alle invitabili difficoltà della vita, e dall’altro noi stessi avevamo già quella cultura ed esperienza del lavoro, della responsabilità, della legalità che è fondamento e premessa di ogni percorso di riconciliazione e ricostruzione. 
Certo rimane il problema della responsabilità, e io stesso mi rendo conto che di fronte al male che ho fatto non vale la considerazione che eravamo comunque mossi da un’ansia di giustizia e che quegli anni sono per fortuna lontani. Così ad esempio sono in corrispondenza con due familiari di vittime della strage di Bologna e stiamo facendo insieme un percorso di guarigione delle ferite. Ma capisco anche la sofferenza e il disagio di chi non vuol perdonare, e se qualcuno oggi si sente risarcito dal fatto che io sono ancora chiuso in carcere, va bene. Se c'è chi può essere ripagato dalla mia sofferenza, sappia che quella sofferenza c'è e c’è stata.
Ma non mi si venga a dire che c'è una valenza rieducativa della pena: il fine di reinserimento nella società, questo piuttosto si può ottenere dando la possibilità, come nel mio caso, di rimediare in altro modo ai propri errori ed al male fatto. Qualcosa di molto più profondo di un “mea culpa” che suonerebbe strumentale, come fosse una merce di scambio.
E con la volontà di usare la mia stessa personale esperienza del disagio e del carcere come strumento d'interrogazione e di senso...
Per guardare con occhi nuovi all’idea stessa di pena e di condanna, orientandosi verso procedure di risarcimento e riconciliazione da un lato, e di partecipazione e impegno personale dall’altro. Nella consapevolezza che esistono pure muri invisibili, legati a vecchi pregiudizi e formalismi burocratici, e che spesso sono state innalzate barriere - non di ferro e cemento ma culturali e sociali - verso gli emarginati, gli esclusi e i condannati... Muri che tante volte noi stessi abbiamo contribuito ad innalzare per orgoglio o paura, ignorando che non conta tanto ciò che il destino o la natura o la società hanno fatto dell’uomo, quanto ciò che egli vuole ancora fare di sé! Per abbracciare allora tutte quelle possibilità di socializzazione e di contatti umani che ancora non sono state soffocate e vietate da pregiudizi, egoismi, disposizioni, muri, regolamenti, condanne… aiutando a costruire nuovi rapporti sociali e nuove reciprocità come prevenzione alla possibilità di ricadute nella devianza e nel disagio.
Come in un certo senso può confermare l’esperienza di alcuni anni fa a Livorno, quando nella sezione EIV ( elevato indice di vigilanza ) avemmo l’opportunità di realizzare un CD multimediale sul Museo Fattori: i miei stessi compagni, accostandosi alla cultura e all’arte, vedendo valorizzato il loro impegno ed il loro lavoro, si sentirono finalmente non più soggetti estranei ma partecipi e protagonisti di quella stessa società che pure li aveva condannati ed esclusi – tanto che se qualcun avesse voluto compiere un furto nel Museo si sarebbero sicuramente attivati per recuperare le “loro” opere rubate al “loro” Museo e alla “loro” città…  
Chi dunque oggi, di fronte a questa situazione assurda ed aber rante del carcere, si pone in posizione di critica e di rifiuto, deve anche rendersi conto della facilità con cui rifiuto e critica possono essere formulati e giustificati, senza che per questo siano ri chieste né arditezza morale né originalità intellettuale, se poi manca la volontà e l'impegno per opporsi al questa degenerazione del carcere e della società, e la coscienza di lottare per il lo ro e il proprio rinnovamento.
E per questo rinnovamento, per questa presa di coscienza, per questo nuovo impegno bisogna sì partire dall’amore, quella “Charitas”, la scintilla divi na che sopravvive nell'uomo anche quando tutto il resto sembra ormai perduto. L'amore, l'unica realtà che non tra disce nel pre cipitare odierno delle ideologie, delle utopie, delle illusio ni, delle stesse istituzioni...
E anche questo squallido e vano tempo presente appare allora come interregno tra un passato ormai decaduto e su pera to ed un futuro, di cui l'oggi è già il presentimento, da cui spirano, segretamente alitanti, venti di speranza, d'amore, di libertà: compito e scopo per il domani, dardi lan cia ti verso la altra sponda di una vita di speranza.
Quella vita, e vita piena, promessa dal Vangelo ( Giovanni: 10, 10 ).
E con la consapevolezza che se un qualcosa di positivo può esserci stato nella mia vicenda, e che può essere di aiuto, è l’esempio di come pur con le mie colpe e le devastazioni del carcere e della pena, ancora è possibile una redenzione e ricostruirsi un futuro e una vita.
Continuando nell’impegno di dare una mano ai ragazzi della comunità o aiutare alcune detenute per le quali sto lavorando a un progetto di cooperativa sociale. Trasformando la mia attuale condizione di semilibertà in semi di libertà da coltivare in una sorta di restituzione delle possibilità che io stesso ho avuto, e perché dei miei sfortunati compagni detenuti “nessuno si perda” ( Giovanni: 18,9 ).
Dal carcere di Civitavecchia, 

9 luglio 2010


Mario Tuti
(Detenuto in semilibertà - Volontario della Comunità Mondo Nuovo - Operatore di agricoltura sociale)

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