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Bari: una storia nera -3/ Una banda stonata

La morte di Tonino Fiore, il "comandante" di Avanguardia Nazionale, è stata l'occasione, a partire da un "coccodrillo" di Mario Merlino,  per avviare una riflessione sull'intreccio a Sud tra fascisteria e lumpen. Mi è toccato così ricostruire la storia del gruppo di fuoco di Di Cagno (che per diverse ragioni avevo espunto da "Fascisteria 2") e dei tanti camerati finiti nel vortice della droga e/o della mala. Finora abbiamo ricostruito la storia della sezione Passaquindici (AP15) e dell'omicidio Petrone. Ora entriamo nel vivo della storia della banda armata morta sul nascere, per un omicidio commesso per sbaglio. Intanto questa storia, con tutti i suoi limiti di parzialità e di incompletezza delle fonti, sta destando interesse e alcuni dei protagonisti di queste vicende mi hanno contattato per offrirmi il loro punto di vista. La narrazione si arricchirà quindi nei prossimi giorni di apporti nuovi e originali.


L’espul­sione del gruppo diri­gente dell’AP15 – per “contatti con i marxi­sti–leninisti” – colpisce gente che la tessera del Fronte non l’ha mai avuta. Il gruppo si frantuma. Una banda – leader i fratelli Minelli e Grimaldi – ruota in­torno alla sezione missina ri­masta aperta vicino al “covo” chiuso e fiancheggia Terza posizione, che ha una notevole presenza nel Ma­terano e a Lecce. Nel 1978 il campeggio estivo (niente parami­litare: ginna­stica, dibattiti e lunghe marce all’alba e i ra­gazzini rosicano perché non si spara) ha luogo a Montalbano, nelle terre di famiglia di Leucio Miele, già leader di Lotta di Popolo e anima­tore del comitato pro Freda, morto da poco (e la madre così vuole mante­nerne vivo il ricordo...). Un’altra – che fa capo a Di Cagno e Modola e fa base nello scantinato dove questi sconta le misure di sicurezza dopo la condanna per l’AP15 – comincia a frequentare i cani sciolti dell’estrema sinistra. Un po’ si di­scute di po­litica, un po’ si fanno le canne. Il grosso della truppa, scon­volta, impau­rita dal salto di qualità rappresentato dal sequestro Moro e dalla radicalizzazione lottarmatista, si sbanda. Molti cominciano a “farsi”. Quando Fiora Pirri, leader di Primi Fuochi di Guerri­glia, in sciopero della fame, è trasferita nel carcere di Bari l’u­nica azione di protesta è un lancio di volantini si­glati con la croce celtica, organizzato dal “gruppo dell’appartamento”. Che si preoccu­pa anche di fare volantinaggi sul ruolo del Pci al soldo del capitale o più concreta­mente di organiz­zare la mobilitazione contro l’au­mento del prezzo dei biglietti dell’autobus.
“Odiavamo gli sbirri, la borghe­sia, gli avanguardisti – spiega Stefano Di Cagno – nulla sapevamo dei loro con­tatti con le forze re­pressive, ma il loro modo di fare, la fine (malavitosa) che avevano fatto, ce li fa­ceva schifare. An­davamo istintivamente a sinistra. Volan­tinavamo stron­zate da­vanti alle fabbriche perché ci sentivamo inter­classisti ma antibor­ghesi, e quindi vi­cini al proleta­riato. Fummo gli unici a volan­tinare in soli­darietà con la Vianale qu­ando fu carcerata e picchiata. Anzi, vo­lanti­nammo – macchina in corsa – in “piazza rossa” fa­cendo imbufalire i compagni, arri­vati tardi, secondi dopo i fasci”. 
L’aggregazione tra “rossi” e “neri” – che già si era espressa in una manife­sta­zione di tripudio per l’“esecuzione” di Moro – va avanti in estate. Poi, per tutto l’inverno, la vita è da banda. Nel giro di un anno la droga trasforma nove politici su dieci in micro o macrospacciatori–con­sumatori. Nel­l’estate 1979 il vecchio gruppo si riag­grega sul piano umano. Di Cagno si rivede con i Minelli e li mette in contatto col giro di Modola e dei compagni. Una lite not­turna tra rossi e neri è l’occa­sione del nuovo e definitivo strappo. La nuova aggrega­zione emargina chi ha comin­ciato a farsi e si concretizza l’idea di un gruppo armato misto. Un percorso lineare: superamento nella pra­tica militare delle originali appartenenze (ex AP15, ex LC), autofi­nan­zia­mento e costruzione di un’aggregazione politica, su basi programmati­che ela­borate dai già ricomposti “militari”. A spingere sull’ac­celera­tore sono Di Ca­gno e i rossi. I Minelli preferirebbero un rap­porto forte con TP, qual­che altro camerata vuole solo i soldi. Il maggior limite è la scarsa fiducia nelle ca­pacità opera­tive. Comunque qualcuno i soldi li comincia a tirare su, si comprano un po’ di armi e di esplosivi, si falsi­ficano i primi documenti. Il di­sarmo di un metronotte (dovevano essere tre ma c’è un con­trat­tempo) gasa l’ambiente e anche gli incerti cominciano a crederci. Altri hanno i primi abbocca­menti, i fan di Tp (ovviamente contestati dai rossi) co­minciano a cedere sulle posizioni politi­che. Si pro­grammano i primi obiettivi seri: un’armeria e una banca. Si parla an­che dell’omici­dio del capo della DI­GOS o del di­sarma­mento di una pattuglia. Qual­cuno propone l’ucci­sione di un paio di carabinieri in un posto di quar­tiere, come esca per una strage colossale: far sal­tare un furgoncino bomba alla libanese al­l’arrivo di giu­dici, poli­zia, alti gradi. La proposta è bocciata. Non c’è an­cora la classica reazione estrema degli ex fasci ad anni di accuse di stragi­smo (quella teorizzata come alibi morale da Vinciguerra per Peteano: si col­pi­scono solo i militari armati) ma l’uso di esplo­sivo, soprattutto in situ­azioni ad alto ri­schio, faceva stor­cere il naso. Tutto è comunque molto confuso e i riferimenti politici più specifici mancano o re­stano quelli di provenienza. I compagni si dividono in due categorie: quelli che non sanno neanche più perché erano compagni e quelli che sono an­cora marxi­sti–lenini­sti ma iden­tificano nella guerra per bande degli anni ’70 la causa dello sfalda­mento che hanno sotto gli occhi. Per i fasci la dinamica è si­mile: c’è chi la pensa allo stesso modo ma si sente solo e vuole es­sere protagonista e chi è in crisi di iden­tità ed è in cerca. Il senso comune della banda è fornito da alcuni semplici acquisizioni ma­turate nel corso di anni di mili­tanza e poi di sbanda­mento:
“Ci eravamo scannati – spiega Di Cagno – tra pischelli che, tutti, odiavamo l’in­giustizia sociale, i bor­ghesi, i loro servi armati; i capi fascisti erano dei porci, le ideolo­gie rivoluzionarie di destra alla fine solo uno stru­mento per imbrigliare dei ribelli; le ideolo­gie rosse un fallimento ovunque, slegate dalla realtà, in qualche misura di­pendenti/discendenti dal­l’universo concettuale bor­ghese. Qualcosa si doveva fare. La Passaquindici era nata sul fumo e poco a poco, fa­cendo, aveva creato un ac­cenno di coscienza politico–sociale. I compagni sapevano per averlo vis­suto o visto, che ci si avvicinava al loro ambiente così, tanto per, perché era giusto e poi qualcuno tro­vava la luce.. L’i­stinto comune era: questa è la strada, noi andiamo, qualcosa succederà. La fine è stata quella più misera, ma tant’è, a qualcuno è servito per crescere”
La sera dell’11 marzo 1980 è in programma l’irruzione in una radio libera democristiana, Bari Le­vante, per leggere un proclama. Entrano in tre. Il dj, Martino Traversa, 19 anni, simpa­tizzante mis­sino, im­paurito, reagisce. Nella colluttazione a Di Cagno parte un colpo dal can­nemozze: la rosa dei pallettoni colpisce in pieno Traversa e feri­sce di striscio un componente del commando, Nicola De Caro. Il dj muore dissanguato. Il tentativo di ge­stire la situa­zione fallisce sul na­scere: Di Cagno insiste sulla necessità di ren­dersi preventiva­mente irreperibili ma per qualcuno è più urgente non fare impensierire la madre. La polizia parte dal ferito e arriva subito a casa Minelli. Massimo fa coppia fissa con De Caro. Crolla dopo 18 ore di inter­rogato­rio duro e confessa: era lui l’autista. Alle 8 e mezza di mat­tina, in preda al pa­nico, De Filippis, il qu­arto uomo, telefona a casa Minelli. La si­gnora lo av­verte che i figli sono stati fermati. Il ragazzo, com­pleta­mente nel pallone, non pensa che il tele­fono è sotto con­trollo e si lamenta: “Accidenti, adesso arrive­ranno da me”. Si costituisce poche ore dopo. L’u­nico che riesce a scap­pare è Di Cagno che si tra­scina nell’ultima avven­tura la moglie. Rimediano due do­cumenti falsi e pun­tano sulla Spagna dove entrano in contatto fortuitamente conla tanto odiata (ma efficiente) rete clandestina avanguardista.
Di Cagno è arrestato a Parigi il 23 aprile 1981: senza una lira, con Cecilia in­cinta e alla fame, ruba 30 franchi di roba da mangiare in un supermarket, lo fermano e in­vece di avere l’atteggia­mento remissivo del taccheggiatore beccato si fa saltare i nervi e picchia il flic per scappare. Solo che ce n’era un altro dietro e un fur­gone pieno parcheggiato all’angolo. Lo estradano subito mentre la moglie se la cava perché ha solo reati politici. (3-continua)


1 commento:

  1. Veramente tutto molto interessante!!! Grazie Ugo per questa storia poco conosciuta.

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