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Il segreto della strage di Brescia/3: l'inchiesta dei Ros

Continua la ricostruzione del "segreto della strage di Brescia", la storia che si tramanda da vent'anni sull'esistenza di una lettera in cui il responsabile se ne sarebbe assunto la colpa e rilanciata negli scorsi mesi da Marco Affatigato nell'ultimo processo a Brescia. Come abbiamo visto nei post ptecedenti il personaggio chiave della vicenda è Fabrizio Zani, all'epoca ergastolano dei Nar e in precedenza portavoce di Ordine nero, il gruppo accusato della strage. Vincenzo Vinciguerra, reo confesso della strage di Peteano, lo accusa di avergli confidato il terribile segreto e gli investigatori cominciano a "lavorare" su questa pista.
Una nota metodologica: anche in questo caso il canovaccio usato è il testo della prima edizione di "Fascisteria", asciugato di molti particolari ridondanti ma anche di alcuni nomi. Perché sono convinto che quando non è strettamente necessario per la ricostruzione dei fatti, ai comprimari vada riconosciuto il diritto all'oblio.




Agli inizi degli anni 90 l'ambiente dell'estremismo nero è allo sbando. Mentre qualche decina di militanti sono ancora in catrcere per pagare il prezzo degli anni di piombo, quelli che tornano a casa hanno spesso difficoltà di reinserimento e l'unica rete sociale e fonte di reddito sono le comunità malavitose con cui si sono stretti legami in carcere. In questo contesto il Ros dei Carabinieri decide di puntare sull'oggettiva situazione di debolezza di molti detenuti per ottenere informazioni e collaborazione per la ricostruzione della stagione delle stragi. Il capitano Massimo Giraudo (nella foto) responsabile della campagna svolgerà a questo scopo decine di colloqui informativi, a volte acquisendo collaborazioni di rango, ad esempio Edgardo Bonazzi, figura di spicco della comunità dei prigionieri politici fascisti che ruota intorno a Quex, ritornato in carcere per attività criminali, a volte raschiando il fondo del barile. Si innesca così un'inchiesta sulle attività del Fronte carceri per organizzare l’eva­sione di Concutelli dall’Asinara: una rapina al calzatu­ri­fi­cio dove lavorava il titolare della casella postale di Quex, un conflitto a fuoco con i carabi­nieri di un lati­tante legatissimo a Zani (Riccardo Manfredi, di lì a poco tragicamente morto in un tentativo d'evasione). Un pro­getto di fuga mega­lomane per le modeste capacità della banda. Gran parte dei reati è prescritta, l’inquinamento delle prove, quindici anni dopo, è im­possibile, i presunti complici sono social­mente reinseriti e non hanno in­tenzione di darsi alla fuga.
La Procura di Bologna non è dello stesso avviso e scattano le manette. Il titolare della casella postale di Quex è accusato di essere stato il basista della ra­pina com­piuta, nel­l’aprile ’79, da due gio­vani con l’ac­cento ro­mano. Era stato tra i primi fermati dopo la strage di Bologna: ven­tenne, di mode­stissime origini so­ciali, inti­midito, fa ammissioni compromet­tenti sui rapporti con Terza po­sizione e sul “corteggiamento” dei suoi capi, Fiore e Adinolfi, per in­durlo ad avviare l’attività com­bat­tente anche a Bologna. L’accusa userà un articolo (da lui siglato ma attribuito a Zani) nell’ultimo nu­mero di Quex per dimo­strare la ma­trice fascista della strage. Naldi, nel frattempo, è stato ar­re­stato il 13 aprile 1981, subito dopo l’omici­dio di Er­manno Buzzi, con­dan­nato in primo grado all’ergastolo per la strage di Bre­scia e strango­lato nel carcere di Novara da Tuti e Concutelli come “pederasta e confi­dente dei cara­bi­nieri”. Imputato di associa­zione sov­ver­siva, il giovane sarà condannato a due anni (e assolto in ap­pello) per isti­gazione a de­linquere: Buzzi fi­gu­rava nella li­sta nera degli “infami da eliminare ”, rubrica cult di Quex. I sospetti degli inqui­renti ca­dono sulla ra­pina di due anni prima ma senza riscon­tri l’inchiesta rista­gna, fino alle affabu­lazioni dell'ex sambabilino che non sa neanche indicare gli au­tori del colpo.
L’operazione contro i reduci del Fronte Carceri porta alla luce un interes­sante reperto di ar­cheologia neofascista: da un ex ordinovista di Arezzo, che per un semplice fa­voreg­gia­mento si è fatto 4 anni di carce­re pre­ventivo a un complice di Bonazzi nell'omicidio di un militante parmigiano di Lotta continua. Appena liberato, anche lui bazzica per un po’ nel­l’am­biente bolognese del Fronte carceri, poi si mette in affari, traf­ficando eroina. Quando i magistrati bolognesi vanno a interro­garlo in carcere, su quelli che considera peccati veniali di gio­ventù, ca­sca dalle nuvole: “Ufficiali dei Carabinieri ci garan­tivano l’impu­nità”.
La terza arrestata è un medico bolo­gnese di 40 anni, perito legale del tribunale, ex dirigente del Fronte della gioventù ma poi dedita a una brillante attività professionale e non immagina certo che le si chieda conto dell’attività giovanile in favore dei dete­nuti di destra. Chi vuole il suo ar­resto, essendo la dottoressa ben nota nel­l’am­biente giudiziario, punta al suo tracollo, a una offerta di “collaborazione”. Lei sa poco o nulla, ma per una com­prensibile reazione di orgoglio si chiude a riccio e nega anche l’e­videnza. Il giu­dice istruttore, schiacciato tra la solidarietà corpora­tiva dei periti le­gali, che minacciano l’astensione a tempo in­determinato, e la stizza per ar­resti da lui “firmati” ma ese­guiti senza che ne sa­pesse niente, di­spone l’immediata scarcerazione degli impu­tati “visto il pa­rere del pm” (che era negativo). Il bersaglio vero dell’operazione è Jeanne Cogolli, moglie dell’erga­sto­lano Zani. Da mesi il capi­tano Giraudo è impegnato nel suo este­nu­ante giro delle carceri. In questa logica di caccia grossa, erano finiti nel mirino anche la coppia Zani-Cogolli ma la traietto­ria po­litica e umana della donna era irriduci­bile al dise­gno poliziesco. Jeanne si è fatta qualche anno di galera per i Nar. Pur non avendo partecipato mai alle azioni armate era considerata per impegno poli­tico, ri­gore morale, stile di vita ascetico e dedi­zione alla causa una mili­tante a pieno titolo dai camerati combattenti.
In carcere i due hanno avviato una lunga via di fuga dalla de­stra ra­di­cale che si conclude nell'approdo a posizioni di “fondamentali­smo verde”, dando vita alla bella fanzine “Frontiere”, ispirata alla scuola ecologista del bioregionalismo. Ma i conti col passato ritornano e Zani si trova costretto ad affrontare quella che considera una bef­farda persecu­zione delle procure della Repubblica più impe­gnate nelle in­chieste con­tro lo stragi nere (Brescia, Bologna, Fi­renze). Si trova, lui che della “guerra” alla “guardia bianca” e agli “agenti doppi” aveva fatto un’ossessiva ragione di vita, imputato per gli at­tentati ai treni in To­scana nel 1974-75 in­sieme al confidente del Sid Cauchi e a Gelli, per le confessioni di un pen­tito. Anche il proscioglimento dalle accuse per la strage di Brescia gli lascia addosso schizzi di fango: il giudice di Brescia, appena deposi­tata la sen­tenza ordinanza per l’ultimo gruppo di in­quisiti, di­chiara in un’in­tervista a “Famiglia cristiana” e poi in televisione, alla vigilia dell’anniversa­rio della strage, che lui ha dovuto proscio­glierli per le risultanze pro­ces­suali ma che comunque storica­mente e politica­mente i col­pevoli sono i milanesi a cavallo tra Ordine nero, Mar e AN.
Quando scatta l’operazione giudi­zia­ria Zani è detenuto a Spoleto: no­nostante l’irrile­vanza delle accuse rispetto alla sua posizione giudi­ziaria (Zani si è già visto rico­no­scere la continua­zione tra Ordine nero, Nar e omicidio Men­nucci e quindi paghe­rebbe la rapina con uno o due mesi di carcere da sommare a due erga­stoli e più di trent’anni di reclusione) i magi­strati ordi­nano l’isola­mento. Anche l’arresto della mo­glie ri­vela un in­comprensibile accanimento, che fa pen­sare a un “lavorio ai fianchi” per in­durlo a colla­bo­rare: i reati contestati alla donna sono già prescritti e poi la Cogolli non era scappata neanche qu­ando era diventata defini­tiva la con­danna per i Nar (banda ar­mata e concorso in rapina) e lei aveva ri­sparmiato il carcere solo per un sopravvenuto condono e la con­cessione del cu­mulo della pena per Tp. Giraudo ci prova comun­que: la invita a convincere Zani a raccontare quello che sa sulle stragi. La risposta di “Jeanne” è sdegnata: “Se solo sa­pessi che mio ma­rito ne sa qualcosa, lo lascerei il giorno stesso”. Lei è sincera ma non lo sa ancora: quelle parole sono tristemente profetiche (3 - continua)

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