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Cutonilli: così l'estrema sinistra bocciò la strage di Acca Larentia


 Dalla pagina facebook di Valerio Cutonilli

Nel primo libro sull’eccidio di Acca Larenzia, scritto insieme a Luca nel 2010, non fu sviluppato un aspetto su cui giova invece riflettere. Nel secondo fu colmata la lacuna.

L’azione dei Nact (una sigla usa e getta) fu sostanzialmente bocciata dall’estrema sinistra. I riscontri sono tanti e tali da non lasciare dubbi. Ovviamente non mi riferisco ai mitomani che celebrarono via etere la carneficina altrui. È nota per esempio la telefonata a Radio Popolare di un decerebrato che si lamentava per il risultato insoddisfacente. Si tratta in questo caso dei progenitori degli urlatori da social. Soggetti dediti essenzialmente alla masturbazione.

Nella realtà la sinistra extraparlamentare non gradì affatto il bagno di sangue del Tuscolano. Non per motivi etici, come pure ritiene qualche ingenuo, ma per precise ragioni di natura politica. I primi a essere consapevoli della bocciatura furono gli assassini, costretti a giustificarsi con una inusuale replica della rivendicazione. Dopo l’incauto nastro audioregistrato, dove si può ascoltare la voce del terrorista misterioso, giunse un volantino, avvolto in un foglio del Messaggero che potrebbe lasciare tracce indesiderate di Dna. I “Nact” replicarono innanzitutto a Oreste Scalzone che da Milano aveva ritenuto opportuno prendere posizione anche in ragione della sigla usata. L’ex ideologo di “Potere Operaio” censurò espressamente “lo sparare senza progetto”. Precisa e severa doglianza politica, non morale.

Ricevuto un bel 2 in Marxismo, i “Nact” provarono a replicare. Dimostrandosi incapaci di tenere botta all’illustre docente di extraparlamentarismo. La loro pochezza concettuale e linguistica apparve evidente. Anche il tentativo di legittimare gli omicidi, inventando la penosa storia di Franco Ciavatta spacciatore di droga, lascia intravedere l’arrampicamento sugli specchi dei pistoleri. Ma l’espediente non funzionò.

Rovistando negli archivi del tribunale di Roma, si trovano abbondanti conferme sul giudizio negativo ricevuto dai “Nact”. Emblematico è il memoriale di un brigatista pentito, entrato nell’organizzazione nei primi mesi del 1978. Incontrata all’università una compagna, a sua volta in via di congedo dal “Movimento”, concordò con questa sulla scelta di provare l’ingresso nelle Br. La ragazza indicò un biondino, “provvidenzialmente” di spalle, criticandolo per essere andato a sparare a “quei ragazzini” in via Acca Larenzia.

Il loro obiettivo era invece quello di colpire il cuore dello Stato. Stesso identico ragionamento esposto da un altro autorevole pentito delle Brigate Rosse. Avvicinato da un ossessionato dell’antifascismo, si sentì proporre un’azione armata contro la sede missina del Prenestino. Proprio in coincidenza con la seconda ricorrenza dell’omicidio di “Cremino”. Quella che in una cartellina sequestrata a uno zelante burocrate dei comitati comunisti, non particolarmente stimato dai suoi compagni per il coraggio, era definita “punizione Zicchieri”. Il brigatista poi pentito rifiutò la proposta, evidenziando l’inutilità di azioni di retroguardia così impegnative. Visto il livello raggiunto dalla lotta armata rossa, l’omicidio di ragazzi del Fdg veniva ritenuta una inutile perdita di tempo.

In effetti la parola d’ordine che in quei giorni circolava dall’alto del partito armato era un’altra. Partecipare a tutti i livelli alla campagna contro la Dc, cinghia di trasmissione del Sim etcetera etcetera. Durante l'audizione presso una commissione parlamentare, un altro noto pentito delle Br spiegò che l'azione fu realizzata a livello di "Movimento". Chiamò in causa le squadre armate dei comitati comunisti. E ancora, un brigatista arrivato dal nord, poco incline alle logiche romane, chiese infastidito lumi sui fatti del Tuscolano.

L’azione di “contropotere territoriale”, e soprattutto le inevitabili conseguenze che avrebbe innescato, furono ritenute poco funzionali al progetto che nelle prime settimane del 1978 era in corso. Da più parti, peraltro, si percepisce una scarsa considerazione dei “Nact”. Persino compiacimento per qualche disavventura interna occorsa a qualche suo eventuale esponente.

Si ritenevano ossessionati dall’antifascismo, forse complessati per la scarsa considerazione da parte delle Br il cui arruolamento avveniva sempre individualmente. Anche la promiscuità con la delinquenza comune veniva giudicata in modo negativo. Sia per ragioni etiche, la differenza tra il rivoluzionario e un volgare “sola” di borgata era netta, sia per motivi pratici. I delinquenti comuni hanno la pessima abitudine di portarsi dietro la polizia. Anche ai livelli in assoluto più bassi l’azione del Tuscolano non entusiasmò.

I “Nact” non avevano colpito i cherubini dell’azione cattolica. Non ci voleva molto a capire che i fascisti non se la sarebbero tenuta. Illuminante, per esempio, fu la riunione tra le tante anime dell’estrema sinistra – persino quelle che praticavano la violenza ma non la lotta armata – all’interno dello stabile occupato di via Calpurnio Fiamma. In tale sede emerse il fondato timore della reazione dei neri a cui i soliti ossessionati dell’antifascismo rischiavano di consegnare i compagni più giovani ed esposti.

Furono concertati piani di sicurezza che facevano perno sui gruppi (operanti all'Alberone e a Cinecittà) a cui spettava per "competenza" l'antifascismo. Lo stabile, in effetti, è lo stesso a cui pochi giorni dopo andarono a bussare i Nar. Lo trovarono chiuso per un recente sgombero. Per questo motivo ripiegarono nella piazza dove sostava il povero Roberto Scialabba con gli amici. Peccato che su tutto questo, ancora oggi, taluni compagni preferiscano tacere. Per insistere al contrario su storie fuorvianti.

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