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7 giugno 1951: nasce Cesare Ferri. Trovò la sua trincea nel centro di Milano


Tra i tanti preziosi materiali originali messi in circolo da Nicola Rao con la Trilogia della Celtica ci sono le interviste ai protagonisti. Tra questi c'è anche, ovviamente, Cesare Ferri, uno dei capi della "piazza nera" e del "movimentismo neofascista" nella Milano dei primi anni Settanta. Ne presentiamo una robusta silloge, arricchita da qualche testimonianza sulla sua figura, oggi, in occasione del suo 69esimo compleanno.

Nel 1971 il ventenne Ferri frequenta l’università e, contemporaneamente, San Babila, diventandone di lì a poco, uno dei leader. Ecco la sua testimonianza a Nicola Rao sulle storie della piazza e dei suoi frequentatori

CESARE FERRI RACCONTA LA SUA SAN BABILA

Ricordo bene la chiusura di Monforte. Chiuse perché eravamo violenti? Certo che c’era la violenza. Violenza nelle strade. Violenza nelle scuole. Ora non voglio dire che noi eravamo le vittime e i compagni i carnefici, né che avessero cominciato prima loro, perché non avrebbe senso... Però vorrei sottolineare un dato semplice ma oggettivo: quello numerico. Visti i rapporti di forza dei compagni nei nostri confronti, di dieci o venti a uno, il più delle volte non attaccavamo ma ci difendevamo... Certo, quando però giovani come Cristiano Piancastelli venivano massacrati di botte dai rossi e la stampa «democratica», cioè praticamente tutta, parlava di «faida tra fascisti», erano cose che non favorivano la pacificazione...

Chiude Monforte e noi ci spostiamo in San Babila. E i ragazzi-bene che c’erano fino a quel momento si spostano a loro volta. Il gruppo più numeroso si trasferisce al bar Cova di via Montenapoleone, altri vanno al Motta. Tra noi e loro la conoscenza è inevitabile.


Non eravamo stanziali davanti a un solo bar, ci si spostava. Soprattutto quando bruciavano un bar dove stavamo noi. E i gestori ci chiedevano sempre di andare in un altro bar per paura. Avevano ragione: il Pedrinis i compagni l’hanno bruciato, come l’Arrisbar e anche I Quattro Mori. Il Motta l’hanno fatto saltare. Il Borgogna l’hanno devastato... Tanto che per un breve periodo ci spostammo in via Dall’Orto, una traversa di corso Vittorio Emanuele.
Diciamo che a San Babila il gruppo più politico era di una sessantina di persone. È evidente che un contatto con il Msi c’era ancora, come è altrettanto evidente che se il Msi, anzi il neonato Fronte della Gioventù, apriva una nuova sede in via Burlamacchi e noi restavamo in San Babila, qualcosa non andava. Insomma, eravamo dissidenti e contrari alla linea del doppiopetto e della «grande destra» teorizzata in quegli anni da Almirante, ma alla fine, durante le campagne elettorali, finivamo per affiggere manifesti del partito. Di singoli candidati no, ma del partito sì. Perché, parliamoci chiaro, in ogni caso dal Msi venivamo, e lì avevamo ancora molti amici e camerati. Diciamo che era una forma di dissidenza politica abbastanza blanda. Non condividevamo certe posizioni e certi atteggiamenti della segreteria del Msi, ma ancora c’erano rapporti.

Mica eravamo ragazzi delle curve... Avevamo una infarinatura politica. Ricordo di aver partecipato con altri quattro o cinque camerati a un corteo di compagni contro la guerra in Vietnam. C’erano Dario Panzironi, Patrizio Moretti e altre persone. Poi ci hanno riconosciuti e siamo scappati... 
Questo per dire che avevamo interesse per la politica. Certo, c’era chi, come Rodolfo «Mammarosa» Crovace, non era uno naturalmente portato all’elaborazione culturale. Non potevi mica pretendere da Mammarosa che leggesse libri. Ma io, Di Giovanni e altri leggevamo eccome. Il primo libro di Evola l’ho comprato nel 1968 a diciassette anni; in quel periodo lavoravo in una libreria. Un testo delle edizioni Volpe, mi pare. Poi è ovvio: non è che a San Babila si potessero organizzare convegni o conferenze, anche perché con ragazzi tutti sotto i vent’anni che conferenza facevi? Ma parlavamo di politica. Eccome. Discutevamo di Evola, di Nietzsche e di Gentile, ovviamente nei limiti delle rispettive basi culturali... Io per esempio ero nicciano mentre Di Giovanni è sempre stato evoliano...

Lo zoccolo duro di San Babila eravamo io, Murelli, Di Giovanni, Attilio Carelli, Nico Azzi, Mauro
Marzorati, Dario Panzironi (detto «Himmler»), Luciano Benardelli, Davide Petrini, Ferdinando Alberti, Riccardo Manfredi, Gianni Ferorelli e naturalmente Mammarosa (nella foto a destra). Credo che il soprannome glielo abbia dato Franco Petronio, ma non ricordo perché. Lui era di quattro-cinque anni più piccolo di noi. Era sempre presente. Andavamo a San Babila verso le tre del pomeriggio e stavamo lì fino alle sette-otto di sera. Qualche volta andavamo a cena insieme. Potevamo essere una decina o una quindicina. Tutti tiravano fuori i soldi che avevano e li mettevano a disposizione del gruppo. In genere finivamo dallo Scofone in via Torino.

C’è gente che ha bisogno di provare un forte senso di appartenenza, di identificazione, e per questo è disposta a dare tutto. Molti ragazzi questa appartenenza l’avevano trovata in San Babila. Quando tutto ciò viene meno, non avendo le basi sociali, culturali o ideologiche, si perde la bussola. E così c’è chi si droga, chi spaccia, chi fa le rapine...

Sentivamo molta musica a San Babila. Battisti, ovviamente, ma anche i Beatles o il fado portoghese. A me poi piaceva molto anche la musica classica. Mentre tutti noi amavamo molto De André, che era un anarchico, e anche noi in realtà eravamo anarchici. Anarchici di destra. Oggi direi degli anarchi...

Della "vita pericolosa a San Babila" ci offre una testimonianza Maurizio Murelli:

IL FAR WEST DEL 3 FEBBRAIO 

È sabato pomeriggio, ho appuntamento con Cesare Ferri all’Arrisbar. Prima di entrare, come al solito, lascio la pistola nei vasi di fiori davanti al bar: facciamo sempre così. Entro, mentre in sottofondo, ricordo benissimo, Mia Martini canta Minuetto. Sarà passato qualche minuto quando arriva di corsa un ragazzino che urla: ci sono i compagni. Io penso: saranno i poveri due o tre cristi che passano qui con l’eskimo e che qualcuno si diverte a mazzolare... Ma il boato in sottofondo cresce, cresce. Sempre di più. Noi saremo una ventina tra chi sta dentro al bar e chi staziona fuori. C’è Fero-relli, c’è Petrini, c’è Cesare, c’è Mammarosa ovviamente. Quando usciamo assistiamo a una scena sconvolgente. Sembra un’invasione di cavallette. Una vera e propria mandria impazzita. Saranno stati migliaia. Alle nostre spalle la polizia, che staziona sempre in San Babila, si è schierata a chiudere corso Europa, dall’altra parte i compagni che stanno arrivando. Alcuni di noi si rifugiano nei sottoscala del bar, mentre i più decisi del nostro gruppo, una dozzina di persone, capiscono che è il momento di difendersi. Recuperiamo le pistole nascoste nei vasi e cominciamo a sparare verso la marea umana che sta montando. Non tiriamo ad altezza d’uomo ma sull’asfalto, facendo così rimbalzare in alto i proiettili. I poliziotti dell’auto civetta che sta sempre lì, invece di intervenire, si nascondono nell’auto. Allora uno di noi gli spara contro urlandogli: «Bastardi!» Il giorno dopo conteranno decine di colpi sulle colonne della piazza. Temendo di essere arrestati, io, Cucciolo, Cesare, Ferorelli e Mammarosa lasciamo Milano. Cominciamo un giro avventuroso fra Valtellina e Marche, fra tormente di neve ed episodi grotteschi. Alla fine io e altri torniamo a casa perché non eravamo ricercati...

FERRI E LE NUOVE SAM

Per le nuove Sam la polizia ha nel mirino Cesare Ferri che, saputo di essere ricercato, si reca spontaneamente dagli investigatori, per dichiararsi estraneo alle accuse. Ma finisce dentro. Lo tengono in carcere parecchi mesi e lo condannano per l’attentato delle Sam alla sezione del Psi avvenuto il 3 maggio 1973 in via Crescenzago. L’episodio provoca reazioni ironiche nei camerati. Dice Staiti: 
La situazione ormai era fuori controllo. Ricordo che Ferri fu accusato di un attentato a una sezione del Psi e a un certo punto disse: «Adesso vado alla polizia e chiarisco la mia posizione». Restò al gabbio per quasi un anno e tutti noi a prenderlo per il culo...
E lo stesso Ferri, pur essendosi sempre proclamato innocente per la condanna ricevuta, ammette: 
Vennero compiuti attentati a sedi di partito, a sedi di partigiani, rivendicati da volantini Sam. Li ho visti questi volantini perché me li hanno contestati durante il mio arresto. Sì, penso che abbia ragione Maurizio, inutile nasconderlo. Le Sam erano espressione di un ambiente estremamente ristretto all’interno dello zoccolo duro di San Babila...
Le Sam scompaiono il 30 gennaio 1974. Quella notte gli ultimi bombardieri dell’organizzazione se la prendono con la facoltà di Medicina della Statale (noto covo di sprangatori rossi, dal quale un anno dopo partirà la squadraccia che massacrerà Sergio Ramelli), con un bar di compagni di via Lattanzio e con l’istituto tecnico Molinari, già scuola di Fabrizio Zani. Poi delle Sam non si sentirà più parlare.
(1-CONTINUA) 

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