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Fini: “Il Msi è un modello ma l’idea di An fu condivisa da tutti”

(G.p)Il Secolo d'Italia quotidiano on line della Fondazione Alleanza Nazionale, con cadenza quasi quotidiana dedica ampio spazio ai settanta anni del Movimento Sociale Italiano la cui fondazione avvenne il 26 dicembre del 1946 facendo parlare i protagonisti di questa storia politica.
Oggi è il turno dell' ex presidente della Camera dei Deputati nonché ultimo segretario nazionale di Alleanza Nazionale Gianfranco Fini che risponde alle domande del collega Luca Maurelli.
Intervista che pubblichiamo per intero.


“Perché io ne sono convinto, le radici profonde non gelano mai…”. Gianfranco Fini cita Tolkien, idolo letterario di intere generazioni di ragazzi di destra, per spiegare la sua “nostalgia dell’avvenire”, slogan almirantiano che dà il titolo alla mostra sui 70 anni del Msi. “E’ una frase apparentemente contraddittoria, un ossimoro, perché non puoi avere nostalgia di quel che avviene domani. Ma in realtà la nostalgia dell’avvenire sta a significare che non c’è futuro se non hai memoria del passato, non c’è domani se non conosci la storia di ieri, se non rifletti sui momenti belli e sui quelli negativi, su gioie, dolori e speranze del futuro. Nostalgia dell’avvenire, oggi come ieri, quando la declinava Almirante, è l’idea che le radici profonde non gelano mai”.

Nella mostra organizzata dalla Fondazione An, che si aprirà il 20 ottobre nei locali di via della Scrofa, tra foto in bianco e nero di comizi del dopoguerra, manifesti elettorali ingialliti e pagine di giornali che annunciavano “grandi avanzate”, c’è anche il racconto dell’ascesa politica di Gianfranco Fini, col suo trench beige, quello buono per tutti i comizi, c’è lui portato in trionfo sulle spalle dei suoi sostenitori dopo la vittoria al congresso del 1987, c’è la prima pagina del “Secolo d’Italia” del ’94 a cui bastava titolare “Vittoria” e mettere una foto di Fini che fa il segno della “V” per far capire cosa sarebbe accaduto di lì a poco, con i primi ministri missini al governo, prima della svolta di Fiuggi, le lacrime, le speranze, la nascita di Alleanza nazionale. Un passaggio storico che Fini rivendica a sé ma che racconta come scelta di un popolo intero, rivolgendosi a chi, ancora oggi, gli contesta di aver archiviato l’esperienza missina.

La mostra parla di un partito che non c’è più: raccontare 70 anni di storia di un popolo che ora ha preso strade diverse ha un valore storico, culturale o anche politico, come traccia subliminale per il futuro politico della destra italiana?

“L’iniziativa è importante e lodevole perché promossa dalla Fondazione Alleanza nazionale: solo chi non conosce nulla della destra italiana può chiedersi, magari in modo retorico o polemico, cosa c’entri An con i 70 anni della storia del Movimento sociale. Tutta la classe dirigente del Msi, tranne pochissimi, volle, promosse e realizzò il progetto di Alleanza nazionale. L’iniziativa fa chiarezza su questo aspetto ed è positiva perché consente di riannodare i fili della memoria e quindi di ripercorrere passaggi storicamente importanti della destra del Dopoguerra”.

Manca la locandina del film “Berretti verdi”, ma quella forse sta nel suo album personale. L’aneddoto sul suo primo approccio con il mondo della destra è vero o un po’ romanzato?

“No, no, tutto vero: mi avvicinai giovanissimo a 17 anni, a Bologna, una delle città più comuniste d’Italia, a quel mondo della destra che era rappresentato dall’organizzazione Giovane Italia e dal Msi: lo feci proprio per reazione nei confronti dell’arroganza e della violenza della sinistra, che arrivava addirittura ad impedire l’accesso nei cinema quando venivano proiettati alcuni film, come nel caso di Berretti Verdi di John Wayne, che i comunisti giudicavano imperialista”.

Quando mise piede per la prima volta in una sezione missina?


“Quando mi trasferii a Roma, agli inizi degli anni Settanta, e lì conobbi meglio e frequentai più assiduamente il mondo della destra. La mia è una generazione che debutta in politica con Giorgio Almirante, sono stato nella fortunata condizione anagrafica di seguire prima, da sotto al palco, come servizio d’ordine, poi salendo i gradini della gerarchia interna, la sua segreteria.

Almirante la scelse tra quattro, nonostante lei fosse il meno votato, per la carica di segretario del Fonte della Gioventù: perché?

“Era il 1977, forse l’anno più doloroso nella storia del Msi, quello della scissione di Democrazia nazionale, cui aderirono, seppur in un secondo tempo, anche due dirigenti del Fdg, Anderson e Cerullo: il Fdg fu decapitato e Almirante nominò un commissario nella persona di Franco Petronio, quindi promosse l’assemblea del partito per far scegliere una rosa al cui interno avrebbe dovuto scegliere il nuovo segretario. E io ebbi l’onore di essere scelto. E’ vero, il più votato era stato Marco Tarchi, intellettuale fiorentino, ma all’epoca il partito era animato da una dialettica di correnti e lui era notoriamente uno degli esponenti di punta della corrente di Rauti. Per questo Almirante ritenne di affidare il Fronte ad un giovane che si riconosceva nelle posizioni politiche del segretario del Msi”.

Fu solo un gioco di correnti o Almirante aveva visto in lei un “X-factor”?


“Non me lo sono mai chiesto e sarebbe molto presuntuoso pensare a dinamiche diverse da quelle reali, cioè la necessità di Almirante di avere una guida che seguisse la sua linea. Peraltro lui mi conosceva in modo molto superficiale, anche perché avevo 25 anni, forse a indurlo a scegliermi furono anche le valutazioni positive che fecero su di me i dirigenti romani, anche molto autorevoli. Mi riferisco in particolare a due fedelissimi di Almirante, Michele Marchio e Donato Lamorte”.

Quale insegnamento di Almirante ha portato con sé dopo la sua morte?

“Lui, grande oratore, un uomo di grande cultura, amante in modo particolare della letteratura, usava spesso un’espressione che mi colpì allora e che ho sempre tenuto a mente. Nei campi scuola giovanili e ovunque potesse parlare a noi ragazzi, diceva sempre: “Fate sempre quel che ritenete giusto, non quel che ritenete utile”. Era il suo idealismo, la volontà di vivere una vita, anche i termini politici, all’insegna di principi, di valori, rifiutando egoismi, compromessi, meschinità, tornaconti. Era questa la sua etica”.

E la sua eredità politica?


“Voglio ricordare l’orgoglio e la capacità con cui Almirante ha difeso l’idea di Nazione in una fase storica in cui non si parlava di Italia, di Tricolore: il grande merito della destra italiana in quegli anni è di aver preservato l’idea di Patria. Ho pensato spesso a quanto la generazione di Almirante, e lui in primis, sarebbe stata felice di celebrare il 150 anniversario dell’Unità d’Italia, assistere all’adesione totale del nostro popolo, anche per merito di Ciampi, all’idea di identità nazionale. Non era facile in quegli anni, forse neanche adesso è semplicissimo declinare quei valori patriottici ma all’epoca c’era un Pci che si riconosceva ancora nell’ortodossia sovietica e una Democrazia Cristiana che, un po’ per compiacere i comunisti, un po’ perché non lo aveva nel suo Dna, non spingeva su quei tasti. Anzi, c’era addirittura chi aveva paura di dire l’Italia, e diceva “il Paese”…”.

La mostra pone al centro il “militante ignoto”, definizione di Marcello Veneziani. Lei, il 30 aprile del 2008, nel discorso di insediamento alla carica di presidente della Camera, esordì ricordando all’aula di essere “un uomo di parte fortemente convinto dei valori che hanno ispirato il mio impegno politico”, parlò del 25 aprile come di una data che deve unire, si soffermò sulla memoria condivisa, sulla necessità di superare gli steccati ideologici e di arrivare a una riconciliazione storica nel Paese. C’era già An, ma lei parlava ancora da missino quel giorno?

“Parlavo da uomo di destra. Almirante era stato uno dei più convinti sostenitori della necessità di arrivare a una pacificazione nazionale, di riconoscere le ragioni dei vinti, il loro amore per l’Italia: quella generazione non riuscì a raggiungere quell’obiettivo, quelle successive lo hanno almeno inquadrato, perché la verità storica si è fatta strada, anche se a fatica. Del resto anche Luciano Violante, ex militante del Partito comunista, quando fu eletto presidente della Camera, aveva manifestato le stesse ragioni…”.

Era il 10 maggio del 1996. Violante disse: “Mi chiedo se l’Italia di oggi non debba cominciare a riflettere sui vinti di ieri… occorre sforzarsi di capire, senza revisionismi falsificanti, i motivi per i quali migliaia di ragazzi e soprattutto di ragazze, quando tutto era perduto, si schierarono dalla parte di Salò e non dalla parte dei diritti e delle libertà… Questo sforzo, a distanza di mezzo secolo, aiuterebbe a cogliere la complessità del nostro Paese, a costruire la liberazione come valore di tutti gli italiani …”


“Va anche ricordato che quelle parole di Violante non passarono senza colpo ferire, a sinistra, ma scatenarono grandi polemiche soprattutto per quel passaggio sulle ragioni dei ragazzi di Salò. Ma la riconciliazione nazionale e la pacificazione erano obiettivi morali e politici che fu Almirante a porsi per primo, non si raggiunsero perché le condizioni storiche lo impedivano. Oggi ci siamo più vicini”.

Nel ’93 lei si candidò a Roma e Berlusconi annunciò il suo storico appoggio. Capì subito la portata storica di quell’endorsement?


“La dichiarazione di Berlusconi mi colpì perché non mi aveva anticipato che l’avrebbe fatta, fu anche per me un fulmine a ciel sereno. In realtà non mi meravigliai più di tanto perché Berlusconi sapeva perfettamente che il Msi, e non era merito mio ma della classe dirigente, di Almirante e di Franco Servello, aveva sostenuto l’azione di Berlusconi imprenditore per rompere il monopolio televisivo della Rai. Se in Italia dopo l’intervento di un pretore è nato il pluralismo televisivo è perché la destra, all’epoca, si schierò su quel fronte di libertà. E Berlusconi lo sapeva”.

Cosa voleva dire, per i missini, vedere per la prima volta nella storia dei propri ministri al governo, nel 1994?

“Fu un momento di grande gioia, sincera, le lacrime non erano finte, e un po’ tutti pensammo a quei militanti ignoti, come li chiama Veneziani: se uomini e donne che erano state nel Msi diventavano ministri della Repubblica, credo che tutti abbiano pensato, nel momento del giuramento, nel momento della gioia, a quanto sarebbe stato giusto oltre che bello se uomini come Almirante e Romualdi avessero potuto vedere quel giorno. Anche perché Almirante lo diceva sempre: “Saranno le giovani generazioni a vivere una stagione che per noi è inimmaginabile…”.

E il suo ricordo più emozionante?

“La gioia più profonda e la soddisfazione maggiore per me arrivò qualche anno dopo, quando divenne ministro della Repubblica Mirko Tremaglia, anche perché, se nel ’94 non fu possibile assumere un incarico al governo, fu perché la sua adesione alla Repubblica sociale, a 17 anni, fu considerata ostativa, diciamo così… “.

E da chi? Berlusconi?


“No, dall’allora presidente della Repubblica, Scalfaro”.

Sorrento, 1987, congresso Msi vinto da lei. Nella mozione di Destra in movimento, la sua corrente alla quale aderivano anche personalità del calibro di Laffranco e Tatarella, c’è un passaggio quasi profetico rispetto all’evoluzione della società futura, parole che lambiscono temi inimmaginabili all’epoca, come la globalizzazione, la dittatura della rete, le dinamiche relazionali scandite dai vari social, Facebook e affini. “Il Msi, per la sua concezione spirituale, si impegna per riscoprire la dimensione umana contro la massificazione, l’omologazione, l’alienazione, per ribadire il prima dell’uomo sulla macchina…”. Frasi polverose, anacronistiche o visionarie?

“Estremamente attuali sul rischio della disumanizzazione, della perdita di valori inalienabili, un rischio drammaticamente attuale: anche qui non mancano i riferimenti illustri. Quelle frasi erano ispirate dall’umanesimo del lavoro di cui parlava Giovanni Gentile”.

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