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Ricordando Dimitri: ma alla fine ha vinto la Dc


E' stato affollato e partecipato (circa trecento persone) il memorial celebrato ieri sera per il quinto anniversario della morte di Peppe Dimitri. A organizzarlo i camerati di Pietro Tiberi, il militante oscuro e generoso dell?Eur, protagonista di tante iniziative di solidarietà e di omaggio alla memoria, anche lui prematuramente scomparso, la scorsa estate. A rendere testimonianza, prima del recital su testi di Brasillach curato da Mario Merlino con i ragazzi del Foro 753 e il concerto di Gabriele Marconi e della Vecchia sezione, due dei commilitoni di Avanguardia nazionale, l'esperienza fondativa di Dimitri Comandante, lo stesso Merlino e l'avvocato Caponnetti. Tre generazioni militanti unite nel ricordo e nel rimpianto di una figura di leader capace di tenere assieme identità e mutamento. Come emerge da questa bella (e maliziosa) intervista con Goffredo Buccini. E a ripensare alle vicende dell'ultimo anno tocca riconoscere che la chiusa sarcastica ("Perché: non ha vinto la Dc?") si rivela ironicamente profetica.

AN E LA DESTRA TRA PASSATO E FUTURO. MEMORIA / GIUSEPPE, MITO DEI «CATTIVI RAGAZZI» ALLA GIUSVA FIORAVANTI, A 48 ANNI È PRESIDENTE DI UN CIRCOLO CULTURALE

La storia di Dimitri, da picchiatore «nero» a politico stile dc

«Noi antifascisti? Ma se l' antifascismo voleva bruciare viva Daniela Fini...»

Dopo lo «strappo» di Gianfranco Fini, con la visita a Gerusalemme, e alla vigilia dell' assemblea di An, che si tiene oggi a Roma, il Corriere ha ripercorso tre storie di identità della destra che cambia. Dall' assassinio dei fratelli Mattei e di Sergio Ramelli al percorso di Giuseppe Dimitri, fondatore di Terza posizione. ROMA - L' uomo che cammina sui pezzi di vetro ci pensa parecchio prima d' ogni parola: «Vede, mi rifiuto di dividere il mondo in bene assoluto e male assoluto, perché questo è il principio dell' intolleranza: abbiamo già dato», dice poi. Da non crederci. Uno dei fondatori di Terza Posizione, l' ex rivoluzionario nero che nella Roma degli anni Settanta aveva solida reputazione di jedi degli spaccaossa fascisti, sospetta il fondatore di An di essere intollerante. Non è il mondo alla rovescia? Lui allora si sistema la grisaglia manageriale sulle spalle da antico gladiatore e, attraverso gli occhialini cerchiati d' oro, sembra misurare in lunghezza tutta la scia di cocci che s' è lasciato dietro, cazzotti e sprangate, galera e vite infrante, frammenti di passato su cui muoversi con circospezione per non mandare in vacca pure il presente: «Ma no, non sospetto niente. Diciamo che Fini non s' è reso conto, preso dalla suggestione emotiva del momento, lì a Gerusalemme, di stare utilizzando un' affermazione... inadeguata». Bella frase da democristiano, eh? «E va bene», ride finalmente Giuseppe Dimitri, ex cattivo mito di «cattivi ragazzi» come Giusva Fioravanti, Franco Anselmi e Alessandro Alibrandi, ex inquilino delle carceri speciali, ex imputato per banda armata, scontri e tafferugli vari, calamita umana per certi giovanotti che si riunivano davanti al «Fungo», tra i viali dell' Eur: quattro amici al bar che tra una rivoltella con la matricola limata e qualche pagina di Evola pensarono poi di far nascere i Nar. «D' accordo, frase troppo da dc. Diciamo allora che nove anni di prigionia, e le legnate che ho rimediato, mi hanno insegnato ad essere il più attento possibile nell' articolare il mio pensiero. Contento?». Da bambino era uno scout. Cattolicissimo. A quindici anni i camerati di Avanguardia nazionale gli misero un martello in mano e lo mollarono davanti a una sezione del Pci: «Prova di coraggio, mena il primo che esce». Lui eseguì. A diciassette pensava che pietà l' era morta: «Era qualcosa che dovevo superare, la pietà», ha raccontato dieci anni fa a Stefano Di Michele e Alessandro Galiani, nel libro «Mal di destra». Gli occhi chiari dietro gli occhialini adesso scappano con frequenza verso il Tevere, su cui affaccia il suo studio da presidente del circolo Civiltà Romana. Dice «prigionia» e non «detenzione»: alla fine qualche parola della vecchia vita torna comunque a galla. «Sì. Mi consideravo un soldato politico». Quindi, dietro le sbarre, un prigioniero. Un ex prigioniero, oggi: ancora in marcia dopo l' ultima svolta, col cuore che perde pezzi a ogni cunetta della storia, pure se «l' articolazione del pensiero» funziona da ultimo ammortizzatore. «Sono in contatto con gran parte del mondo di Alleanza nazionale, c' è disorientamento. E la reazione è semantica, più che politica». Prego? «Sì, parlo dell' antifascismo. Capisce? Io sono sempre stato anti-antifascista. Ho avuto amici uccisi dagli antifascisti e molti di questi ragazzi erano del Fronte della gioventù, erano pure del servizio d' ordine di Fini. Daniela Fini la stavano bruciando viva in nome dell' antifascismo». Non sempre sono strade di andata e ritorno quelle dei vecchi ragazzi romani che in nome del «male assoluto», poi scovato nella storia dal leader di An, pestarono e furono pestati, spararono e rischiarono la pelle. Dimitri («mai condannato né per omicidio né per tentato omicidio, precisiamo») è tornato: 48 anni, due figlie (Virginia 11 anni e Matilde un anno e mezzo, «cercherò di farle ragionare contro i pregiudizi che troveranno nei libri»), è sposato con Barbara, figlia di Giano Accame: Gotha nero. Sembra un regolare, persino troppo, calato nella parte del travet di circolo. Nell' 88 uscì di prigione; nel ' 94 - con Alleanza nazionale in rampa di lancio - qualcuno lo tirò fuori dal sepolcro del reducismo, «sa, ero uno che mille voti se li tirava dietro comunque». «Oggi, e ne sono orgoglioso, sono rientrato nella società da cui mi ero distaccato, sono tornato protagonista. Non ero mai stato iscritto al Msi, mi sono iscritto ad An. Ora apprezzo quelli che, pur avendo la mia matrice ideale, capirono come lo strumento più idoneo fosse quello del consenso democratico» (sic). «Ma i valori di allora penso di averli conservati tutti», dice poi in sussulto di questa nuova vita raccontata a voce sempre bassa e spesso compressa nella grisaglia linguistica del politichese. Dimitri ha un rapporto dissociato con i campanelli che forse gli viene dal tempo della galera: suonano alla porta e lui risponde al citofono, gli squilla il cellulare in tasca e lui lo cerca in giro con frenesia, suona il citofono e lui corre alla porta. «Avevamo il mito del golpe come strumento per salvare il Paese, eravamo pronti ad andare a morire». Lui avrebbe ucciso o sarebbe morto, probabilmente, se nel ' 79, in via Alessandria, due poliziotti non gli avessero impedito di estrarre la pistola, ammanettandolo. «Siamo stati sconfitti dalla storia». Lui anche da un paio di brigadieri svelti di mano, grazie a Dio. Adesso, dopo aver messo «la testa a posto» nella destra sociale del partito, dice che «è un momento molto delicato, bisogna fare estrema attenzione a quello che diciamo». E' un ponte imbarazzante tra due mondi, e lo sa. Per prudenza, dunque, prima di incontrarci, aveva cominciato a buttar giù le risposte e, naturalmente, a farsi da sé le domande, come un tempo s' azzardava a fare solo qualche notabile di ben altra stazza. (Domanda: «Come mai si è ritrovato in Alleanza nazionale?». Risposta: «Credo per un forte senso del dovere». E così via, adelante con juicio). Poi, siccome al Dna non si comanda, butta via il foglietto: «C' era la guerra: durante il Ventennio c' erano cinquemila detenuti politici, e cinquemila ce n' erano negli anni Settanta». Da «pischello» era gracilino. Poi, la palestra, le arti marziali, il rispetto dei camerati: «Sicuramente ho provocato molte vittime», ride a scatti, imbarazzato. «Ma c' era la guerra, ce la vedevamo attorno». Ricorda la paura: «Era la nostra condizione di vita permanente». Guarda avanti: «Molti camerati d' allora hanno fatto la mia scelta adesso. Nomi? Preferisco non farne». Questione d' onore. «Forza e onore», dice infatti Russell Crowe nella prima scena del Gladiatore. La fregatura è che certi film non finiscono quando dovrebbero. «Non chiederò mai a un comunista di dichiarare che il comunismo era il male assoluto. Se no, alla fine, avrà vinto la Dc». Ma perché, non ha vinto? 
Buccini Goffredo
Corriere della sera 10 gennaio 2004

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