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Freda e la ndrangheta all'ombra della Loggia

Nella discussione sulla rivolta di Reggio, un "lettore abituale" mi sollecita ad affrontare il tema degli intrecci tra ndrangheta e fascisteria. E' notoria la mia distanza da culti e culture criptologiche che tanto appassionano molti miei colleghi. Così dieci anni fa, affrontando la questione in "Fascisteria" ridimensionavo la portata delle rivelazioni di pentiti sulla presenza di uno dei leader più noti della destra radicale nella cosiddetta massomafia. Il capitolo è lungo ma nella buona sostanza è ancora valido l'intero discorso. Mancano ovviamente i riferimenti agli esiti processuali della maxinchiesta, che sono successivi alla pubblicazione. Lo rippropongo quindi qui, asciugato di alcune minuzie che lo appesantiscono, diviso in due parti per esigenze fisiche dei lettori.


 È un nome, quello di Freda, che può essere speso su molti tavoli, come nel luglio 1995 quando più di 250 ordini di cattura sono emessi per i rapporti tra terroristi neri e criminalità organizzata, sullo sfondo della rivolta per Reggio capoluogo. La sua fuga dal soggiorno obbligato di Catanzaro diventa l’occasione per stringere il patto tra servizi segreti, massoneria e mafia (anche se una diversa scuola di pensiero dietrologico afferma che il “triangolo maledetto” fosse attivo da anni e la sua scoperta sia costata la vita al pm Occorsio). Freda era scappato da Catanzaro tra la fine di settembre e i primi giorni di ottobre del 1978. Il 19 maggio 1979 lascia l’Italia e in sei giorni arriva a San Juan di Costarica, dove è arrestato il 20 agosto.
Il pentito Calore aveva raccontato tutta un’altra storia:

“Verso la fine del mese di settembre 1978 a casa di Aleandri a Roma, mi incontrai con Fachini che mi informò che era in fase esecutiva il progetto di permettere l’allontanamento di Freda dal soggiorno obbligato a Catanzaro. Aleandri e Fachini mi dissero che già da diversi giorni stavano cercando di mettere a punto l’operazione ma che le persone che intendevano utilizzare per portarla a termine, si trattava di persone dell’ambiente di Vigna Clara, a quanto mi dissero, si erano dichiarate all’ultimo minuto indisponibili. Mi fu chiesto allora se nel giro di una giornata ero in grado di reperire quattro persone e un paio di automobili per portare a termine l’operazione. Io allora avvisai Pancrazio Scorza, Ulderico Sica, Fausto Latini e Benito Allatta. Una delle autovetture doveva essere quella 127 di Fausto Latini, mentre l’altra me la feci prestare senza dire a cosa mi serviva da ...l’operazione riuscì. Freda a quanto mi disse Fachini avrebbe preferito restare in Italia essendo però assistito per tutte le sue necessità da 4 o 5 persone che avrebbero dovuto essere a sua disposizione. Noi facemmo sapere che tale soluzione non era praticabile e che se Freda fosse restato in Italia avrebbe dovuto attenersi alle norme che disciplinavano la vita dei latitanti”.
L’inchiesta calabrese nasce a Milano dal lavoro a tappeto sui pentiti del giudice Salvini e del capitano Giraudo. Alla procura antimafia di Reggio arriva un Tir di carte. Le indagini procedono nel riserbo consueto: già quattro mesi prima del blitz di luglio, stampa e televisioni annunciano 500 ordini di cattura per la connection terrorismo nero – ‘ndrangheta – servizi segreti. A Reggio si consuma così la madre di tutte le disfatte per il tanto vilipeso segreto istruttorio. La Repubblica del 30 marzo 1995 ha titolato: “I rapporti tra mafia, massoni, eversione nera e servizi deviati al centro dei controlli. Dai disordini del 1970 alle bombe sui treni. Nuova luce su più di vent’anni di criminalità. “Fate 500 arresti”. Reggio: maxinchiesta dalla rivolta a oggi”. Avvenimenti è più preciso: parla di 463 richieste di custodia cautelare e segnala il puntuale viaggio di Gelli a Reggio per controllare la situazione (dal 1° al 3 aprile). Il 18 luglio sono emessi 317 ordini di cattura contro 259 persone: 100 gli arresti, 76 le notifiche in carcere. Al termine della grande retata una sessantina di persone sono dichiarate irreperibili (27 erano latitanti da tempo). Le richieste di rinvio a giudizio sono complessivamente 502. Tra gli arrestati molti nomi di spicco: dall’ex deputato socialdemocratico Paolo Romeo, ritenuto uno dei capi della ‘ndrangheta, all’avvocato della famiglia Moro, Giuseppe Ruggiero, ex membro del CSM, accusato di aver intascato più di un miliardo per aggiustare processi. Gli avvisi di garanzia colpiscono ancora più in alto: l’ex ministro Riccardo Misasi, lider maximo della Dc calabrese e il presidente della prima sezione penale della Cassazione Corrado Carnevale, sono indagati per associazione mafiosa. Il primo come componente della “corona”, una specie di supercupola, e il secondo per aver accettato soldi per “sistemare” i processi. Per la strage di Gioia Tauro (sei morti nell’estate 1970 per quello che in un primo momento fu classificato come un incidente ferroviario) sono indagati due leader del comitato d’azione per Reggio capoluogo, eletti nelle liste del Msi il 27 marzo 1994: il senatore Renato Meduri e il deputato Fortunato Aloi, sottosegretario alla Pubblica Istruzione nel governo Berlusconi. Per i finanziamenti alla rivolta di Reggio – sulle cui barricate sono saliti i picciotti della ‘ndrangheta – è indagato l’armatore Amedeo Matacena sr., padre del deputato di Forza Italia sotto richiesta di arresto in un’inchiesta sulle cosche della piana di Sibari (nel 1992 avrebbe comprato voti per il vicesegretario liberale Bastianini). Un testimone autorevole, Mario Tuti, in tempi non sospetti, ridimensionava seccamente la volontà rivoluzionaria del gruppo dirigente della rivolta: “Proprio in quel periodo mi ero reso conto che il Msi (a cui sono stato iscritto fino al ’72) non aveva alcuna voglia di impegnarsi in avventure armate e lo stesso poteva dirsi per i vari gruppi extraparlamentari, visto che tutti si erano attivamente impegnati a mantenere sul piano della semplice manifestazione di piazza la rivolta di Reggio Calabria, mostrando chiaramente come in definitiva mirassero solo a risultati elettorali. E invece per me già allora Reggio Calabria sarebbe stata l’occasione preziosa, e come al solito sprecata, di dare una legittimazione e una base popolare alla rivolta armata contro il regime e magari per cercare di realizzare in Aspromonte i nostri sogni guerriglieri ... E siccome del nostro gruppetto pisano facevano parte diversi ragazzi calabresi che studiavano a Pisa – e di due ero particolarmente amico e sono andato diverse volte a trovarli proprio nei momenti caldi della rivolta – avevo potuto toccare con mano la scarsa voglia, anzi proprio l’opposizione ad ogni tentativo di alzare il livello dello scontro...”. In quei mesi, del resto, per Reggio passano, e sulla rivolta puntano, tutti i protagonisti della seconda ondata del terrorismo nero, da Concutelli a Vinciguerra. Una secca censura dell’inchiesta reggina veniva dal Tribunale della libertà che il 29 settembre rimette in libertà l’onorevole Romeo perché la Procura si è limitata ad usare le dichiarazioni dei collaboranti senza sottoporle al vaglio critico e quindi mancano elementi di certezza. La difesa ha facile gioco a dimostrare come uno dei pentiti che lo accusano, Filippo Barreca ha modificato le sue dichiarazioni dopo essere entrato in contatto con l’altro collaboratore Giacomo Lauro. La maxinchiesta uscirà fortemente ridimensionata dagli esiti giudiziari.
Il primo terrorista nero a denunciare l’esistenza della connection è Vinciguerra: “Durante il tentativo di golpe Borghese vi fu la possibilità di mobilitare quattromila uomini messi a disposizione in Calabria da Giuseppe Nirta”. La cosa non avrebbe avuto seguito per la richiesta da parte dei congiurati di un elenco nominativo degli ‘ndranghetisti mobilitati con compiti di polizia (l’arresto di militanti politici e sindacali di sinistra) ed essere schedati per “fare gli sbirri” non va a genio ai “fuorilegge” calabresi. Nirta sr. sarebbe stato tra i protagonisti della svolta a destra della ‘ndrangheta, organizzazione che ha avuto a lungo nei ranghi militanti e dirigenti di base del Pci, partito al quale si sentivano vicini molti boss della Locride per la sua carica antistituzionale e la vocazione a difendere gli interessi popolari.
La svolta sarebbe stata ratificata in un summit a Montalto il 26 ottobre 1969, il giorno dopo il comizio del comandante Borghese a Reggio Calabria, che dà il via a una campagna di attentati terroristici nel capoluogo ad opera del Fronte nazionale. Ad arricchire il fascicolo le confessioni di due pentiti di ‘ndrangheta, l’ex avanguardista reggino nazionale Carmine Dominici e il boss Lauro che ricostruisce i rapporti tra mala e “neri” durante la rivolta, confermando che a provocare la strage di Gioia Tauro (6 morti e 57 feriti per il deragliamento della “Freccia del Sud” il 22 luglio del 1970, otto giorni dopo l’inizio della rivolta) è stato un sabotaggio dei binari, fatti saltare con il tritolo da tre fascio–criminali, tutti già morti per cause naturali.
Le accuse di Lauro sono verbalizzate nel 1993 e si fondano sulle confidenze di un amico morto in carcere nell’87: “Ho conosciuto Vito Silverini negli anni 1969–70 perché era venuto a chiedere lavoro presso l’impresa Lauro che all’epoca gestiva servizi di pompe funebri, ambulanze e fiori (...) Durante i moti di Reggio era stato arrestato per aver partecipato attivamente alla rivolta e rimase in carcere per circa tre o quattro mesi. Silverini è un fascista di provata fede anche se era analfabeta. Dopo essere uscito dal carcere lavorò presso la mia impresa come operaio generico e mangiava a casa mia quasi tutti i giorni perché viveva da solo. In quel periodo frequentava il Comitato d’azione per Reggio capoluogo e quindi frequentava tutti gli esponenti del gruppo tra cui Renato Meduri, Natino Aloi, Angelo Calafiore, Ciccio Franco e altri”. Lauro si ritrova con Silverini in carcere e, sapendolo senza famiglia, si preoccupa delle sue condizioni: “Un giorno gli chiesi se avesse problemi economici e lui mi rispose che aveva un piccolo gruzzolo da parte, frutto di alcuni “lavori” che aveva eseguito in passato. In particolare per aver messo una bomba sui binari lungo la tratta Bagnara–Gioia Tauro che provocò il deragliamento di un treno che proveniva dalla Sicilia e la morte di sette–otto persone (...) Io ricavai l’impressione che a dare materialmente i soldi a Silverini fosse stato Renato Meduri con il quale, sia prima che dopo questo episodio, manteneva rapporti strettissimi”. Mentre le accuse contro il senatore di Alleanza nazionale sono frutto di un’impressione, l’esecuzione dell’attentato è descritta con grande dovizia di particolari: “Silverini mi raccontò che aveva portato la bomba insieme a Vincenzo Caracciolo sulla moto Ape di quest’ultimo e che lui stesso aveva confezionato l’ordigno, composto da candelotti di dinamite con accensione a mezzo miccia. Silverini era pratico della preparazione di ordigni esplosivi perché, come lui stesso mi aveva detto, aveva fatto il militare presso il Genio a Bolzano. Mi disse che si era nascosto nei pressi del luogo ove aveva collocato la bomba per vedere gli effetti della stessa e di aver visto il Questore Santillo, giunto poi sul luogo, che gridava infuriato. Mi disse ancora che la bomba aveva provocato la distruzione di circa settanta metri di binari e che l’incarico gli era stato conferito dal Comitato d’azione”. Per i due parlamentari le accuse sono “totalmente false”, Meduri denuncia per calunnia “quei tristi figuri”, Aloi, stupito dall’avviso di garanzia definisce l’attentato “doloroso e mostruoso”. Sdegnata la reazione del presidente del Consiglio regionale Giuseppe Scopelliti, segretario nazionale del Fronte della gioventù, un reggino che la rivolta non l’ha fatta (aveva tre anni e oggi è il presidente della Regione) eppure “è un fatto che appartiene a tutto il popolo di Reggio, ma se ci sono prove di coinvolgimenti di mafia, massoneria e servizi segreti deviati è bene che si sappia e che si vada fino in fondo”. Lo spettro delle dichiarazioni degli esponenti di Alleanza nazionale dopo il blitz rende conto 25 anni dopo della complessività della rivolta. Si va dalla stretta dichiarazione di appartenenza di Gasparri (“Ripropongono un minestrone ideologico–giudiziario già cucinato. Ricetta da anni ’70. Ci manca solo la Cia e il quadro è completo. Nessuno nega che lì ci sia la criminalità organizzata ma è contigua al potere, non contro”) alle argomentate contestazioni del vicepresidente del Senato Misserville e dell’ex ministro dell’Ambiente Mattioli: “La rivolta di Reggio – dichiara il senatore – non è stata un episodio di poco. Se ci fossero stati sospetti di collusione con la mafia, li avrebbero evidenziati e colpiti sin da subito. Non vorrei che questo di Reggio fosse il primo di una serie di fulmini contro di noi”. “Sono esterrefatto – incalza l’ex ministro – in tanti anni di Antimafia, mai è emerso alcun sospetto di saldatura tra ‘ndrangheta e rivolta. Ci avrebbero scannato. Ho riletto anche la relazione di Violante. Non c’è cenno”. L’ex sottosegretario alla Difesa, il palermitano Guido Lo Porto prende le distanze: “Fu una vera insurrezione di popolo contro chi prometteva e non manteneva. Che ci siano state strumentalizzazioni politiche non c’è dubbio. Ricordo i prodromi del brigatismo, ma anche gruppi radicali di destra. Probabilmente, non ho elementi per dirlo ma lo suppongo, ci sono anche state le strumentalizzazioni dei servizi segreti. Alla fine, comunque, grazie ad Almirante, sulle tentazioni pseudo–rivoluzionarie prevalse la destra legalitaria e democratica”. Lo Porto può essere stato spinto a un particolare prudenza e distacco per un condizionamento psicologico (un anno prima il pentito di una cosca lo aveva accusato di essere organico a Cosa nostra) ma in effetti, tranne un incidente “giovanile” (l’arresto con Concutelli nel 1968 mentre si addestrava a sparare col mitra: aveva 32 anni), è sempre stato saldamente moderato. E coglie nel segno quando evidenzia la doppiezza della rivolta. Il Msi fu colto alla sprovvista e in un primo momento prese le distanze per poi decidere di cavalcare la tigre sulla spinta della massiccia adesione popolare, realtà storica che da diversi punti di vista è confermata da Teodoro Buontempo e Mirko Tremaglia. “Er Pecora” polemizza: “La destra tradì il popolo. Fummo scelti dai reggini, non il contrario. Ma la destra incanalò la protesta verso il regime e non ebbe il coraggio di andare fino in fondo (...) Io ero giovane e ricordo all’epoca la nostra rabbia. Reggio rappresentò la prima rivolta antipartitocratica. Ma la rivoluzione finì ai banchi del Consiglio comunale”. Il notabile bergamasco calca la mano sulle due anime del Msi agli inizi degli anni ‘70: “La rivolta fu una cosa tutta reggina. Andavano per conto loro (...) Lo stesso Ciccio Franco, altro che guidarli, ne interpretava gli umori. Quando apprendemmo della rivolta, i più giovani ne erano galvanizzati. Ma il partito restò distaccato. Dopo, fummo vicini e apprezzammo”. Per un’altra campagna di attentati ai treni, rivolta ad impedire la grande manifestazione sindacale per “liberare Reggio” (otto bombe nella notte tra il 21 e il 22 ottobre 1972), quella immortalata nella canzone di Giovanna Marini I treni per Reggio Calabria, gli avanguardisti – secondo Vinciguerra – avrebbero usato timer dello stesso lotto della strage di piazza Fontana (un consistente quantitativo di quel tipo è stato acquistato da Freda e poi – a suo dire – ceduto a un sedicente ufficiale dei servizi algerini). Una notizia di seconda mano: all’epoca Vinciguerra era reggente di Ordine nuovo a Udine e solo in Spagna, nel 1974, è entrato in AN. I “picciotti” avrebbero compiuto nel corso della rivolta una cinquantina di attentati dinamitardi.
Uno spezzone dell’inchiesta, costruito sulle confessioni di un massone pentito, il notaio Pietro Marrapodi, riguarda invece gli affari delle logge, ma la questione ha nulla pertinenza con la questione che stiamo affrontando. A Secondo il pentito Lauro – che con un furto al caveau della Cassa di Risparmio di Calabria e Lucania di Reggio era venuto in possesso dell’agenda del maestro venerabile di Reggio negli anni ‘70, Zaccone – alla massoneria erano affiliati molti degli uomini che ricoprivano cariche istituzionali e, soprattutto, il presidente delle FFSS, Ludovico Ligato, il leader dc ucciso a Bocale nel 1991. Anche l’omicidio nel 1971 del procuratore generale di Catanzaro, Ferlaino, sarebbe da inquadrare nella svolta nei rapporti tra massoneria, neofascismo e ‘ndrangheta: l’alto magistrato, massone, si sarebbe opposto al nuovo corso che secondo Lauro cominciava ad attecchire al Sud sotto la regia di Gelli. I capi di molte ‘ndrine sarebbero entrati in massoneria dopo la prima guerra di ‘ndrangheta (1976–77) per gestire il potere economico e intervenire direttamente per aggiustare i processi: Luigi Ursino, i Nirta, i De Stefano, Paolo Romeo, i Mammoliti, i Piromalli. I capi dei capi. La scelta coinciderebbe – per gli inquirenti – col passaggio dall’alleanza con la destra eversiva all’appoggio ai partiti di governo, schema contraddetto da alcuni fatti, come la gestione della latitanza di Freda. Per il pentito Giovanni Gullà, che rivendica una militanza giovanile nel Movimento studentesco e sostiene di avere incontrato i boss frequentando l’ambiente del Pci, “nell’onorata società coesistevano i sostenitori del Pci e quelli della Dc, ma c’erano quelli che parteggiavano per l’estrema destra. Nel 1980 i vertici decisero di appoggiare il Psi”.
L’idea–forza che ‘ndrangheta e massoneria fossero un’unica realtà e che la P2 si fosse rigenerata nella rete di logge coperte che facevano capo alla Grande Loggia di Piazza del Gesù ha pervaso l’indagine estesa sul territorio nazionale nel 1992 dal procuratore di Palmi, Agostino Cordova, protagonista di un durissimo scontro con il presidente della Repubblica Cossiga, deciso a tutelare la libertà di associazione massonica. L’intero impianto accusatorio dell’Operazione Olimpia – proprio per lo sforzo esasperato di sistematizzare e ridurre a unità di una realtà complessa e contraddittoria – lascia perplessi. È probabile che numerosi ‘ndranghetisti abbiano partecipato alla rivolta: da alcuni secoli la base di massa dei mob urbani è costituito da lumpen. Molti neofascisti sono passati nei ranghi della malavita ed è possibile che all’inizio degli anni ‘70 esistessero rapporti personali tra ultrà neri e malandrini poi sfociati in rapporti criminali organici. Quello però che i 27 “pentiti” e i magistrati non possono riscrivere è la storia della ‘ndrangheta come associazione criminale, che alla fine degli anni ‘60 è un fenomeno prevalentemente rurale, con caratteristiche fortemente arcaiche. L’accumulazione primitiva di capitali che permetterà alle cosche reggine di compiere il processo di modernizzazione e di affacciarsi sul mercato internazionale degli stupefacenti accadrà soltanto nella seconda metà degli anni ‘70: con la conquista degli appalti sul porto di Gioia Tauro (che ricopre lo stesso ruolo storico del sacco edilizio di Palermo negli anni ‘60 per Cosa Nostra) e i sequestri di persona organizzati in mezza Italia da affiliati inviati al soggiorno obbligato. E questo è evidente nel primo grande processo contro la nuova ‘ndrangheta dove il “banchiere” del clan De Stefano, Carmelo Cortese, risulta fallito per non essere riuscito a incassare cambiali di piccolissimo taglio per 300 milioni, emesse da centinaia di clienti per pagargli la biancheria comprata a rate. Il maggior clan reggino non dispone di una liquidità relativamente modesta né è in grado di garantire un controllo del territorio tale da impedire la bancarotta del suo “forziere”. Carmelo Cortese, titolare della RAF, fabbrica di biancheria con 30mila clienti in Calabria (socia di minoranza la moglie di Paolo De Stefano) è imputato nel primo maxiprocesso per il vorticoso giro di assegni postdatati con esponenti di spicco del clan (uno risulterà intestato anche al marchese Zerbi, proconsole reggino di Delle Chiaie, ma è dimostrato che i due non si conoscono), metodo truffaldino per garantirsi a vicenda liquidità. Una sola denuncia per contrabbando, sotto processo per peculato ma anche numerose onorificenze per l’attività imprenditoriale e una passione maniacale per le frequentazioni con mafiosi di alto rango Carmelo Cortese riporterà una condanna irrisoria: 18 mesi con un anno di condono. E due anni dopo figurerà regolarmente nel pie’ di lista della loggia P2. Per sostenere l’ipotesi di una massiccia confluenza di ‘ndranghetisti nelle logge, occorre superare l’ostacolo dell’evidente incompatibilità tra due associazioni che pretendono entrambe fedeltà assoluta. A questo scopo i “pentiti” hanno riscritto l’organigramma della ‘ndrangheta, inserendo la figura del santista, autorizzato ad avere rapporti con massoni ma anche con poliziotti e confidenti (condotta assolutamente vietata dai codici d’onore). Un rito di giuramento sequestrato a Giuseppe Chillà prevede il rinnegamento dell’onorata società per abbracciare quella dei “fratelli muratori”. (1-continua)

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