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5 ottobre 1980: Manconi rompe il silenzio dei garantisti sulla morte di Nanni

 


(umt) Nel libro "Quando hanno aperto la cella. Storie di corpi offesi", Luigi Manconi e Valentina Calderone dedicano un intero capitolo a Nanni De Angelis, trovato impiccato a Rebibbia, il giorno dopo l'arresto e un brutale pestaggio in questura.

L'exerge è un verso di Massimo Morsello:

"Cosa importa se la morte te l’ha data un’altra mano o te la sei data tu".

Il finale del capitolo sottolinea il vergognoso silenzio dei garantisti sulla vicenda di Nanni

Nanni De Angelis, 5 ottobre 1980

Nazareno De Angelis, detto Nanni, nasce a Roma il 31 luglio del 1958. Fin da piccolo, insieme al fratello Marcello, mostra un grande interesse per la politica. Inizia a militare nell’area dell’estrema destra italiana, diventando in breve il responsabile «militare» di Terza posizione della sua zona, il quartiere Trieste-Parioli. Tra i suoi amici più stretti, Massimiliano Taddeini e Luigi Ciavardini. Il secondo avrà un ruolo importante in questa storia.

Nel 1980 Ciavardini intraprende con maggiore determinazione la strada della lotta armata, entrando a far parte dei Nuclei armati rivoluzionari. Il 28 maggio 1980 compie, con alcuni militanti dei Nar tra cui Valerio Fioravanti, un’azione ai danni di una pattuglia di poliziotti in borghese in servizio davanti al liceo romano Giulio Cesare, teatro, in questi anni, di molti scontri tra opposti gruppi politici. Il progetto dei Nar è quello di impadronirsi delle armi dei poliziotti, ma la situazione precipita rapidamente. In macchina ci sono due agenti. Un terzo è fuori, ma i neofascisti se ne accorgono troppo tardi. Perdono il controllo della situazione e iniziano a sparare. Uno dei poliziotti all’interno della vettura viene crivellato di colpi. Si chiama Francesco Evangelista, detto «Serpico», ed è ritenuto uno dei migliori poliziotti della questura di Roma. Morirà poco dopo. 

Ciavardini e Fioravanti si avvicinano alla macchina per impadronirsi della mitraglietta che si trova all’interno. Fioravanti spara altri colpi e una delle pallottole di rimbalzo colpisce Ciavardini al volto. Questi, gravemente ferito, scappa in motorino, cade dopo pochi metri e ferma un taxi che lo riporterà a casa. Il giorno dopo, però, il tassista fornisce alla questura l’identikit e l’indirizzo di Ciavardini, il quale, prudentemente, si è già dato alla latitanza. Non può usufruire di una rete di appoggio e, dunque, si affida agli amici di sempre, Taddeini e De Angelis. 

Anche quest’ultimo nel frattempo si è reso latitante, perché ricercato per «associazione sovversiva»: e tuttavia non si sottrae alla richiesta d’aiuto proveniente da Ciavardini. Prima progettano insieme la fuga all’estero, poi Ciavardini convince De Angelis a restare a Roma. Ha un amico che può aiutarli a nascondersi.

L’appuntamento è per il 4 ottobre, in via Nazionale. Ciavardini vorrebbe andarci da solo. De Angelis tuttavia ottiene di accompagnarlo. Nel luogo dell’incontro però trovano i poliziotti ad aspettarli. De Angelis prova a scappare, viene inseguito, raggiunto e messo a terra. Qui avviene un violento pestaggio: De Angelis è scambiato per Ciavardini e, al suo posto, subisce l’ira dei poliziotti per l’omicidio di Francesco Evangelista. In caserma riceve lo stesso trattamento. 

Secondo la testimonianza di Ciavardini, al loro arrivo trovano due file di poliziotti, prima in cortile e poi in corridoio. De Angelis viene fatto passare in mezzo a loro, subendo una lunga serie di colpi. È un massacro. Nel pomeriggio De Angelis viene portato all’ospedale San Giovanni, i sanitari lo ricoverano e indicano una prognosi di almeno sette giorni. Incredibilmente – e qui sta, con tutta probabilità, il passaggio cruciale della vicenda – il giorno dopo, 5 ottobre, De Angelis viene portato a Rebibbia e messo in isolamento. Dopo venti minuti viene trovato impiccato.

In Parlamento, nella risposta all’interrogazione del senatore Michele Marchio, il sottosegretario Angelo Sanza evidenzierà, forse suo malgrado, proprio quel punto essenziale: nonostante la disposizione medica del «ricovero in osservazione» presso l’ospedale San Giovanni, con una prognosi di sette giorni, De Angelis viene «dimesso nella tarda mattinata del 5». 

Il trasferimento dall’ospedale al carcere di Rebibbia presenta ulteriori irregolarità. Inizialmente, la destinazione doveva essere il centro clinico di Regina Coeli, ma il percorso viene modificato; agli operatori del 118, poi, secondo la testimonianza dell’autista, non viene «consegnata alcuna certificazione medica, né copia della cartella clinica». Ma saranno i risultati dell’autopsia a evidenziare crudelmente quanto il corpo di De Angelis abbia patito e quanto sia rimasto profondamente segnato.

La descrizione del volto effettuata dai medici è eloquente: si parla di «aree escoriate di forma irregolare» ricoperte da «piccole croste ematiche e polvere bianca», «escoriazioni di centimetri due» che «si inseriscono in un’area ecchimotica» e altro ancora.

Ma il resto del corpo non viene risparmiato: ecchimosi di varia grandezza e colore sul torace, sulla schiena, escoriazioni sulle braccia, i gomiti, le gambe. La madre di De Angelis, la signora Rosa, sarà l’unica a vedere il corpo del figlio all’obitorio: «Era quasi irriconoscibile. Povero Nanni. Lo hanno massacrato».

Ma non sono solo i segni visibili sul corpo a indicare le sofferenze inflitte a De Angelis: «Interrogandosi sulle condizioni neurologiche» scrive Luca Telese in Cuori neri «i periti dell’autopsia spulciano anche nelle cartelle di ricovero immediatamente successive all’arresto: all’ospedale San Giovanni, due ore circa dopo il fatto, il paziente viene dichiarato “in stato di incoscienza”. 

Si tratta di un punto estremamente importante, perché a nostro giudizio dovrebbe essere oggetto di un ulteriore approfondimento istruttorio. Quello stato, spiegano, sarebbe la prova “di uno stato di sofferenza del sistema nervoso centrale”».

Secondo il fratello, Marcello De Angelis, la commozione cerebrale, tanto più pericolosa perché in precedenza Nanni aveva già subito dei traumi – «l’ultimo sei mesi prima, durante una partita di rugby» –, viene totalmente sottovalutata e trascurata. E potrebbe essere questa la causa prima della morte. «L’ultima volta che hanno verificato la sua condizione in cella» racconta «erano le 17: era sdraiato sul letto, lo sguardo fisso. Tra quel momento e l’ora indicata come quella del decesso, sarebbero trascorsi appena venti minuti, nel corso dei quali Nanni avrebbe strappato un lenzuolo, lo avrebbe intrecciato per ricavarne un laccio e un cappio e ci si sarebbe impiccato. Ma la distanza tra il nodo e il pavimento, considerata l’altezza di mio fratello, è tale da presupporre che si sia dovuto buttare in ginocchio per rimanere soffocato. La famiglia apprenderà della morte di Nanni solo dal telegiornale della sera.

Nonostante il corpo martoriato indichi chiaramente che De Angelis abbia subito violenze, nonostante la cartella clinica del San Giovanni mostri le sue gravi condizioni (e indichi che De Angelis sarebbe dovuto rimanere sotto osservazione in ospedale), nessun approfondimento di indagine viene disposto. Quattro anni dopo, i due procedimenti originati dalla morte di De Angelis (l’uno per omicidio colposo, l’altro per lesioni gravi) vengono archiviati.

La vicenda dell’arresto, del ricovero, della reclusione e, infine, della morte di De Angelis richiama atti e comportamenti, meccanismi e procedure già descritti nelle pagine precedenti. Sembra riproporsi qualcosa di simile a una specie di «modello» di trattamento degli «individui pericolosi» da parte delle forze dell’ordine. De Angelis viene presentato come un pericolo pubblico da mettere nelle condizioni di non nuocere a qualunque costo e, se necessario, fino all’annichilimento. 

D’altra parte, la sua figura si presenta come tra le meno dotate di difese e guarentigie: la riprovazione nei suoi confronti, anche in ragione dell’accusa falsamente mossagli di aver ucciso un poliziotto, è prevedibilmente accentuata dall’etichetta che motivatamente lo accompagna: quella di fascista. Si può dire, in altri termini, che – per quanto riguarda una quota significativa dell’opinione pubblica e del sistema mediatico – non vale per De Angelis e per quelli della sua parte quella sorta di «attenuante generica», per quanto raramente dichiarata e quasi mai ammessa, applicata nei confronti di coloro che a sinistra praticavano la «lotta armata». Ovvero il fatto di essere in qualche misura «compagni che sbagliano».

È quanto argomenterà saggiamente Leonardo Sciascia, citato da Luca Telese in Cuori neri, quando, in A futura memoria scriverà:

Fra le cose che mi rimprovero come viltà, viltà personale, anche se si tratta di viltà sociologica e storica, c’è quella di non aver preso le difese di certi fascisti quando mi è sembrato che fossero accusati ingiustamente. Se fossero stati rampolli della sinistra da un pezzo mi sarei dato da fare per loro, avrei sottoscritto petizioni… Ma ahimè, appartengono alla destra, e allora, anche se intuisco che qualcosa non funziona, nei processi a cui sono sottoposti, non mi sento abbastanza sollecitato a indagare più a fondo.

Qui non si intende richiamare un’antica polemica sulle ambiguità culturali e politiche che si manifestarono a proposito delle origini del terrorismo di sinistra e a proposito delle aree di consenso intorno a esso. Si vuole piuttosto sottolineare come quelle ambiguità, diffuse in una certa mentalità e in alcuni segmenti del sistema mediatico, che funzionavano in qualche modo da schermo, ancorché assai fragile, per il terrorismo di sinistra, non valevano – certo non valevano in quella misura – per il terrorismo di destra.

Questo contribuì ad archiviare senza alcuna reale contestazione di natura politica o legale la morte di De Angelis.

Come si è detto l’autorità giudiziaria deciderà per il non luogo a procedere nei confronti degli agenti che hanno partecipato al suo arresto; e, per quanto riguarda la morte in carcere, non verrà svolta alcuna indagine approfondita e non verrà verificata alcuna responsabilità, nemmeno di omissione o negligenza.

Insomma, l’archiviazione giudiziaria e politica della morte di De Angelis risulta agevolata dal contesto in cui matura. La vittima appartiene all’area del neofascismo rivoluzionario: quello che ha rotto violentemente con la linea politica del Movimento sociale italiano (pur conservando qualche residua relazione con settori di esso), ritrovandosi isolato in una situazione di assoluta marginalità. Di fronte alla morte, così densa di aspetti contraddittori, di un giovane di 22 anni, a parte qualche rarissima eccezione (come quella, già ricordata, del senatore Marchio), non si ode, nella società italiana, alcuna voce garantista.

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